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Abelardo

Vita e pensiero del filosofo.

Vita e opere La vita di Abelardo compendia emblematicamente i mutamenti e le irrequietezze dell’età  nuova, in bilico tra il monastero e la scuola. Egli stesso ne ha svolto il racconto nella Storia delle mie sventure (Historia calamitatum mearum), seguita da una serie di lettere scambiate tra lui e l’amata Eloisa, nonchò da una regola destinata al monastero di Paracleto. Si tratta di una ricostruzione letteraria a distanza dai fatti, nella quale Abelardo presenta se stesso come vittima di invidie e complotti e la propria vicenda – sulle orme di Agostino -, come un itinerario dal peccato alla salvezza. Ma essa informa anche su alcuni fatti fondamentali della sua vita: Abelardo nasce nel 1079 a Pallet – a sud est di Nantes – nella Bretagna; figlio di un cavaliere, rinuncia ai beni e alla carriera delle armi per dedicarsi agli studi dapprima a Loches (nella zona della Loira), dove insegna Roscellino (l’iniziatore del cosiddetto “nominalismo”) e poi a Parigi, dove fioriscono gli studi di dialettica. Qui segue le lezioni di Guglielmo di Champeux, ma ardisce criticarne le tesi sugli universali (Guglielmo sarà  costretto a rivedere le proprie posizioni), cosicchò è costretto a trasferirsi prima a Melun, e poi a Corbeil, dove insegna a sua volta, riscuotendo grande successo e ottenendo una fama di grande dialettico. Dopo aver trascorsoqualche anno in Bretagna, torna a Parigi e ascolta nuovamente Guglielmo, divenuto canonico di San Vittore, ma nascono nuovi contrasti; Guglielmo si ritira nell’abbazia di San Vittore e nel 1113 diventa vescovo di Chalons, mentre Abelardo tiene scuola a Parigi, sulla riva sinistra della Senna – a Sainte-Genevieve – allora situata fuori dalle mura della città . Dopo un altro viaggio in Bretagna, nel 1113 si reca a Laon, per studiare scienza sacra con Anselmo di Laon, ma nello stesso anno torna a Parigi, alla scuola episcopale nel chiostro di Notre-Dame, per insegnarvi non solo dialettica, ma anche teologia. In questo periodo – col denaro degli allievi – egli può vivere libero dal controllo delle superiori autorità  ecclesiastiche. Qui avviene il suo incontro con Eloisa, nipote di un canonico di Notre-Dame, Fulberto: ò amore a prima vista, Abelardo – convinto di essere bello e colto a sufficienza per far colpo sulla ragazza, che primeggia a sua volta per bellezza e cultura- fa di tutto per poter diventare suo precettore, e ci riesce. L’amore nasce improvviso verso la fine del 1115 o gli inizi del 1116; quando Fulberto li scopre, Eloisa è già  incinta. Abelardo la porta in Bretagna presso la sua famiglia e qui – verso la fine del 1116 – Eloisa partorisce un figlio, al quale è dato il nome di Astrolabio (“rapitore delle stelle”). Tornati a Parigi, Eloisa e Abelardo si sposano in segreto, ma Fulberto divulga la notizia: la coppia smentisce e si separa, Eloisa si ritira ad Argenteuil, dove poi si farà  monaca: Abelardo la ripudia come moglie perchè teme di perdere i suoi privilegi. Fulberto e i parenti, adirati dalla volontà  di Abelardo di liberarsi di Eloisa, si vendicano e lo fanno evirare da sicari nel cuore della notte. Verso la fine del 1117 o l’inizio del 1118 anche Abelardo prende l’abito monastico, ma continua a insegnare logica e teologia in una scuola aperta nella Champagne. Attaccato dai maestri della scuola episcopale di Reims per le tesi sulla Trinità  sostenute nel suo scritto Teologia del Sommo Bene, è citato nel 1121 al Concilio di Soissons, dove l’arcivescovo e il legato pontificio lo condannano a bruciare il libro e a rinchiudersi in monastero a Soissons: a tal punto era temuto per il suo talento retorico, che gli vietarono di parlare in processo, nel timore che egli convincesse delle sue tesi la “platea”, e così fu costretto a rispondere semplicemente con dei “sì” o con dei “no”. Successivamente, il legato lo autorizza a rientrare nell’abbazia di Saint-Denis, ma qui insorgono nuovi contrasti con l’abate, che vuole accusarlo davanti al re. Abelardo fugge a Provins, ma una donazione gli permette di stabilirsi eremita con un discepolo a Quincey, dove fonda un oratorio, denominato il Paracleto, ossia lo Spirito Santo, e anche qui vi apre una scuola, sovvenzionata dagli allievi. Tra il 1125 e il 1128 lascia il Paracleto per diventare abate di Saint-Gildas nella diocesi di Vannes in Bretagna: qui trova monaci ignoranti, rozzi e viziosi, che cercano di farlo assassinare. Riprende contatti con Eloisa, ora badessa di Argenteuil, invitandola a stabilirsi con le monache al Paracleto, dove Abelardo periodicamente compie visite e pronuncia prediche. A questo punto terminano i fatti raccontati da Abelardo stesso, ma sappiamo che nel 1136 egli tiene nuovamente una libera scuola di dialettica e teologia a Parigi, ove ha tra i suoi discepoli anche Arnaldo da Brescia e Giovanni di Salisbury. Scoppia in questi anni l’ostilità  di Guglielmo di Saint-Thierry e di Bernardo di Chiaravalle nei confronti delle sue dottrine: nel 1140 Bernardo ottiene dal concilio di Sens la sua condanna – ratificata dal papa -, Abelardo allora si ritira presso Pietro il Venerabile nell’abbazia di Cluny, in Borgogna, dove muore nel 1142. Il pensiero San Bernardo da Chiaravalle – fiero sostenitore delle Crociate e della “militia Christi”- definì Abelardo un combattente sin dall’infanzia e in una sua lettera a Eloisa, Abelardo stesso confessa: “la logica mi ha reso odioso al mondo… ma io non voglio essere filosofo in modo da oppormi a Paolo, nò essere un Aristotele in modo da separarmi da Cristo”. In una sostanziale adesione al messaggio cristiano, Abelardo non ebbe tuttavia mai dubbi sulle sue capacità  intellettuali e argomentative: si definiva addirittura “il più grande filosofo del mondo”, superiore a Platone e ad Aristotele. Il suo insegnamento e i suoi primi scritti riguardano la logica: l’ordine che egli segue è quello della “logica vetus”, iniziando con la lettura dell’Introduzione di Porfirio alle Categorie di Aristotele. Abelardo compone glosse a questo scritto (le Glossae super Porphyrium), forse raccolte dai suoi uditori e poi riviste da lui stesso, poi una Logica per i principianti, e una Logica nostrum, e successivamente una Dialettica. In seguito, egli estende l’uso della dialettica anche all’esame di questioni teologiche e a partire dal 1118 compone, oltre alla Dialettica, la Teologia del Sommo Bene, la Teologia cristiana e il Sic et non. Abelardo scrisse anche glosse alla Lettera ai Romani di S. Paolo, sermoni, inni religiosi e probabilmente anche poesie d’amore. Tra i suoi ultimi scritti sono il Conosci te stesso (Scito te ipsum) o Etica, e, incompiuto, il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano. Gli interessi iniziali di Abelardo sono soprattutto per la logica o dialettica, che egli intende come arte di distinguere la verità  o la falsità  del discorso. I discorsi sono fatti di termini, si tratterà  allora di investigare l’uso e il significato dei termini: questo orientamento rimarrà  caratteristico di tutto l’itinerario d’indagine di Abelardo. Tra i termini sono soprattutto i termini universali, ossia i generi e la specie, come “animale” “uomo”, “cavallo” e così via, a sollevare un greve problema. La tradizione del platonismo cristiano aveva identificato questi termini con le idee o le ferme presenti nella mente di Dio, le quali costituiscono i modelli archetipi delle cose create da Dio; quindi essi rappresentano anche la sostanza delle singole cose create, ciò che ciascuna di esse propriamente ò. Per esempio, la sostanza dell’individuo Socrate ò quella di essere un animale razionale: sono il genere (animale) e la specie (uomo) ai quali Socrate appartiene che determinano che cosa Socrate propriamente ò. Questa soluzione del cosiddetto problema degli “universali” (così caro ai Medievali) sarà  detta in età  moderna “realismo”, in quanto per essa l’universale ò una realtà  vera e propria, esistente autonomamente (alla pari delle idee platoniche). Ma all’inizio del XII secolo emergono nuove prospettive nell’affrontare questo problema, in particolare esse considerano l’universale non tanto dal punto di vista di Dio, quanto dal punto di vista dell’uomo che parla e pensa. Che cosa sono i termini universali, di cui i discorsi sono costellati? Uno dei primi maestri di Abelardo ò Roscellino di Compiògne, nato verso il 1050 e morto verso il 1120. Di Roscellino ò conservata soltanto una lettera ad Abelardo, ma il contenuto delle sue dottrine ò ricavabile da quanto ne dicono i suoi avversari, Anselmo di Aosta e appunto Abelardo. Secondo Anselmo, Roscellino rientra tra quei dialettici, che ritengono che gli universali non siano altro che emissioni di voce (flatus vocis); alla base di questa concezione ci sarebbe l’assunzione che realtà  vere e proprie sono soltanto quelle individuali e che i termini universali sono soltanto parole, suoni fisici, sensibili, i quali non si riferiscono a presunte entità  universali: tale dottrina sarà  denominata in età  moderna nominalismo estremo. Essa mostrava la sua pericolosità  non appena veniva applicata ad un problema teologico come quello della Trinità ; Anselmo infatti accusa Roscellino di prevenire, mediante le sue premesse nominalistiche, a una sorta di triteismo, ossia a concepire le tre persone della della Trinità  come tre individui distinti, poichò l’unità  della Trinità  non sarebbe per lui un’unità  di sostanza, ma soltanto di somiglianza o uguaglianza. Nel 1092 questa dottrina trinitaria ò condannata dal Concilio di Reims come eretica. L’altro maestro con cui Abelardo inizialmente studia ò Guglielmo di Champeaux (1070-1121 circa). In una prima fase, questi ò sostenitore di una forma di realismo: gli universali, ossia i generi e le specie, sono entità  reali esistenti in sò. Una specie ò una sostanza unica, che ò presente essenzialmente, non accidentalmente, in tutti gli individui che ne partecipano; gli individui differiscono, dunque, tra loro soltanto per accidente. Così la specie uomo è presente in tutti gli individui, quali Socrate, Platone e così via, che sono appunto detto uomini. Le differenze tra gli individui rientranti nella stessa specie sono date esclusivamente da proprietà  accidentali, variabili e casuali (per esempio, statura, colore dei capelli, professione e così via). A questa posizione Abelardo mosse l’obiezione che essa conduceva a ritenere inessenziali le differenze tra specie e tra individui (e Guglielmo cambiò allora idea). La concezione di Guglielmo comporta, infatti, che il genere animale sia presenta in tutti gli animali, sia privi sia dotati di ragione; di conseguenza l’essere o no dotati di ragione non costituisce una differenza sostanziale. Ma allora vi sono due possibilità : o nella stessa sostanza (animale) ci saranno proprietà  contrarie (razionalità  e irrazionalità ) oppure queste proprietà , trovandosi in un’unica sostanza, non saranno più contrarie. La prima alternativa è assurda, perchò i contrari non possono coesistere in una stessa sostanza: come non si può contemporaneamente bianchi e neri, così non si può essere insieme razionali e irrazionali; ma è assurda anche la seconda alternativa, perchò possedere la ragione è il contrario di non possedere la ragione. Se la sostanza dell’uomo e del cavallo ò, parimenti, l’essere animale, dobbiamo forse dire che la razionalità  ò un accidente? Forse in seguito a queste critiche di Abelardo, Guglielmo corresse la propria teoria, sostenendo che gli universali sono presenti negli individui non essenzialmente, ma in maniera “indifferenziata”. Per esempio, Socrate e Platone sono entrambi uomini, in quanto in ciascuno di essi è presente l’universale, la specie uomo, ma questa è presente in essi non essenzialmente, bensì indifferentemente: Guglielmo intende dire che ciò rispetto a cui Socrate è un uomo non è differente da ciò rispetto a cui Platone è un uomo. Abelardo riprende la definizione aristotelica di universale come ciò che può essere predicato di molte cose: di Socrate si può dire che è uomo, ma questo si può dire anche di Platone o di Aristotele. Se è così, l’universale non è nò una realtà  a sò stante, nò un puro suono: Abelardo respinge in tal modo sia il realismo, sia il nominalismo estremo. L’universale non può essere una res, una cosa, poichò una res è un’entità  individuale autosussistente e in quanto tale non può essere predicata di un’altra. Non si può dire di una cosa individuale, per esempio Socrate, che è un’altra cosa individuale, per esempio Platone, proprio perchò – secondo Abelardo – una res non può essere predicata di un’altra res: viene così smentita la possibilità  che gli universali siano entità  a se stanti. Ma se l’universale non è una res, ciò non vuol dire che esso sia un puro suono, perchò anche un suono, per esempio il suono “Platone”, è un’entità  individuale e quindi anch’esso non può essere predicato di altro. La soluzione di Abelardo (non assimilabile nè al realismo nè al nominalismo) consiste nel dire che l’universale è sermo, ossia parola, ma parola intesa non come semplice insieme di suoni fisici, bensì dotata di significato, ossia riferentesi a qualcosa. Il problema degli universali diventa allora il problema di che cosa e come significhino questi termini universali e le proposizioni che essi contribuiscono a costituire. Il testo a cui Abelardo si richiama per elaborare la sua teoria del significato è il De interpretatione di Aristotele. L’immaginazione, che Aristotele aveva chiamato fantasia, forma immagini di ciò che non è più presente ai sensi, ma anche di cose irreali che non sono mai state presenti ai sensi (per esempio, di mostri). Inoltre, è possibile formarsi immagini di entità  particolari, per esempio di Platone, ma anche di corporeità  o di razionalità  o di uomo in generale. In quest’ultimo caso, si tratta dell’immagine comune e confusa di tutti gli uomini, di ciò che essi hanno di simile, senza che sia proprio di uno o qualcuno soltanto di essi. Di per sò, le immagini non sono sostanze: esse sono usate come segni per riferirsi ad altre cose: infatti quando si sente la parola “uomo” sorge nell’animo – secondo Abelardo – qualcosa che si riferisce agli uomini individuali presi in comune e non ad uno di loro con precisione. Tale posizione sarà  in seguito denominata concettualismo. Mediante termini dotati di significato, si possono formare proposizioni dotate di significato, per esempio, la proposizione “Platone è uomo”. In tal caso, si considerano le due immagini – Platone e uomo – e mediante esse l’intelletto giunge a comprendere la verità  di questa proposizione. Ma le proposizioni non sono come i nomi propri (per esempio, il nome di persona Platone), che si riferiscono semplicemente e direttamente a cose. Chiariamo questo punto con un esempio: la proposizione “se x è un uomo, x è un animale” è vera anche nel caso che ogni forma di vita sia distrutta nel mondo. Ossia, come si ò detto, “ciò che la proposizione asserisce può sussistere anche quando non sussistono più gli oggetti denotati”: se anche sparissero improvvisamente dal mondo tutte le rose, il termine “rosa” continuerebbe ad avere il suo significato. In altre parole, le proposizioni non significano cose, ma relazioni tra cose, il modo in cui le cose sono tra loro collegate; ò in riferimento ad esse che si può dire se una proposizione ò vera o falsa. Il verbo “essere” usato come copula (“il sole ò splendente”) non indica che una qualità  appartiene o inerisce a un soggetto, ma che due termini sono correlati tra loro in un determinato modo. Questa analisi della proposizione può essere utilizzata per chiarire il modo in cui i termini universali significano qualcosa o si riferiscono a qualcosa. Infatti, secondo Abelardo, non esiste un’entità  uomo, esistono gli uomini: tuttavia gli uomini sono simili nello status (o natura) di essere uomini; questo status però non è una cosa, ma non è neppure nulla: è il modo in cui le cose sono. E’ questo status che fa sì che noi possiamo usare la parola uomo per descrivere tutti gli uomini. Nel comprendere i termini universali e le proposizioni contenenti termini universali, l’intelletto umano è aiutato dall’immaginazione, che forma immagini di ciò che è comune e delle relazioni tra le cose menzionate nella proposizione. Ad esso, tuttavia, compete il compito di giudicare la verità  o la falsità  delle proposizioni; in tal senso, la logica, (o dialettica) è appunto la disciplina che discrimina tra vero e falso. Scrive Abelardo sulla questione degli universali nelle Glosse su Porfirio: “Viste le ragioni per le quali le cose nè singolarmente nè collettivamente prese si posson dire universali, in quanto l’universale si predica di molti, resta che attribuiamo l’universalità  solo alle parole. Come dunque certi nomi son detti dai grammatici appellativi, e certi altri propri, cosà­ dai dialettici certe espressioni semplici son dette universali, certe altre particolari, ossia singolari. L’ universale ò un vocabolo trovato in modo da esser capace di essere predicato singolarmente di molti, come per esempio il nome uomo ò unibile ai nomi particolari degli uomini, per la natura dei soggetti reali ai quali ò imposto. Il singolare, invece, ò quello che ò predicabile di uno solo, come per esempio Socrate, quando ò preso come nome di un uomo solo. Se infatti lo si assume equivocamente, non si ha piຠuna parola sola, ma molte per il significato, poichè, secondo Prisciano, molti nomi possono essere impliciti in un’unica espressione verbale. Quando si descrive l’universale come ciò che si predica di molti, quel ciò che non solo indica la semplicità  dell’espressione per distinguerlo dai discorsi composti, ma anche l’unità  del significato, per distinguerlo dai termini equivoci”. Della concezione abelardiana si ricorderà  lo stesso Umberto Eco, in Il nome della rosa, quando – in chiusura del suo capolavoro – scriverà : “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Abelardo passa successivamente ad affrontare questioni teologiche, quando ha ormai elaborato questo ricco bagaglio di analisi logiche: ritiene che, finchò la ragione ò nascosta, ò necessario ricorrere all’autorità ; ma in ciò che può essere discusso dalla ragione, tale ricorso non ò più necessario. Sulle cose divine la ragione da sola ò insufficiente, può pervenire soltanto a soluzioni verosimili, non contrarie alla fede. Ciò non significa che sulle cose della fede non si debba discutere: anche per credere occorre intendere (come già  diceva Anselmo) ciò che si crede e rendersi conto che i contenuti della fede non danno luogo a proposizioni contraddittorie. Inoltre, per controbattere coloro che fanno un cattivo uso della dialettica anche in ambito teologico, occorre, comunque, saper usare la dialettica. Abelardo afferma nella Dialettica: “Ogni scienza ò buona, anche quella che tratta del male”. Il ricorso alla ragione ò tanto più importante in quanto non di rado i Padri della Chiesa paiono enunciare opinioni contrastanti sulle stesse verità  della fede: Abelardo ò tra i primi a formulare una serie di criteri per valutare ed eventualmente appianare tali divergenze. Ciò avviene in una delle opere più emblematiche dal punto di vista del metodo, il Sic et non, letteralmente il “sì e no”. E’ uno scritto a carattere didattico, che intende addestrare i giovani teologi alla ricerca della verità : si parte da un problema, si elencano le soluzioni non di rado contrastanti, almeno apparentemente, date ad essa da parte dei Padri della Chiesa, desumendole dai loro scritti, e infine si tenta d’individuare dove stia la verità . Nel Sic et non, Abelardo affronta circa 150 problemi teologici, raggruppati per temi. Per dissolvere o ridurre le apparenti contraddizioni nelle soluzioni proposte dalla tradizione, Abelardo enuncia alcune regole: in primo luogo, si tratta di accertare se certe espressioni non sono poi smentite dagli stessi autori oppure se riferiscono opinioni altrui, inoltre, occorre soprattutto tener conto del fatto che le medesime parole sono sovente usate da autori diversi con significati diversi, perchè ogni autore ha un suo specifico modo di parlare e di scrivere. Tenendo conto di ciò, “si troverà  per lo più facile la soluzione delle controversie”, tuttavia, in casi di contrasto insanabile occorrerà  dare la preferenza alle tesi che hanno maggiori argomenti a loro favore. In tal modo, Abelardo rivendica libertà  di giudizio anche nei confronti delle opere dei Padri, le quali non devono essere lette con l’obbligo di credere. Ciò conduce Abelardo a rivalutare i contributi dei filosofi pagani: anch’essi già  prima di Cristo hanno scoperto alcune verità ; la rivalutazione della filosofia antica e la formidabile padronanza dialettica varranno ad Abelardo il soprannome di “Peripatetico palatino”. In questo modo, egli si riallaccia ad una impostazione tipica della prima riflessione filosofica cristiana. Gli stessi filosofi pagani hanno in qualche modo riconosciuto la Trinità , quando hanno parlato di Dio, dell’Intelletto divino e dell’Anima del mondo, che Abelardo avvicina allo Spirito Santo: negli ultimi anni del suo soggiorno a Cluny, Abelardo scrive il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano, rimasto incompiuto. L’Abate di Cluny, Pietro il Venerabile, era un fautore del dialogo con l’Islam e questo scopo egli aveva anche fatto tradurre in Spagna il Corano in latino. I tre personaggi dell’opera di Abelardo credono tutti in un Dio unico, ma due hanno leggi scritte, mentre il filosofo si accontenta della sola legge naturale. Dapprima dialogano il giudeo e il filosofo, che non può accettare una religione fondata esclusivamente sulla Scrittura, poi dialogano il filosofo e il cristiano, che mostra il carattere ragionevole della fede. Non è irrilevante il fatto che, proprio in riferimento al soggiorno di Abelardo a Cluny, con Pietro il Venerabile, il filosofo del dialogo sia nato in un paese dell’Islam. L’opera si apre con una rapida introduzione in cui a parlare ò Abelardo stesso, che così racconta: “in una visione notturna, vidi tre uomini che arrivavano per sentieri diversi” – chiara allusione alle tre differenti prospettive di cui essi son portavoce. Tutti e tre adorano sì lo stesso Dio, ma in maniere assai diverse: il filosofo ò illuminato dalla sola legge naturale, gli altri due dal Libro. Si recano da Abelardo per chiedergli di essere giudice di un confronto che li vede contrapposti: si tratta di un confronto tra i tre diversi tipi di religione. Abelardo, sbalordito, domanda perchè abbiano scelto proprio lui come giudice e il filosofo gli rivela che ò stato lui a prender tale decisione, poichè muove alla ricerca della verità  sotto la sola guida della ragione, evitando le opinioni. Il filosofo, inoltre, sostiene (e in ciò leggiamo il pensiero dello stesso Abelardo) che il vero obiettivo della filosofia (e di ogni altra disciplina) ò la morale, ossia lo studio del sommo bene e del sommo male; il filosofo dichiara apertamente di volersi confrontare col cristiano e col giudeo per esaminare quale tra le due religioni sia più vicina alla ragione e, dunque, da seguire, ma giunge ben presto alla conclusione che “i giudei sono stolti, i cristiani pazzi”. Poichè i tre, da soli, non riuscivano a concludere la loro discussione, si sono rivolti ad Abelardo, che ben conosce la filosofia e la religione (ò un evidente auto-elogio del pensatore, che per bocca del filosofo del dialogo ò detto il migliore, autore di opere eccelse, anche se “l’invidia non potò sopportare”). Abelardo, sinceramente onorato che la scelta sia ricaduta su di lui, ammonisce preliminarmente il filosofo, mettendolo in guardia: a differenza dei suoi due interlocutori – che possono usare contro di lui una sola “spada” -, egli può attaccarli con due “spade”, ossia criticandoli sia per quel che riguarda la ragione sia per quel che riguarda la loro fede: la sua armatura filosofica ò, dunque, superiore in partenza. A tal punto, il filosofo spiega che spetta a lui porre la prima domanda, poichè la legge naturale (della quale egli si nutre) viene prima rispetto alla religione: egli chiede allora, rivolgendo una domanda che tange parimenti i suoi interlocutori, se essi si siano accostati alla fede perchè indotti dalla religione o perchò spinti dalle tradizioni familiari e, quindi, dalle opinioni. Nel primo caso, la scelta sarebbe legittima; ma nel secondo da ripudiare: e al filosofo pare proprio che si opti per la fede esclusivamente per motivi familiari, e adduce come prova del suo asserto il fatto che, quando si sposano due individui di fedi diverse, capita sempre che uno dei due si converta alla fede dell’altro coniuge. Orazio stesso diceva che “la giara ricorderà  a lungo l’odore di ciò di cui ò stata riempita”. Il filosofo mette dunque in luce la necessità  di cercare criticamente il senso delle proprie scelte, e Abelardo condivide pienamente tale prospettiva, lui che arriva – anselmianamente – alla fede senza respingere la ragione. Le tre opere fondamentali di teologia di Abelardo riguardano soprattutto il problema della Trinità . Egli non pretende di dire la verità  sulla Trinità , in quanto la ragione umana non è in grado di cogliere pienamente i misteri divini, tuttavia con l’ ausilio di analogie – come aveva già  fatto Agostino -, ò a suo avviso possibile raggiungere almeno il verosimile. Abelardo ritiene che la distinzione fra le tre persone divine poggi sulla distinzione fra gli attributi divini e, precisamente, con il nome del Padre si indica la potenza, con quello del Figlio la sapienza e con quello dello Spirito Santo la carità . Ma poichè tali attributi in Dio costituiscono un’unità , i rapporti tra le persone divine possono essere spiegati in termini di derivazione di una dall’altra: il Padre genera il Figlio, che ò della stessa sostanza del Padre, in quanto la sapienza non ò che quella particolare forma della potenza divina per cui essa non può essere ingannata, invece, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, perchò la carità  senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza procederebbe a caso e non condurrebbe al meglio. Però in tal modo lo Spirito Santo non risulta essere della stessa sostanza del Padre e del Figlio: fu questo un punto che suscitò gli attacchi contro Abelardo, in particolare san Bernardo ritenne che esso conducesse a negare qualsiasi potenza dello Spirito Santo. Un esempio di applicazione della dialettica a una questione teologica ò dato anche dalla discussione di Abelardo del problema dei cosiddetti futuri contingenti. Secondo Abelardo, l’azione di Dio, che ò onnipotente, ò necessaria: Dio non può fare altro che ciò che fa, ossia il bene; infatti, Dio fa ciò che vuole, ma ciò che egli vuole, in perfetta libertà , senza essere costretto da nulla, ò il bene. Ora, Dio prevede tutto, anche gli eventi futuri. Ciò significa che egli determina il loro necessario verificarsi? Oppure gli eventi futuri continuano a essere contingenti, ossia non necessari? Per l’uomo gli eventi futuri sono indeterminanti; egli non può sapere anticipatamente se le proposizioni che riguardano questi eventi sono vere o false, mentre Dio non può conoscere se esse sono vere o false, e tuttavia Dio prevede gli eventi futuri come contingenti. A ciò si potrebbe obiettare: ò possibile che le cose avvengano diversamente da come Dio ha previsto, altrimenti esse non sarebbero più contingenti, ma in tal caso si avrebbe come conseguenza che Dio si può ingannare nella sua previsione. La risposta di Abelardo ò che sono possibili due interpretazioni: o qualcosa che Dio ha previsto ha la possibilità  di avvenire diversamente oppure ò possibile che qualcosa avverrà  diversamente da come Dio ha previsto, ma poichò non ò possibile che Dio si sbagli, la sola possibilità  che qualcosa si verifichi diversamente si riferisce dunque non al prevedere di Dio, ma a ciò che ò previsto. Nell’ultimo periodo della sua attività , Abelardo apre un nuovo territorio alla sua riflessione: l’ etica, alla quale dedica un’opera intitolata appunto Conosci te stesso o Etica, riprendendo nel titolo l’ enigmatico motto inciso sul tempio di Apollo a Delfi (gnwqi sauton). L’ antica formula “conosci te stesso” dell’oracolo delfico, ripresa da Socrate, ò usata da Abelardo per indicare all’uomo la conoscenza della propria miseria, dovuta al peccato, ma allo stesso tempo, la propria somiglianza con Dio. Abelardo distingue tra vizio e peccato: infatti, il vizio ò un’inclinazione naturale al peccato, ma di per se non ò peccato. Con questa affermazione, Abelardo si oppone alle forme di ascetismo, che considerano forme del peccato quelle che sono invece inclinazioni proprie della natura umana; in tal senso, contro l’ultimo Agostino, Abelardo rivendica la naturalità  dell’inclinazione al piacere sessuale, che non potrà  mai essere estirpata dall’uomo. Proprio in quanto naturali, le inclinazioni sono ineliminabili, possono soltanto essere contrastate; peccato ò invece il consenso dato a queste inclinazioni: esso ò un atto di disprezzo nei confronti di Dio, un non fare ciò che egli vuole o un non tralasciare ciò che egli vieta. In sostanza, finchò penso di commettere il male sono nell’ambito del vizio; quando invece lo compio realmente, sono nell’ambito del peccato. L’azione che eventualmente deriva dall’atto di consenso dato ad una cattiva inclinazione non aggiunge nulla al peccato stesso. Nel caso in cui il consenso interiore dato dall’inclinazione cattiva, per esempio, di uccidere un rivale, non si traduca nell’azione corrispondente, il peccato continua sempre a sussistere in tutta la sua gravità ; nè, d’altra parte, un’azione cattiva ò di per se peccato se manca il consenso ad essa. Per esempio, colui che per sfuggire a un aggressore, per caso lo uccide, compie un’azione cattiva, ma non commette peccato, che ò il vero male dell’anima. Così, una stessa azione commessa dallo stesso uomo in momenti diversi può essere buona o cattiva, a seconda dell’ intenzione dell’ anima. Su questa base, Abelardo giunge addirittura ad avanzare l’ ipotesi che gli stessi persecutori di Cristo e dei martiri non abbiano peccato, in quanto non hanno agito per disprezzo di Dio. L’ ignoranza non ò peccato, ne lo ò l’ essere infedeli, anche se questa condizione impedisce di essere salvati. D’ altra parte, lo stesso peccato originale, in quanto contrassegna i successori di Adamo senza che ci sia da parte loro consenso, non può essere considerato propriamente peccato: esso ò piuttosto la pena di un peccato. Tutte queste proposizioni saranno condannate nel Concilio di Sens, ma, in realtà , con esse Abelardo si opponeva al formalismo e al legalismo ecclesiastico. Non ò l’agire esteriore, ma l’ intenzione che qualifica ciò che ò bene o male; l’atto ò buono o cattivo soltanto in virtù dell’ intenzione che lo determina. Di qui, l’ importanza della contrizione rispetto all’ assoluzioneper il peccato commesso: la prima riguarda l’ interiorità , la seconda ò una liberazione puramente esteriore e e formale. Un’ analoga protesta contro il formalismo e la corruzione ecclesiastica animava all’ epoca i movimenti religiosi popolari. Non ò un caso che la scuola di Abelardo fosse frequentata anche da Arnaldo da Brescia, che non molto tempo dopo la morte di Abelardo lottò contro il potere temporale dei papi, instaurando in Roma un libero comune. Abelardo, tuttavia, riconosce che in terra ò giusto che gli uomini siano puniti o ricompensati in base alle loro azioni: solo Dio, infatti, e non l’uomo, ò in grado di giudicare le intenzioni.

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