Aristotele: vita, opere e pensiero filosofico - StudentVille

Aristotele

La figura di Aristotele attraverso vita, pensiero e opere.

La vita

Aristotele nacque a Stagira, colonia ateniese nella penisola calcidica, nel 384-3 a.C.; frequentò l’Accademia a 17 anni e vi rimase per altri 20, fino alla morte di Platone. Si è parlato di ingratitudine dell’alunno, ma questa lunga permanenza, l’ influenza platonica in alcune opere e l’elegia dell’altare dimostrano il contrario. La stessa critica alla teoria delle idee nell’ Etica nicomachea è preceduta dalla confessione della difficoltà nel fare ciò nei confronti della dottrina di un amico sebbene questo ostacolo debba venire superato per amore della verità. Probabilmente anche per il fatto di non essere ateniese e di non poter governare in una colonia divenuta macedone, è verosimile che Aristotele fosse più interessato alle materie scientifiche che a quelle politico-etiche. Uscito dalla scuola non condividendo l’indirizzo di Speusippo, con Senocrate si recò nella comunità di Asso ove insegnò. Neleo, figlio di Corisco, fu suo discepolo ed a casa sua pare siano state trovate opere di Aristotele. Successivamente egli soggiornò a Mitilene dove forse fondò una scuola.
In questa fase della sua vita avvenne il distacco dalla teoria delle idee-numeri, come testimonia Sulla Filosofia. Nel 342 Aristotele fu chiamato dal re macedone Filippo ad educare Alessandro; il futuro Alessandro Magno verosimilmente assorbì l’idea del maestro della superiorità della cultura greca, superiorità che sarebbe divenuta mondiale se accompagnata da unità politica. Il dissenso col discepolo si ebbe solo allorché questi volle unire i popoli orientali ed assumere le forme orientali di sovranità. Appena Alessandro salì al trono Aristotele tornò ad Atene (335-334) ove fondò una scuola nel ginnasio, il Liceo (detto così perché sorto vicino al tempio di Apollo Liceo), edificio comprensivo di giardino e passeggiata (perìpato, da cui scuola peripatetica) in cui si svolgevano lezioni di filosofia il mattino e di retorica e dialettica ad un pubblico più vasto il pomeriggio, secondo ordine rigoroso ed in uno stile di vita comunitario. Docenti furono anche gli scolari Teofrasto ed Eudemo. Esso era organizzato comunque come un tiaso. Nel 323 morì Alessandro: nonostante i rapporti col maestro si fossero già raffreddati (ad esempio Alessandro aveva mandato a morte un discepolo di Aristotele, Callistene, al suo seguito per scriverne le imprese) gli avversari di Alessandro vedendo in Aristotele un nemico lo accusarono di empietà e lo costrinsero a rifugiarsi a Calcide nell’Eubea dove aveva in eredità dalla madre un terreno. Egli giustificò questa fuga col non voler permettere agli ateniesi di peccare una seconda volta contro la filosofia. Morì nel 322-321.

La critica a Platone

Aristotele, allievo di Platone, pur assumendo stato suo allievo per ventenni, sostiene una propria linea filosofica che lo porterà a criticare il maestro, e questo suo atteggiamento è espresso nella frase “Amicus Plato, sed magis amica veritas”, che ribadiva l’interesse dello stagirita soprattutto per la verità, e non di assumere come tale la parola di Platone. Innanzi tutto Aristotele critica la ricerca svolta da Platone, che ha cercato il vero essere in un mondo soprasensibile, tentando di spiegare in questo modo il mondo reale, che appariva mutevole e sfuggente perché soggetto al divenire (Platone diceva che il mondo fisico non poteva essere oggetto di un discorso vero ma verosimile, vista l’impossibilità di determinare con certezza matematica ciò che si percepiva con i sensi e non con i logoi, come il mondo iperuranio). Aristotele sostiene che il mondo delle idee non è in grado di spiegare il mondo fisico, come invece riteneva Platone, visto che tra le due realtà c’è frattura (chorismos). Al contrario il divenire, che per il divino costituiva un ostacolo la cui presenza impediva di conoscere scientificamente il mondo reale e di considerarlo come vero essere, per Aristotele è un fenomeno su cui concentrare gli sforzi della ricerca perché solo riuscendo a spiegare il mutevole divenire si può essere in grado di comprendere il mondo reale. Inoltre lo stagirita critica il suo maestro, esprimendo rispetto alla teoria delle idee ragionamenti di questo tipo: se esistono le idee per tutto ciò che è nel mondo fisico, esistono idee anche per le negazioni; ma ciò è contraddittorio, perché l’idea di una negazione si associa a tutto tranne il concetto che essa nega. Un’idea sarebbe cioè associata ad una molteplicità di cose diverse nel mondo fisico.
Aristotele nega quindi l’esistenza del mondo delle idee. Sostiene, infatti, che esse siano nella mente di chi le pensa e non abbiano quindi consistenza ontologica, come invece gli oggetti fisici, che per lo stagirita sono realmente esistenti, e non sono una “brutta copia” dell’idea. Per Aristotele è quindi possibile uno studio scientifico della natura, e il divenire, che per Platone era un impedimento alla conoscenza scientifica della stessa, diviene per Aristotele un oggetto di studio per cercare quei principi che rendano intelligibile il divenire. Inoltre Aristotele critica il maestro riguardo l’intellettualismo etico, servendosi della stessa metafora del maestro, ovvero quella della biga. Se è infatti la parte volitiva dell’anima a decidere se seguire la parte razionale o concupiscibile della stessa, essa può decidere sia se fare il bene sia se fare il male, anche se la parte razionale conosce il bene. Questa concezione verrà ripresa da S. Agostino, il quale affermerà che il peccato viene da un difetto di volontà degli uomini. Le opere che ci rimangono di Aristotele (molte sono andate perdute dopo la morte dei suoi allievi diretti) sono state organizzate da un dotto greco del I sec. a.C., Andronico di Rodi, secondo la suddivisione delle scienze aristoteliche.

La dottrina del sillogismo e la scienza

Aristotele studia la teoria del sillogismo, definendolo genericamente un meccanismo grazie al quale, partendo da determinate premesse, si arriva ad una conclusione. Un sillogismo tipico presenta la seguente struttura:

Premesse:

• Tutti gli uomini sono mortali
• Tutti i filosofi sono uomini

Conclusione:

• Tutti i filosofi sono mortali

La parte nominale della conclusione è detto termine maggiore e il suo soggetto termine minore; le premesse in cui essi compaiono sono dette rispettivamente premessa maggiore e minore. Il termine che compare in entrambe le premesse è detto termine medio. Nel nostro caso il termine maggiore è mortali, il termine minore è filosofi, il termine medio uomini; la premessa minore è la 2, la maggiore è la 1.
È importante notare che un sillogismo è valido, cioè porta ad una conclusione vera, solo quando entrambe le premesse sono vere. Se la 1 del caso sopracitato fosse stata falsa, ad esempio “Tutti gli uomini sono immortali”, il sillogismo avrebbe portato ad una conclusione falsa, cioè “Tutti i filosofi sono immortali.”

Aristotele riprende l’essere di Parmenide

Per Aristotele il mondo reale ha consistenza ontologica, ma non può rientrare nella rigida distinzione di essere e non essere come sosteneva Parmenide, ritenuta dallo stagirita troppo sommaria. Esistono infatti diverse categorie di essere: ad esempio possiamo affermare che sia un uomo che un colore esistano, ma il loro “esistere” è differente. Pertanto Aristotele è convinto che ente sia ciò che “Si dice in molti modi” e quindi necessita di una classificazione. Il filosofo ne indica 10 categorie: sostanza, qualità, quantità, rapporto, dove, quando, giacere, avere, agire, patire. Fra queste la più importante è la sostanza, che è un sostrato (hypokèimenon), perché è un ente che ha un autonoma capacità di sussistenza (l’uomo, ad esempio, esiste indipendentemente da altre categorie di enti). Quindi tutte le altre categorie di enti sono definiti accidentes (alla latina), cioè cose che accadono all’ente. Perciò il colorito di un uomo, che è un ente che rientra nella categoria di qualità, non è un sostrato perché esso è in stretta dipendenza dall’uomo di cui costituisce il colorito, la contrario l’uomo, essendo un sostrato, esiste indipendentemente da quel colorito.
Aristotele e il divenire
In questo paragrafo esamineremo sommariamente senza spiegare le quattro cause che Aristotele indica come causa del divenire e i concetti di atto e potenza, anch’essi in fondamentali per spiegare il divenire. Successivamente li riprenderemo per avere una visione più globale della filosofia di Aristotele.

Le quattro cause sono:

Causa materiale: la materia di cui è composta la cosa stessa

Causa formale: le caratteristiche morfologiche e funzionali che fanno di un oggetto proprio quell’oggetto e lo distinguono da un altro. Una casa è tale solo se ha la forma di una casa, non lo sarebbe se gli stessi materiali di cui è costituita venissero disposti in un altro modo (ad esempio se venissero usati per fare un ospedale).

Causa motrice: ciò che determina l’inizio del cambiamento;

Causa finale: il fine in vista di cui opera il mutamento.

Per Aristotele le quattro cause sono relative: infatti un mattone può essere la causa materiale di una casa e contemporaneamente causa formale dell’argilla di cui è composto. Ogni cosa è infatti un synolon (tutt’uno) tra forma e materia, e questa unione è inscindibile. Aristotele, per la cronaca, è il primo ad introdurre nel linguaggio filosofico il termine hyle, cioè materia.
Strettamente collegata alle quattro cause è la teoria dell’atto e della potenza. La potenza o dynamis è la possibilità, la potenzialità che ha qualcosa di operare un mutamento; l’atto invece rappresenta due concetti: enèrgheia ed entelècheia. Entelècheia indica la condizione di qualcosa che ha già attuato le proprie potenzialità; enèrgheia indica il processo attraverso cui si giunge all’entelècheia oppure l’attuarsi delle funzioni proprie di un oggetto già in atto. Anche questi concetti, come quelli delle quattro cause, sono relativi: un bambino, ad esempio, è contemporaneamente un seme in atto e un uomo adulto in potenza. Infine, occorre puntualizzare la priorità dell’atto rispetto alla potenza. Per portare avanti l’esempio del bambino, infatti, perché nasca un bambino (un uomo in potenza) è necessario un altro uomo in atto.

Aristotele: per metà naturalista e per metà platonico

Come promesso nel paragrafo precedente, ecco la spiegazione d’insieme della filosofia di Aristotele. Quando lo stagirita tenta di spiegare il divenire con le quattro cause, sembra quasi un naturalista, ma poi esprimendo i concetti di atto e potenza Aristotele ritorna sulla via metafisica già tracciata dal maestro.
Affermando che sostanza non è altro che il sinolo, cioè l’unione tra materia e forma, Aristotele critica apertamente Platone, che sosteneva l’esistenza di una frattura (chòrismos) tra il mondo ideale e il mondo fisico, che si traduceva quindi in una divisione tra la forma delle cose (eidos) e la materia che le costituiva (hyle), visto che le idee erano l’eidos senza la hyle (se ne fossero state costituite sarebbero state soggette al divenire e quindi non sarebbero state più il vero essere). Anche la causa formale segue la scia dei naturalisti, poiché la forma distingue le cose indipendentemente della causa materiale. Qui sembrerebbe addirittura vicino a Democrito ed egli stesso afferma che la vera ricerca naturalistica è quella che ha fatto l’atomista e non il suo maestro Platone.
Ma proprio quando sembra che con lo stagirita la natura artigiana di sé stessa dei naturalisti stia per prendersi la rivincita sul demiurgo platonico, Aristotele ricomincia a seguire la via metafisica del maestro. Infatti, al momento di chiarire cosa sia più importante tra forma e materia, Aristotele afferma che l’eidos è più importante, perché è il carattere distintivo delle cose, che rende la medesima hyle cose diverse (una frittata e un uovo in camicia hanno la stessa causa materiale, l’uovo, ma sono distinti perché hanno una causa formale diversa fra loro, anche se quella materiale è la medesima). Qui si può notare l’ombra di Platone che torna con la sua teoria delle idee sulla filosofia del discepolo: la forma di Aristotele, infatti, sembra avere tutte le caratteristiche dell’idea di Platone. Oltre ad essere più importante della materia, essa per Aristotele è ingenerata e eterna. Quindi con questa convinzione smentisce anche i naturalisti, perché la physis di Eraclito, il grande supporter del divenire, dava origine a forme sempre diverse attraverso il divenire.
Inoltre nega anche la possibilità di un’evoluzione come aveva supposto Anassimandro. E proprio Darwin, lo scopritore della teoria dell’evoluzione della specie, si compiace in uno dei suoi trattati perché Aristotele ha le stesse sue idee e ne cita un frammento: in realtà in questo passo lo stagirita aveva riportato un pezzo preso da un’opera di Democrito e alla riga successiva, che Darwin non lesse, egli afferma che tutto quello che l’atomista aveva riferito rispetto all’evoluzione era sbagliato.
Alla domanda “Chi è nato prima, l’uovo o la gallina?” Aristotele risponde “la gallina”. Questo perché egli si rifà al concetto di preminenza dell’atto rispetto alla potenza, per cui l’atto precede la potenza: solo un uomo in atto può dare origine ad un bambino, cioè ad un uomo in potenza, che a sua volta darà origine,una volta in atto, ad un altro bambino. E così all’infinito. Perciò è necessario che la forma sia sempre esistita, perché solo l’uomo genera l’uomo.
E così perché il divenire si verifichi, è necessario che ci sia qualcosa già in atto affinché lo possa originare. Ma se anch’essa avesse potenzialità, allora dovrebbe essere mossa da un qualcosa in atto. Per cui c’è bisogno di un principio che sia atto puro perché si possa innescare il meccanismo del divenire, rendendo così la natura artigiana di sé stessa. Allo stesso tempo questo motore deve essere anche immobile, perché secondo Aristotele tutto ciò che si muove lo fa perché è mosso da qualcos’altro. Seguendo questa logica si arriva alla definizione di motore primo immobile, responsabile del movimento di tutto il cosmo.

Il motore primo immobile

Aristotele aveva affermato che una sostanza formata da eidos senza hyle era una caso limite, un’astrazione metafisica. E anche il motore primo immobile rientra in questa categoria. Come detto in precedenza, esso deve essere privo di potenzialità e deve anche essere immobile, pertanto non è composto di hyle, perché se no si muoverebbe e sarebbe anche soggetto al divenire, cosa che costringerebbe alla ricerca di un altro motore primo.
Essendo immobile e atto puro, l’ultima sfera, quella delle stelle fisse, desiderandolo come l’oggetto del suo amore, tenta di imitare il suo stato di quiete muovendosi di moto circolare uniforme, che è quello più perfetto, dando origine ad un simile movimento a tutte le altre sfere concentriche, terra compresa, e divenire anche. Così il motore immobile provoca il movimento senza toccare, perché se toccasse sarebbe impuro, ma solo facendosi bramare dalla sfera delle stelle fisse. Ma se lui “contraccambiasse”, non sarebbe più puro, pertanto il motore primo immobile, già pensiero perché eidos senza hyle, non può far altro che aspirare a sé stesso. Per questo Aristotele lo definisce noesis noèseos, cioè “pensiero del pensiero”. Il motore primo immobile, per tale “costituzione fisica”, viene a coincidere con il divino, con dio. Per questo motivo la filosofia scolastica dialoga e accetta l’aristotelismo, infatti se dimostro in questo modo razionale l’esistenza del divino, dimostro anche l’esistenza di Dio.

La fisica di Aristotele contro la fisica moderna: la sconfitta della scienza aristotelica
Aristotele individuava quattro tipi di mutamento in natura:

• secondo la sostanza (nascita, morte, corruzione)

• secondo la quantità (aumento, diminuzione)

• secondo la qualità (alterazione, trascolorare)

• locali o di traslazione (il movimento vero e proprio)

Il movimento viene poi suddiviso in naturale (cioè proprio di un elemento naturale) e violento (cioè procurato). I movimenti naturali sono per Aristotele propri dei quattro elementi tradizionali (fuoco, aria, acqua, terra). Ognuno di essi tende infatti ad una posizione, o luogo naturale, diverso rispetto agli altri: il fuoco verso l’alto, la terra verso il basso, l’acqua e l’aria verso posizioni intermedie (con la prima inferiore all’altra). Aristotele spiega così fenomeni come una pietra che cade o una fiamma che tende verso l’alto.
I quattro elementi costituiscono il mondo terrestre, cioè il pianeta Terra e lo spazio immediatamente circostante ad esso. Oltre i confini della luna, Aristotele afferma l’esistenza di un mondo celeste, dove si trova per natura un quinto elemento, l’etere, eterno e incorruttibile. Questa suddivisione ricorda molto l’iperuranio platonico, in cui c’erano le idee, eterne e incorruttibili.
Il cosmo è per lui un insieme di sfere di etere concentriche che si muovono di moto circolare uniforme. Gli astri sono incastonati in una di queste sfere, detta “sfera delle stelle fisse”. Con quest’affermazione Aristotele concepisce lo spazio qualitativamente; le diverse aree dell’Universo, per lui, sono tali perché luoghi naturali dei quattro elementi. La fisica moderna a partire dal seicento si scrolla di dosso l’aristotelismo, sostenuto dalla Chiesa, che bloccava ogni innovazione in campo scientifico se andava contro le affermazioni di Aristotele, impedendo ogni dimostrazione scientifica con due paroline che sembravano quasi magiche “Ipse dixit”, che volevano dire: così ha detto Aristotele e pertanto ciò è verità. Qualsiasi altra cosa era sbagliata. Bene nel seicento gli scienziati riescono a far prevalere i numeri, le dimostrazioni scientifiche e razionali, a discapito delle teorie sostenute da Aristotele. A sua difesa possiamo dire che all’epoca non aveva certo gli stessi mezzi dei fisici e dei matematici che confutarono la sua fisica, frutto di un ragionamento a cui non potevano seguire riscontri reali e strumentali precisi.
La fisica del seicento introduce il principio di inerzia, secondo cui un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme se non intervengono altre cause esterne (forze) a variarne il suo moto. Viene così smentito il “Ab alio movetur” di Aristotele. Inoltre lo spazio della scienza moderna non è più legato ai luoghi naturali, ma è isotropo: cioè ogni punto è uguale ad un qualsiasi altro e gode delle stesse proprietà.
La legge di gravitazione universale di Newton ci dice che un corpo risente della forza di gravità che la terra esercita sui corpi sia che si trovi sotto terra sia sopra. Un esempio un po’ anacronistico può chiarire le differenze. I satelliti artificiali, ad esempio, secondo le teorie di Aristotele dovrebbero tendere a salire perché si trovano nel luogo naturale dell’aria, invece essi rimangono stabili in orbita perché la forza di gravità a cui sono sottoposti si equilibra con la forza centrifuga che li porterebbe fuori dal campo gravitazionale terrestre.

Il vivente e l’anima

Gli studi biologici di Aristotele costituiscono la base della zoologia scientifica moderna; inoltre hanno grande influenza sul suo pensiero. Aristotele enuncia il concetto di specie identificandolo con quello di causa formale; la forma è quindi l’insieme di caratteristiche per cui un cane è definito un cane e non un cavallo o una capra. Con la specie si identifica anche la causa finale: lo scopo di ogni specie animale è infatti quello di preservarsi.
Aristotele studia anche l’anima. Egli la definisce il principio vitale di ogni vivente e afferma che è inconcepibile come separata dal corpo: corpo e anima costituiscono il synolon dell’organismo vivente. All’anima sono attribuite tre facoltà: nutritiva, sensitiva, razionale. La facoltà nutritiva presiede alla nutrizione e alla riproduzione; la seconda è propria degli organismi dotati di sensi più o meno sviluppati, la terza invece è la porta della conoscenza razionale. I vegetali hanno solo la facoltà nutritiva, gli animali la nutritiva e la sensitiva, gli uomini tutte e tre.
Aristotele confuta Platone in quanto alla separazione rigida fra conoscenza sensibile (ritenuta ingannevole da Platone) e razionale. Per Aristotele la conoscenza sensibile è l’inizio di un processo che si compie con la conoscenza razionale. Per conoscere, infatti, è necessario percepire.
La sensazione si attua attraverso i cinque sensi; l’oggetto sensibile si attua quando viene percepito, ma è solo in potenza fino a quel momento. Inoltre per le caratteristiche percepibili da più sensi (come la grandezza) vi è una sintesi fra i cinque sensi chiamata senso comune.

Virtù etiche e dianoetiche

Per Aristotele tutte le azioni degli uomini hanno come fine un bene, che a sua volta serve al conseguimento di un altro; c’è però un bene che dev’essere ricercato come fine a se stesso, il bene supremo. Questo bene supremo si identifica con la felicità e con l’eudaimonia, cioè “l’essere in compagnia di un buon demone”. La felicità, poi, non consiste in beni terreni come onore, ricchezza o piacere; la felicità è prerogativa dell’uomo come la conoscenza razionale, quindi essa coincide con l’esercizio della ragione a livello di eccellenza. La felicità, insomma, coincide con la virtù.
Le virtù dell’uomo per Aristotele sono divise in etiche, proprie della componente sensitiva dell’anima, e dianoetiche, proprie di quella razionale.
Le virtù etiche si acquistano attraverso l’abitudine e la volontà, sono quindi una “disposizione” virtuosa dell’animo che si ottiene (si attua) attraverso il costante esercizio di azioni virtuose (altrimenti le virtù rimangono in potenza). In questo Aristotele critica Socrate e Platone e il loro intellettualismo etico, secondo cui la conoscenza del bene necessariamente porta ad una vita vissuta compiendo solo buone azioni, in quanto che il male non può essere compiuto se si conosce il bene. Secondo Aristotele invece per compiere il bene è fondamentale la volontà di farlo. La virtù etica consiste, in definitiva, nella volontà di compiere il bene. Essa è anche il punto medio tra i due estremi, l’eccesso e il difetto: la parsimonia, ad esempio, si ottiene evitando l’avarizia e la prodigalità; il coraggio invece evitando di volta in volta la viltà e la temerarietà. La giusta misura è relativa, in rapporto alla persona che la compie. Pertanto l’uomo virtuoso è il mediocre, inteso come persona forte che è in grado di resistere agli estremismi. La giustizia si identifica con la virtù in quanto ricerca dell’equilibrio; Aristotele distingue in essa due connotazioni. La giustizia distributiva vuole che i beni siano assegnati in proporzione ai meriti; la giustizia regolatrice ristabilisce l’equilibrio fra i cittadini quando esso viene violato (ad esempio nel caso di un furto).
Le virtù dianoetiche invece sono la manifestazione dell’eccellenza della facoltà razionale dell’anima. All’interno di essa Aristotele traccia una distinzione: egli individua una componente scientifica che si limita alla conoscenza teorica di ciò che non può essere altrimenti da come è e una componente calcolativa che si applica a ciò che può essere altrimenti da come è e che è quindi in nostro potere.

Le virtù dianoetiche sono:

Proprie della facoltà scientifica:
• Epistème (scienza) che è attitudine alla dimostrazione;
• Noùs (intelligenza) che è disposizione a conoscere i principi;
• Sophìa (sapienza) che comprende le precedenti;

Proprie della facoltà calcolativa:
• Tèchne (arte);
• Phrònesis (saggezza).

Saggezza e sapienza stabiliscono due diversi tipi di felicità: la saggezza è alla portata di tutti, la sapienza è propria del filosofo. Per Aristotele la sapienza è la massima virtù in quanto rappresenta la parte dell’anima per cui essa è assimilabile al dio (in quanto noesis noeseos).

Le opere in generale e gli scritti essoterici

Gli scritti di Aristotele sono distinti in: acroamatici, destinati all’ascolto, o esoterici (es in greco indica l’interno) contenenti una dottrina segreta, appunti per l’insegnamento; essoterici (éxo in greco indica l’esterno) destinati al pubblico, dialoghi nella tradizione platonica o scritti consolatori-esortativi. Noi abbiamo i primi e solo pochi frammenti dei secondi.
In antichità erano noti solo i dialoghi; tuttavia la tradizione dice che Neleo, erede di Aristotele, nel I a.C. abbia nascosto la biblioteca di Aristotele contenente gli scritti acroamatici nella Troade, per evitare che finissero nelle mani del re di Pergamo e che, scoperta da un dilettante di filosofia, Apellicone di Teo, la biblioteca sia stata trasferita ad Atene e lì requisita da Silla e portata a Roma. A Roma Andronico da Rodi, oramai nel I d.C. li avrebbe sistemati e pubblicati.
Successivamente alla pubblicazione l’importanza attribuita ai dialoghi è scemata, nella convinzione che gli scritti acroamatici contenessero la vera filosofia di Aristotele.
Comunque gli scritti sono coerenti tra di loro mentre i dialoghi, secondo l’ancora oggi accettata opinione di W. Jaeger (Aristotele, Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, 1923) mostrano un iter dal pensiero platonico ad un ripensamento di quest’ultimo, dall’interesse per la filosofia all’interesse per le scienze. Proprio grazie a questa scoperta dell’evoluzione del pensiero aristotelico si è lavorato per datare o quantomeno ordinare le opere.
Quanto ai dialoghi, similmente al maestro, scrisse il Simposio, il Politico, il Sofista, il Menesseno, il Grillo o Della Retorica (equivalente del Gorgia), il Protrettico (Eutidemo), Eudemo o Dell’immortalità dell’anima (Fedone). In queste opere il dialogo è costituito da lunghi discorsi in cui l’autore stesso è il protagonista e interviene traendo conclusioni.
L’ Eudemo ci è raccontato da Cicerone: Eudemo, malato, sogna la sua guarigione, la morte del tiranno, il ritorno in patria. Si avverano le prime ma Eudemo muore in battaglia: per patria infatti si aveva da intendere quella celeste. Tuttavia la teoria dell’immortalità critica Platone: l’anima infatti non è armonia poiché se fosse tale, ad essa si potrebbe opporre la disarmonia ma nulla si può opporre all’anima. Il dialogo riprende l’anamnesi platonica, in chiave pessimistica nei confronti della vita terrena: sarebbe meglio non esser nati, la vita corporea è contro natura.
Il Protrettico è un’esortazione alla filosofia rivolta a Temisone, principe di Cipro. Il filosofare è necessario, giacché anche per decidere di non filosofare bisogna filosofare. Esso consiste nel condannare tutto ciò che è umano, ingannevole, imitazione, anche la bellezza, per guardare ai modelli eterni. La conoscenza è perciò saggezza (phrònesis) ed il saggio è un dio mortale superiore al destino tragico umano. Con questa esaltazione del saggio forse si chiudeva il dialogo. Da sottolineare come l’unione anima-corpo venga paragonata da Aristotele al supplizio con cui i pirati etruschi torturavano i prigionieri, legandoli faccia a faccia con cadaveri.
In Sulla Filosofia, dialogo in tre libri, Aristotele trattava la storia della filosofia, dalla sapienza orientale e dai Sette Saggi, culminando in Platone. Nel secondo libro egli criticava la dottrina delle idee (la loro separazione dalle cose sensibili, sostengono Plutarco e Proclo), in particolare delle idee-numeri: se i numeri sono diversi da quelli del calcolo noi non ne possiamo avere conoscenza. Egli proponeva piuttosto di considerare le idee come predicati comuni di enti della stessa specie. Nel terzo libro era espressa la visione cosmologica: il dio è un motore immobile e causa finale delle cose, poiché imprime movimento alle cose, ispirando loro il desiderio della perfezione. L’etere è il corpo più vicino alla divinità, sotto il motore immobile le divinità dei cieli e degli astri. Il mondo sensibile è eterno ed eccellente e non perituro e generato come in Platone. Vi è poi la dimostrazione dell’esistenza di Dio attraverso l’argomento dei gradi: in ogni dominio nel quale è una gerarchia di cose e quindi una maggiore o minore perfezione, esiste necessariamente qualcosa di perfetto, perciò poiché in tutto ciò che esiste vi è tale gradazione, l’ente assolutamente perfetto e superiore è Dio. Egli sostiene inoltre che se uomini vissuti sempre in splendide dimore sottoterra sentissero solo parlare della divinità, saliti in superficie e visto il mondo naturale crederebbero immediatamente alla sua esistenza: il paragone col mito della caverna è lampante e ribalta la concezione illusoria del mondo sensibile di platonica  memoria.

Le opere acroamatiche sono distinte da Andronico di Rodi in:

1) Scritti di Logica, noti come Organon o strumento di ricerca
Categoriae sui predicati delle cose, in 1 libro; De interpretatione, sulle proporzioni e sul giudizio, in 1 libro; Analytica priora, sul ragionamento, in due libri; Analytica posteriora, sulla prova, definizione, divisione e conoscenza dei principii, in due libri; Topica, sul ragionamento dialettico e sull’eristica, in otto libri; Elenchi sophistici, confutazione di argomenti sofistici

2) Scritti di Metafisica
Metaphysica, cioè posti dopo quelli di fisica, titolo dato da Andronico, in 14 libri: sulla natura della scienza, sui quattro principi metafisici, sulla dottrina precedente (I libro); sulla difficoltà della ricerca della verità, contro la serie infinita di cause, i tipi di ricerca, ricerca dal concetto di natura (II libro); quindici dubbi sui principii fondanti la scienza (III); soluzione di alcuni dubbi, principio di contraddizione (IV); sui termini con più significati come principio, causa, natura, elemento (V); dominio della metafisica sulle altre scienze (VI); dottrina della scienza (VII-VIII); dottrina della potenza e dell’atto (IX); l’uno e i molti (X); sui libri III, IV, VI (XI 1-8), sul movimento e sull’infinito (XI 9-12); la sostanza sensibile-mutevole, sensibile-immutabile, sovrasensibile (XII); le matematiche, la teoria delle idee, la teoria dei numeri (XIII-XIV).
Vari scritti confluiscono in questa sistemazione: il II sono appunti di uno studente; il Vi era opera a sé; il XII riassume tutta l’opera di Aristotele; il XIII ed il XIV non hanno alcun rapporto con gli altri. Il I ed il III sono i più antichi (espressioni della credenza nella dottrina platonica); il XIII e XIV sono rielaborazioni di questi dello stesso periodo; il XIII forse doveva sostituire il XIV poiché più completo e sistematico. Il XII contenente la definizione di metafisica come scienza avente per oggetto l’essere divino, primo motore è da attribuirsi al periodo platonico. I libri VII, VIII, IX trattando invece della sostanza e quindi dell’ essere, a fondamento di tutte le scienze particolari, appartiene ad un’epoca più matura.

3) Scritti di Filosofia della natura e di Psicologia
Physica, 8 libri, De coelo, 4 libri, De generatione et corruptione, 2 libri, Meteorologica, sulle meteore, 4 libri. Historia animalium, su anatomia e fisiologia, De partibus animalium, lo scritto sulla generazione degli animali, sulle trasmigrazioni degli animali, sul movimento degli animali, sulle linee indivisibili e sui meccanismi sono spuri. De anima e Parva naturalia sono sull’anima. Fisiognomica è spurio, come il De mundo; la raccolta dei Problemata contiene certamente alcuni scritti aristotelici.

4) Scritti di Etica, Politica
Ethica nicomachea (perché edita da Nicomaco), Ethica eudemea (edita da Eudemo di Rodi, scolaro di Aristotele, secondo alcuni sua opera, contiene la prima etica aristotelica) e Magna moralia (più breve ma tratta di più cose, estratto delle altre due di un aristotelico probabilmente), Politica, in 8 libri: la natura della famiglia (1 libro), critica delle teorie dello Stato (II), concetti fondamentali, natura degli stati e dei cittadini, forme di costituzione, la monarchia (III), caratteri delle diverse costituzioni (IV), mutamenti, sedizioni e rivoluzioni degli Stati (V), la democrazia e le sue istituzioni (VI), la costituzione ideale (VII), L’educazione (VIII). Aristotele aveva raccolto 158 costituzioni, noi abbiamo solo quella ateniese del I libro, ritrovata in un papiro in Egitto nel 1890, unica delle opere pubblicate di Aristotele pervenutaci..

5) scritti di Estetica e Retorica
Rhetorica, 3 libri; la natura e i problemi della retorica, il cui oggetto è il verosimile (I), il modo di suscitare affetti e passioni (II), l’ordine e l’espressione delle parti del discorso (III). La retorica ad Alessandro è spuria, composta da Anassimene di Lampsaco, in questo periodo non esistevano ancora le dediche. Poetica, di cui abbiamo solo l’inizio e la parte concernente la tragedia.
Perduti gli scritti su pitagorici, Archita, Democrito ed altri. Il De Melisso, Xenophane et Gorgia sono spuri. Inoltre abbiamo l’Economica, di cui il primo libro è forse spurio ed il secondo certamente della fine del III secolo di altro autore.

La logica
Aristotele è il fondatore della logica come scienza filosofica. Il termine è stoico.
Gli scritti logici sono stati definiti Organon, strumento, giacché la logica, definita formale, non studia oggetti ma i procedimenti mediante i quali le scienze studiano i propri oggetti.
Tutte le scienze hanno una forma comune; la logica studia tale forma in astratto, il procedimento cioè di cui ogni scienza si serve. Ovviamente lo studio della logica è legittimo solo allorché la forma che si studia è sostanza di ciò che si considera.
Aristotele usava il termine analitica, distinta in: dialettica o scienza dell’argomentazione discorsiva e probabile; apodittica, scienza dell’argomentazione dimostrativa e vera. La dialettica ha come punto di partenza opinioni e opinioni come punto di arrivo e perciò il criterio su cui si basa è il consenso; l’apodissi parte da premesse vere e giunge a conclusioni vere e non abbisogna di approvazione, giacché il suo criterio è la verità. Va da sé la critica all’interpretazione platonica della dialettica. Ciò non significa che la dialettica non sia utile: essa insegna a discutere di qualsiasi argomento con competenza. Difatti nei Topica e negli Elenchi sophistici esamina i luoghi comuni della discussione, classificandoli e fissandone la legittimità e l’equivocità.
Le categorie sono i predicati in un giudizio attribuiti ad un soggetto. Perciò di un soggetto possiamo dire: la sostanza, la quantità, la qualità, la relazione, il luogo, il tempo, la situazione, la condizione, l’azione compiuta, l’azione subita. Alla sostanza corrisponde il concetto.
La sostanza esiste di per sé; gli attributi invece esistono solo con la sostanza. Il giudizio è una proposizione in cui il soggetto è la sostanza ed il predicato è un attributo.
Nelle Categoriae, in cui Aristotele esprime per la prima volta questa dottrina distingue sostanze prime (gli individui) e sostanze seconde (le specie e i generi, predicati).
Il linguaggio per Aristotele ha un valore simbolico convenzionale delle affezioni che hanno luogo nell’anima.
I termini che designano le cose (nomi) o azioni (verbi) se posti secondo connessione compongono un discorso. Tutti i discorsi sono semantici (cioè significano qualcosa) ma non tutti sono apofantici (cioè possono essere veri o falsi).
La verità o falsità di un discorso semantica si ha a seconda della congruenza di esso con la realtà: l’affermazione o negazione di un predicato del soggetto in corrispondenza alla connessione o non connessione oggettiva di sostanza ed attributo identificano il giudizio vero.
Inoltre vi è la distinzione tra universalità o particolarità della predicazione: universali sono i giudizi il cui predicato si attribuisce alla totalità dei soggetti, particolari i giudizi il cui predicato si addice solo a qualche soggetto.
Perciò possiamo dividere i giudizi in: universali affermativi (indicati dai medievali con la vocale A di affirmo), particolari affermativi (I di affirmo), universali negativi (E di nego), particolari negativi (O di nego).
Altra distinzione minore è tra il giudizio singolare e l’indefinito: nel primo il soggetto designa un singolo individuo, nel secondo il soggetto o il predicato è indicato con termini negativi.
Aristotele definisce contrarie A ed E, contraddittorie A e O e E e I. Le proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere ma possono essere entrambe false e quindi può essere vero un terzo caso non contemplato (tutti gli uomini sono bianchi tutti gli uomini non sono bianchi); le due contraddittorie invece non possono essere entrambe vere o false ma una vera e l’altra falsa (tutti gli uomini sono mortali, qualche uomo non è mortale).
La sillogistica è precisamente l’analisi delle forme dei giudizi. Si può difatti sapere se un predicato possa essere attribuito ad un soggetto solo se si trova un termine medio che li colleghi. Pertanto un sillogismo è fondato su un ragionamento che da una premessa maggiore (connessione del Predicato con il termine Medio) e da una premessa minore (connessione del M con il Soggetto) trae una conclusione nuova (connessione P S). Famoso esempio: tutti gli uomini (M) sono mortali (P), Socrate (S) è un uomo (M) , Socrate (S) è mortale (P). M è soggetto nella Premessa maggiore e predicato nella minore e le premesse e la conclusione sono delle proposizioni A.
Il termine medio può fare anche da predicato in entrambe le premesse (nessun bruto può essere virtuoso, tutti gli uomini possono essere virtuosi, nessun uomo è bruto) in cui una premessa e conclusione sono negative; da soggetto in entrambe (tutti gli uomini sono animali, tutti gli uomini sono ragionevoli, alcuni animali sono ragionevoli), la cui conclusione è particolare. Inoltre le premesse possono essere entrambe universali o particolari oppure lo può essere una solo delle due e affermative o negative (anche qui entrambe o solo una delle due).
Da questa presentazione comprendiamo come esistano molti modi sillogistici e di questi una buona parte “inconcludenti”. Studiarli permette anche di comprenderne l’uso e l’abuso, come nel caso della quaternio terminorum: attraverso un riferimento equivoco del termine medio attribuito a due cose diverse, si introducono nel sillogismo quattro termini invece di tre: questo è l’ingannevole modo di argomentare dei sofisti.
Tuttavia è da puntualizzare ancora che lo studio del sillogismo ci spiega il procedimento logico di un giudizio, non la sua verità o falsità. Quanto alla verità delle asserzioni infatti Aristotele distingue i vari sillogismi:il sillogismo dimostrativo o apodittico ha una conclusione fondata su premesse vere, principii di conoscenza o premesse probabili ed è alla base della scienza; il dialettico è fondato su premesse probabili ed è verosimile e fonda il ragionare; il sofistico, fondato su premesse che sembrano solo probabili, fonda l’eristica.
Ad una premessa vera si perviene o traendo conseguenze da premesse che si sanno vere oppure come risultato dell’esame dei casi particolari. La prima via è quella della deduzione, la seconda dell’induzione.
L’induzione si fonda sui singoli casi e procede verso l’universale, contrariamente alla deduzione. Per essere completa deve esaminare tutti i casi possibili; ovviamente le conclusioni sono subordinate all’esperienza e si ferma alla constatazione del fatto senza poterne dare la causa. In compenso è più facile perché si basa sulla conoscenza sensibile (prima per noi).
Il metodo deduttivo è più rigoroso ed efficace contro le contraddizioni perché si basa su principi universali (primo in sé) ma la difficoltà è nell’avere proposizioni immediatamente evidenti non dedotte su cui lavorare. Difatti queste non possono essere conosciute attraverso la ragione discorsiva (diànoia) ma attraverso l’intuizione nella loro unità colta dall’intelletto (noùs). Questi principi non sono dimostrabili, ma sono a fondamento della scienza, quindi più certi delle dottrine scientifiche.
Scienza ed intelligenza sono certe e stabili e si occupano di ciò che è stabile ed eterno; l’opinione invece si interessa di ciò che può cambiare. Opinione e scienza sono inconciliabili quanto a conclusioni anche se possono vertere sullo stesso oggetto.
I primi principi logici sono quelli di identità, contraddizione, terzo escluso. Il principio di identità, mai così nominato da Aristotele, esprime che ogni contenuto della nostra esperienza mentale deve essere necessariamente determinato ed identico a se stesso; per il principio di contraddizione non si può attribuire ad un medesimo soggetto nello stesso tempo ed aspetto predicati contraddittori. Il principio di contraddizione impone di scegliere tra affermazione e negazione, pertanto terzo escluso.
Partendo da questi principi la scienza definisce l’essenza delle cose. La definizione collega il predicato al soggetto attraverso il genere (la classe più ampia cui appartiene l’individuo), la specie (la parte del genere alla quale appartiene specificamente l’individuo), la differenza (ciò che distingue una specie dall’altra), il proprio (l’attributo che appartiene necessariamente alla sostanza), l’accidente (l’attributo che può appartenere alla sostanza).

La metafisica

Abbiamo affrontato la logica come scienza propedeutica rispetto alle scienze vere e proprie. Va analizzato con più attenzione ora il ruolo attribuito alle scienze da Aristotele ed il posto attribuito in questo complesso alla filosofia.
Aristotele riconosce il connubio virtù-felicità nell’opera e nella vita stessa di Platone. Ma mentre per Platone la scienza è virtù e felicità e difatti si interessa più del filosofo che della filosofia, per Aristotele la filosofia non è la vita, ma singola scienza, distinta dalle altre, altrettanto importanti, di cui è fondamento e sistema di scienze.
Per Aristotele, la filosofia è dapprima la scienza divina che ha ad oggetto l’essere immobile e trascendente, motore dei cieli; dipoi scienza che ha ad oggetto l’essere in quanto tale, mentre le altre scienze ne colgono le determinazioni.
Le scienze possono avere ad oggetto il possibile od il necessario: il possibile è ciò che può essere in un modo o nell’altro; il necessario è ciò che non può essere diversamente da ciò che è.
Il possibile comprende l’azione (pràxis), che ha il suo fine in se stessa e la produzione (poiésis), che ha il suo fine nell’oggetto prodotto; le scienze aventi ad oggetto il possibile sono le arti, dette normative o tecniche: tra queste la politica e l’etica hanno ad oggetto le azioni e quindi sono pratiche, le arti hanno ad oggetto i prodotti e sono quindi poietiche (la poesia ha appunto questa radice).
Si interessano del necessario le scienze speculative o teoretiche, matematica, fisica e filosofia prima, poi detta metafisica. La prima ha ad oggetto la quantità discreta numerica (aritmetica) o continua ad una, due e tre dimensioni (geometria) e quindi enti che non esistono di per sé ed immobili; la seconda gli enti che esistono per sé in movimento e quindi le determinazioni dell’essere legate alla materia che del movimento è condizione. La filosofia prima, analogamente alle due sorelle, procede per astrazione dalle determinazioni particolari, e parte da principi fondamentali, in questo caso l’essere in quanto essere; essa studia perciò gli enti esistenti per sé immobili. E’ stata perciò denominata metafisica da Andronico perché posta nell’ordine degli scritti aristotelici dopo la fisica e perché dalle apparenze sensibili giunge alla sostanza immobile per salvare i fenomeni
L’unico modo per ridurre ad unità tutti i modi dell’essere perché la filosofia sia scienza dell’essere in quanto essere è riconoscere il principio di non contraddizione.
Esso è principio ontologico (costituisce l’essere) e logico (costituisce ogni pensiero vero sull’essere): è impossibile che l’essere sia e non sia, è impossibile predicare di uno stesso soggetto l’essere ed il non essere. Negano il principio ontologicamente gli eraclitei, logicamente megarici, cinici e sofisti, ma negandolo essi non dicono nulla o escludono la possibilità di qualunque scienza. Il principio mostra che l’essere, in quanto tale, è necessariamente. Difatti se ci riferiamo ad un singolo essere, come l’uomo, è determinato dall’essere animale bipede, l’ uomo non può perciò non essere bipede, quindi è necessariamente bipede. L’essere è ciò che deve essere.
La prima categoria dell’essere è la sostanza ed infatti noi per avere conoscenza di una cosa dobbiamo prima chiederci che cosa è? Nel VII libro della Metafisica, al capitolo 17 Aristotele dice che la sostanza è il principio (arché) e la causa (aitìa) di ogni cosa determinata, facendo in modo che essa non sia semplicemente la somma dei suoi elementi costitutivi; come principio costitutivo necessario di una cosa, la domanda sul perché di una cosa, sia come fine dietro la cosa stessa sia come causa efficiente del divenire della cosa, è la domanda sulla sostanza. La sostanza è l’essere delimitato e limitato dalla necessità dell’essere (essenza dell’essere), ma anche l’essere che determina necessariamente (l’essere dell’essenza), in una parola sola, l’essenza necessaria. La sostanza è l’essenza necessaria, non l’essenza di una cosa, ciò che costituisce l’essere proprio di una cosa.
Per Platone al centro c’è il bene, perciò il valore è ciò che è importante e l’essere va studiato in quanto ha valore; per Aristotele ogni essere dal più alto al più basso ha un valore, per questo diventa legittimo studiare ogni cosa, anche la più insignificante.
La sostanza è intesa come essenza dell’essere quando Aristotele dice che è espressa dalla definizione ad opera dell’intendimento e della dimostrazione della ragione, quando dice che è la forma delle cose composte che dà unità al tutto e diversità rispetto ad altro, quando dice che è la specie, il concetto o lògos che non è generato né diviene;
La sostanza è intesa come essere dell’essenza quando Aristotele sostiene che si identifica con la realtà determinata, che è il substrato che accoglie ogni predicato ma che non è predicato, materia priva di determinazione che possiede ogni determinazione solo in potenza, che è sinolo cioè unione di forma e materia, perciò in grado di nascere e perire.
La sostanza nel primo senso è conoscibile, oggetto di scienza, giacché stabile e necessario; nel secondo senso giacché corruttibile, è oggetto di opinione. Tuttavia anche della realtà particolare corruttibile rimane nel soggetto il concetto.
Tramite il concetto di sostanza Aristotele fonda la filosofia prima e tutte le scienze.
La ricchezza di significati della sostanza esclude però l’idea platonica della separazione dell’essenza dall’essere: il fondamento dell’essere non è al di fuori dell’essere, individui e specie sono sostanze distinte, ma la sostanza è propria del singolo non di ciò che è comune a più cose, altrimenti in una singola cosa si avrebbero più sostanze, il che è impossibile.
Quattro sono gli argomenti addotti da Aristotele: ammettere un’idea per ogni concetto significa non solo ipotizzare tante idee quanti oggetti sensibili, ma tante idee quanto tutti i modi o caratteri racchiudibili in un concetto, divenendo così più difficile spiegare il mondo delle idee che la realtà sensibile; per dimostrare le idee diventa indispensabile postulare idee anche di cose transitorie e negazioni, contrariamente ai platonici, poiché di esse esistono i concetti e così tra l’idea di uomo e uomo c’è un’idea intermedia e così via all’infinito; le idee non sono cause di movimento e mutamento e quindi sono inutili per spiegare il mondo sensibile; senza principio attivo le idee non sono capaci di creare le cose, perciò la sostanza non può esistere separatamente da ciò di cui è sostanza.
L’idea è separata dall’essere e perciò è condannata da Aristotele, indipendentemente dal fatto che essa per Platone sia la norma ed il valore del mondo. Il valore per Aristotele è intrinseco alle cose, è ontologico, costituito dall’essere, dalla sostanza, non come in Platone morale, universale, cosmico, a fondamento dell’essere.
Per conoscere le sostanze particolari conviene partire da quelle più conoscibili, quindi quelle sensibili, soggette al divenire.
Aristotele obietta a Parmenide ed alla scuola eleatica che non ci si può basare sulla contrapposizione essere non essere per negare il movimento perché non è reale l’essere bensì il singolo ente ed in quest’ottica il movimento è innegabile.
Il movimento esiste in quattro forme: sostanziale (generazione o corruzione dell’ente), qualitativo (da una qualità all’altra), quantitativo (diminuzione od aumento), locale (da un luogo all’altro). Perciò esso è passaggio da qualcosa a qualcos’altro.
Ciò che diviene ha una causa efficiente che è il punto di partenza, la forma, che è il punto d’arrivo, dalla materia, sua possibilità di forma. La forma che si imprime alla materia non è soggetta al divenire, lo è l’insieme di materia e forma (sinolo).
Di cause del divenire si parla in quattro modi, dice Aristotele: formale (l’immagine da raffigurare nella statua), materiale (bronzo della statua), causa efficiente (l’artista), il fine (lo scopo dello scolpire). Ma si possono ricondurre tutte alla prima, di cui sono determinazioni. I fisici trattano della seconda e della terza, Platone della prima, della quarta Anassagora ma tutti loro in maniera confusa.
La sostanza nel divenire si identifica col fine, con l’ atto. Perciò se la sostanza è la forma e l’atto, la materia è la potenza. La potenza (dynamis), possibilità del mutamento, nel senso attivo di produrre un mutamento è propria della causa efficiente, nel senso passivo passiva di capacità di subirlo è propria della materia. L’atto è l’esistenza dell’oggetto; atto può essere sia un movimento (kinesis) che un’azione (pràxis) che ha il fine in se stessa. Movimenti incompiuti sono gli atti che non hanno in se stessi il proprio fine.
L’atto è prima della potenza, poiché si manifesta solo con esso, sia nel tempo che come concetto ed è condizione prioritari di tutto il resto.
L’azione che ha in se stessa il suo fine è detta atto finale (entelècheia), termine perfetto del movimento, forma e specie perfetta, quindi sostanza. Di fronte ad essa la materia prima, pura e priva di forma, è inconoscibile e non è sostanza.

La fisica

La fisica studia la physis, la natura, natura che abbiamo appena visto è il regno del movimento e del divenire.
Gli elementi naturali che determinano la materia informe sono quattro: aria, terra, l’acqua è l’elemento freddo umido e la terra freddo secco, che si muovono verso il basso (la terra di più infatti nell’acqua affonda), l’aria caldo umido e il fuoco caldo secco si muovono verso l’alto (l’aria meno del fuoco, come dimostra l’ebollizione); in più vi è l’etere o quintessenza che compone i corpi celesti, che si muove circolarmente. Il movimento dei quattro elementi infatti non è perfetto poiché in esso inizio e fine non coincidono come avviene invece nel moto circolare. Il primo movimento è proprio della generazione e della corruzione, diversamente dal secondo, proprio dell’eternità.
Le sostanze determinate perciò si dividono in: sensibili mobili, che costituiscono il mondo fisico e che appartengono alla classe ingenerabile ed incorruttibile che costituisce i corpi celesti o alla classe generabile e corruttibile costituita dai quattro elementi sublunari ; ed insensibili immobili, oggetto della teologia (XII libro della Metafisica).
Il movimento uniforme ed eterno del primo cielo che regola il movimento degli altri cieli deve avere necessariamente secondo Aristotele causa in un motore primo immobile, altrimenti dovremmo andare ancora a ritroso a ricercare il motore primo.
Il primo motore sarà atto puro, quindi senza possibilità di non muovere, senza possibilità di passaggio dalla potenza all’atto, proprio del divenire; esso non avrà grandezza (una grandezza infinita non esiste e una grandezza non può avere l’infinita potenza necessaria a muovere in eterno) e giacché la materia muta e si corrompe sarà immateriale; sarà causa finale, sommo bene e non causa efficiente non avendo materia né grandezza. Questo primo motore è da identificarsi con Dio.
Il primo motore, essendo immateriale, sarà pensiero: non pensiero di altre cose (altrimenti soggiacerebbe al passaggio dalla potenza all’atto), ma pensiero di pensiero, unità di intelletto ed intelligibile.
Come Dio muove il primo cielo, così ogni cielo è un’intelligenza motrice immobile ed eterna, per cui valgono gli stessi principi, muove il successivo. Il movimento non circolare dei pianeti richiedeva che si ipotizzassero più sfere che muovessero ogni pianeta, per cui Aristotele ne ammetteva 47 o 55, secondo le diverse interpretazioni di Eudosso o Callippo.
Dio perciò non crea il mondo, ispirando solo al primo cielo il suo desiderio di vita perfetta, ma ne garantisce l’ordine. Tuttavia la sostanza è il fondamento intrinseco dell’essere, non Dio.
Perciò all’estremità della regione celeste vi è la sfera delle stelle fisse, poi via via le altre, passando per quelle dei pianeti, del sole, della luna, fino a giungere alla terra immobile al centro dell’universo.
Il mondo è unico e perfetto, secondo la pesantezza al centro vi è la terra, intorno la sfera circolare dell’acqua, intorno ancora la sfera dell’aria, poi quella del fuoco, poi i cieli ed i corpi celesti. Gli elementi che si allontanano violentemente dalla propria sfera vi tornano naturalmente. Esiste un unico mondo perché anche se vi fosse al di fuori altra terra, aria o acqua tenderebbero a tornare nella loro sfera ricostituendo l’unico mondo. Il mondo è inoltre eterno.
A proposito del moto violento, Aristotele sostiene che l’aria sospinga il sasso lanciato verso l’alto da una mano, per cui se esistesse il vuoto il movimento sarebbe impossibile; altrimenti si dovrebbe ipotizzare una velocità infinita o la medesima velocità per corpi di diverso peso.
La perfezione implica ovviamente finitezza e Aristotele nega l’infinito. Infatti il mondo è il limite spaziale (per questo la retta non può essere infinita) e lo spazio è il limite immobile che abbraccia un corpo (per cui il vuoto non esiste); il tempo è un ordine misurabile secondo il prima ed il poi dal movimento degli astri.
Il mondo è ordinato secondo un fine: perciò nulla è accidentale e tutto rientra in quest’ordine: anche la fortuna stessa (tùke) rientra in quest’ordine.
Vale la pena sottolineare ancora questo interesse per la ricerca scientifica.
Le sostanze inferiori sono le più accessibili e quindi hanno il sopravvento nella ricerca scientifica, più vicine e quindi simili a noi. Sia che si studi la natura che le cose divine si mira alla forma a prescindere dalle parti materiali, l’indagine verte sempre sulla sostanza totale.
Aristotele si interessò di biologia, soprattutto negli anni dell’età adulta, di fenomeni metereologici, di genetica, embriologia, anatomia e fisiologia animale, mostrando verso tutte queste materie lo stesso interesse per la sperimentazione, lo spirito sistematico, attenzione per il concreto ed il particolare.

La psicologia e la conoscenza

Nella natura le parti hanno valore in quanto finalizzate al tutto, per cui anche gli esseri viventi, a seconda della complessità delle funzioni e delle forme, sono disposti gerarchicamente.
Gli organismo viventi sono composti di corpo ed anima, unità indissolubile. L’anima è la forma incarnata nella materia corpo: è l’atto che vivifica il corpo, che è potenza. Il corpo è strumento la cui funzione di vivere e pensare è attivata dall’anima. Proprio perché unità indissolubile, quando muore il corpo muore anche l’anima e viceversa e non è ipotizzabile una vita ultraterrena dell’anima che si separi dal corpo come prefigurava Platone.
L’anima ha tre funzioni psichiche vitali: vegetativa, propria di tutti gli esseri viventi a partire dalla piante che consiste nella capacità nutritiva e riproduttiva; sensitiva propria degli animali che permette la sensibilità ed il movimento; intellettiva, propria solo dell’uomo, che presiede la conoscenza e l’agire razionale. La funzione superiore può fare le veci dell’inferiore.
La conoscenza è da Aristotele concepita come un passaggio dalla potenza all’atto: con l’atto del conoscere il soggetto conoscente in potenza conosce in atto, ciò che è conoscibile in potenza diventa conosciuto in atto.
All’origine della conoscenza è la sensazione, con cui l’anima diventa senziente e l’oggetto sentito: l’anima riceve dell’oggetto solo la forma.
Vi è un sensorio comune in aggiunta ai cinque sensi che permette di unificare quanto percepito in una singola rappresentazione e permette di cogliere i “sensibili comuni” (moto, estensione) non avvertibili da alcuno dei singoli sensi isolatamente.
La capacità di conservare e produrre rappresentazioni degli oggetti anche quando non presenti alla sensibilità è l’immaginazione: l’immaginazione si distingue dalla scienza che è sempre vera e dall’opinione che è fede nella realtà dell’oggetto. Sull’immaginazione si fonda la memoria.
L’intelletto astrae dalle immagini le forme intelligibili, l’universale ed il concetto, che sono eterne, immutabili, indivisibili.
L’intendere in atto coincide con l’oggetto intelligibile, con la verità intesa. Va perciò distinto l’intelletto potenziale ed attuale. Il secondo, separato, eterno, immutabile fa venire alla luce tutte le verità che nel primo, corruttibile sono solo in potenza.

L’etica

L’etica è stata affrontata innanzitutto nei libri I, II, III, VII, VIII (il più anteriore probabilmente); i libri IV, V, VI sono posteriori e comuni all’Ethica Nicomachea, di cui costituiscono i libri V, VI, VII. L’Ethica Nicomachea è posteriore.
Ogni azione per Aristotele viene compiuta per un fine che appare buono e desiderabile; alcuni fini sono mezzi per fini superiori. Il fine sommo, desiderabile di per se stesso, bene sommo è la felicità. La politica lo cerca e determina.
Piacere si ottiene quando si esegue bene il proprio compito; per felicità Aristotele intende il piacere continuo e duraturo; il piacere è più alto quanto più alta è l’azione che lo causa; il compito proprio dell’uomo è la vita secondo ragione; perciò il vivere secondo ragione è la fonte massima di felicità. Vivere secondo ragione è perciò virtù e la ricerca della felicità è la ricerca della virtù. Il piacere deriva dalla vita virtuosa; i beni possono rendere più facile o difficile il conseguimento della virtù ma la scelta di quest’ultima dipende solo dall’uomo che quindi è libero, non di determinare il proprio fine quanto di scegliere o meno di perseguirlo e scegliere quali mezzi adottare.
Due sono i tipi di virtù: la dianoetica o intellettiva, che consiste nell’esercizio stesso della ragione e la etica o dell’agire che consiste nel dominio dei sensi ad opera della ragione.
Quest’ultima è la capacità (héxis) di scegliere il giusto mezzo (mesòtes): giacché ogni proponimento è il convergere di un elemento razionale (boùlesis) che deve prevalere, e di uno irrazionale (òrexis) che ha la forma della volontà, dell’impeto, del desiderio, l’irrazionale, perché l’uomo sia virtuoso, deve continuamente dare il proprio assenso al proponimento; la virtù cioè si rafforza con l’esercizio.
Suoi aspetti sono il coraggio (tra viltà e temerarietà su ciò di cui si deve temere), la temperanza (tra intemperanza ed insensibilità, sull’uso del piacere), la liberalità (tra l’avarizia e la prodigalità, sull’uso delle ricchezze), la magnanimità (tra vanità ed umiltà), sull’opinione di sé), la mansuetudine (tra l’irascibilità e l’indolenza, riguardo l’ira).
Va notato tra l’altro che per Aristotele senza elemento irrazionale noi non potremmo compiere alcuna azione (a questo elemento appartiene la volontà); un uomo privo di passioni non potrebbe realizzare l’armonia (symphonìa) degli estremi che è nella virtù.
La principale virtù etica è la giustizia, cui dedica il V libro dell’Etica Nicomachea. Essa è la conformità alle leggi ed è la virtù perfetta. In un senso specifico, essa può essere distributiva o commutativa: secondo la prima bisogna dare proporzionalmente ai meriti di ciascuno e si attua nella divisione di beni, denaro, onori; la seconda cerca di pareggiare tra vantaggi e svantaggi dei contraenti, presiede ai contratti volontari o involontari (di tipo fraudolento come il furto o violento come le percosse).
Il diritto si fonda sulla giustizia. Esiste oltre al diritto privato il diritto pubblico, che regola la vita degli uomini nello Stato ed è legittimo, stabilito da leggi o naturale, non sancito. L’equità è la correzione effettuata dal diritto naturale della legge nei casi in cui sarebbe ingiusto applicare quest’ultima.
La virtù dianoetica comprende la scienza (apodittica), capacità dimostrativa di ciò che non può accadere diversamente da ciò che accade, cioè del necessario e dell’eterno; l’arte (techne), capacità di produrre un oggetto; la saggezza (phrònesis), capacità di fare cose che abbiano in se stesse il loro fine (essa determina il giusto mezzo); l’intelligenza (nous), capacità di cogliere i principi primi delle scienze; la sapienza (sofìa), virtù somma, che deduce i principi e giudica della loro verità, interessandosi delle cose universali e non di quelle umane come fa la saggezza.
Per Platone il bene è origine dell’essere e studiarlo significa saggezza e sapienza; per Aristotele l’essere non ha il suo principio nel bene ma nella sostanza, perciò la sapienza è conoscenza dell’essere, scienza, la saggezza conoscenza del bene. Perciò per Aristotele Talete, Anassagora erano sapienti, non saggi.
Il libro VIII e IX dell’Ethica Nicomachea ed il VII della Ethica Eudemea trattano dell’amicizia, rapporto di solidarietà ed affetto tra uomini, indispensabile all’uomo: se essa è fondata sul piacere o sull’utile termina quando il piacere o l’utile cessa, se fondata sul bene e sulla virtù ha radice nella natura della persona e quindi è stabile. Sul piano individuale l’amicizia comporta il desiderare il bene dell’altra persona, sul piano sociale fonda grazie alla giustizia la vita associata.
La felicità si raggiunge perciò con la sapienza, non con il piacere, né gli onori; la sapienza è la massima virtù dianoetica ed il sapiente non ha bisogno di nulla che non sia in se stesso: perciò è sereno ed in pace perché non si affatica per un fine esterno; la vita teoretica è dell’uomo in quanto ha in sé qualcosa di divino.
In questo aspetto Aristotele si ricongiunge a Platone: la ricerca dell’essere è il compimento della vita umana.

La politica

La politica è il fine della vita etica. La vita associata è un’esigenza naturale degli uomini: infatti l’uomo è un animale socievole (zoòn politikòn), diversamente dalle bestie o dalle divinità che possono vivere isolate.
Solamente l’uomo Greco tuttavia è animale politico, giacché i barbari non vivono nelle polis, bensì in grandi regni che sono domini personali del sovrano e perciò sono servi per natura.
L’individuo ha bisogno degli altri sia per le proprie necessità sia perché senza leggi ed educazione non può raggiungere la virtù. Perciò è necessario lo Stato, il quale si pone come fine la felicità: esso è il fine ultimo di tutte le forme di convivenza sociale. La famiglia è la prima struttura, sia dal punto di vista sociale (è organizzata come un primato del capofamiglia sulla donna e figli e sul possesso degli schiavi) che economico. Come si può osservare, Aristotele accetta la schiavitù, giustificata dalla disuguaglianza naturale degli uomini: gli schiavi sono strumenti animati che col proprio lavoro permettono agli uomini liberi di dedicarsi ad altre attività tra cui la contemplazione della verità.
Economicamente Aristotele mostra una preferenza per l’attività agricola che converte merce in denaro per acquistare altre merci piuttosto che per l’attività commerciale che converte denaro in merce per guadagnare altro denaro e quindi è mossa dal desiderio di ricchezza più che dal bisogno.
Aristotele cerca la forma di governo più adatta a tutte le città, scelta intermedia tra una esistente ed una ideale. Negli ultimi due libri disegna la forma migliore, verosimilmente nei libri IV, V e VI esaminava le tante da lui raccolte. In ogni caso il libro più antico risulta essere il III, che discute delle forme perfette.
Le forme di governo le divide in monarchiche in cui governa uno, aristocratiche, in cui governano i migliori, costituzionali (politèiai), che oggi definiremmo democratiche, in cui governano i più. Esse degenerano allorché ognuno agisca per il proprio interesse: la monarchia diviene tirannide, l’aristocrazia oligarchia, la costituzione diviene democrazia, ovvero dominio dei nullatenenti in cui nessuno mira all’utile comune. Ovviamente ogni forma di governo struttura in maniera differente le proprie istituzioni: così l’equilibrio migliore si ha quando governa la classe media agricola piuttosto che non quando governano ricchi che vogliono mantenere l’ineguaglianza o i poveri che vogliono sovvertire lo status quo.
Aristotele, che in un primo tempo preferiva la monarchia, giacché è più facile realizzare la virtù in uno che in molti, ritiene poi che la politèia conferisca la possibilità a tutti di raggiungere la virtù e di coprire cariche pubbliche, essendo abbastanza duttile inoltre ad accogliere ciò che vi è di buono nelle altre forme di governo.
Più specificamente i cittadini devono essere proporzionati all’estensione territoriale e bisogna tener sempre presente l’indole del popolo che si governa. I compiti devono essere distribuiti bene e Aristotele postula tre classi ma non prevede comunanza di donne o beni. Difatti nel IV libro, in cui Aristotele affronta tale questione, nota come gli affetti e la proprietà siano ciò di cui l’uomo si preoccupa di più perché suoi e perciò lo stimolano ad agire.
E’ bene governino gli anziani, giacché vi è meno amarezza nell’obbedire ad una persona più anziana e si potrà poi occupare il suo posto. Comunque i filosofi non sono posti a capo della città quanto piuttosto come consiglieri: difatti ciò che è necessario all’uomo politico è la saggezza pratica (phrònesis) di cui il primo è privo. Compito principe dello stato è l’educazione, uguale per tutti, mirante soprattutto al conseguimento della virtù.

Retorica e poetica

Utile sarà lo studio della retorica, arte che studia le possibili vie per persuadere la gente riguardo ad un argomento.. Essa studia perciò il probabile e va adoperata in funzione della verità, diversamente da come hanno fatto i sofisti.
La retorica è deliberativa se mira a dimostrare l’utile od il pernicioso affinché si prendano delle decisioni per il futuro; giudiziale se mira ad accusare o difendere per la valutazione del passato; dimostrativa per lodare o condannare cose presenti.
Riguardo all’arte, essa è concepita da Aristotele come imitazione (mìmesis) che avviene con vari mezzi (colori nella pittura, suoni nella musica, voce nella poesia), su vari oggetti (persone superiori al comune nella tragedia e nell’epica, comuni o inferiori nella commedia), in varie modalità (narrando nei ditirambi, rappresentando nella tragedia o nella commedia che sono la forme d’arte più imitative e quindi più alte, narrando e rappresentando nell’epica). In particolare la poesia drammatica (commedia e tragedia) è composta da un mito o intreccio, dalla rappresentazione dei caratteri, dalla diànoia o riflessione intellettuale, dall’elocuzione.
L’imitazione è una tendenza naturale che si esprime con il linguaggio, l’armonia ed il ritmo e viene valutata positivamente.
Della Poetica a noi è rimasto solo il primo libro, che contiene la descrizione della tragedia: imitazione di un’azione seria e compiuta, di una certa estensione, abbellita in varie forme, di forma drammatica, che mediante una serie di avvenimenti che suscitano pietà e terrore ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da tali passioni.
L’azione tragica è perciò un’unità, tutti gli avvenimenti sono ordinati e concatenati, Gli avvenimenti nella storia si succedono, nella poesia invece si concatenano; l’una narra le cose realmente accadute, l’altra cose possibili secondo la legge della verosimiglianza e della necessità; perciò l’una concerne il particolare, l’altra l’universale giacché i suoi contenuti possibili riguardano non solo i personaggi ma anche tutti i possibili spettatori.
La tragedia per Aristotele purifica l’anima dello spettatore che partecipa alle passioni rappresentate, così come avviene nella musica. Perciò l’arte assume un potente fine educativo. La passione, verosimilmente, giacché su questo punto non abbiamo passi precisi, viene purificata o esaltata, non abolita nella tragedia: distogliendo l’uomo dall’oggetto della passione per interessarlo alla passione in sé, la tragedia scopre il mistero della passione e rende l’uomo cosciente.
E’ facile notare la differente posizione di Platone, per cui le passioni rappresentate spingerebbero all’imitazione e perciò l’arte è giudicata dannosa, illusoria.

  • Aristotele
  • Letteratura Latina

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti