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Il Leninismo

Le caratteristiche essenziali del Leninismo.

Il Leninismo è l’interpretazione teorica-pratica del marxismo, in chiave rivoluzionaria, elaborata da Lenin in un paese industrialmente arretrato, come la Russia, dove i contadini rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione. Accennare all’introduzione del marxismo in Russia, non solo fornisce alla comprensione del leninismo il necessario quadro ambientale, ma coinvolge direttamente nel discorso l’evoluzione dello stesso Lenin, la cui iniziale formazione politica si intreccia con le vicende di quell’ala della intelligenzia rivoluzionaria russa venuta al marxismo dal populismo, si nutre degli stessi problemi, è scandita delle identiche tappe, sebbene contratte in un lasso di tempo molto più breve.

Il populismo russo è caratterizzato da tre elementi:

1. una devozione mistica verso il popolo contadino;

2. il rifiuto della industralizzazione, per il prezzo appunto che essa riversa sulle classi rurali, almeno nella forma privatistico-concorrenziale del modello inglese, con la conseguente idea di giungere direttamente al socialismo dall’assetto comunitario tradizionale delle campagne, basato sulla comune rurale o obscina, saltando la tappa del capitalismo;

3. un elemento, infine, messianico-nazionalistico, che gli deriva o comunque l’accomuna alla destra slavofila, attraverso il quale la percezione della grande arretratezza del proprio paese, dolorosamente risentita dagli intellettuali russi, si tramuta in un compensatorio senso di superiorità, del tutto irreale, ma non per questo meno prepotente ed efficace come stimolo all’azione.

Quando, dopo decenni di preparazione teorica, agli inzi degli anni Settanta del secolo scorso, il movimento populista si concretizzò nell’andata verso il popolo, da cui doveva prendere il nome, sopravvenne immediata la delusione e la crisi. I contadini riservarono, infatti, una pessima accoglienza agli entusiasti che andavano a loro con la speranza di promuoverne la maturità civile e politica, per indurli alla sollevazione contro l’autocrazia. Il populismo non abbandonò, per questo, la sua fede nella potenzialità rinnovatrice del contadino russo, ma si rese conto dell’importanza di istituzioni liberali, per realizzare un proficuo contatto tra intellettuali e popolo altrimenti succube della propria arretratezza culturale e di un’istintiva diffidenza verso il nuovo. Nacque così la narodnaja Volja, organizzazione terroristica che si proponeva di intimorire con gli attentati l’autocrazia, per indurla a concedere una costituzione di tipo occidentale. Questa organizzazione segret che raggruppva sotto una rigida disciplina una élite di estrazione borghese e persino nobiliare, costituì il modello del successivo partito leninista.

Quando nel 1887 l’attentato ad Alessandro III fallì, dopo che era materialmente riuscito quello ad Alessandro II nel 1881, senza però che né seguissero i risultati politici sperati tra i congiurati che caddero vittime della repressione vi fu Alessandro Uljanov: l’allora diciassettenne Vladimir Uljanov, detto poi Lenin, iniziò così, sulle orme del fratello maggiore, la sua carriera rivoluzionaria come populista, e sempre in seguito protestò la sua ammirazione per lo strumento organizzativo creato dal populismo, anche se la morte del fratello lo portò a ricvedere la strategia populista basata esclusivamente sui gruppi settari e la prassi degli attentati.

Nel frattempo, già prima dell’attentato ad Alessandro III, un piccolo nucleo di populisti guidati da Plekhanov (1856-1918) aveva rifiutato, come sterile, la via del terrorismo, spontando le proprie speranze dalla classe contadina,  che se ne era dimostrata per così dire immeritevole, a quella operaia, ancora agli albori in Russia, ma di cui il marxismo, importato dall’Occidente, garantiva la sicura, oggettiva, scentifica, vocazione rivoluzionaria.

Il compito teorico del nucleo marxista fu anzitutto quello di dimostrare che un avvenire capitalista, e quindi la formazione di una numerosa ed agguerrita classe operaia, attendeva la Russia. Ne nacque una polemica pluridecennale con i populisti, i quali negavano la possibilità di uno sviluppo capitalistico nel loro paese, stante la mancanza di un mercato interno per l’estramo miseria contadina, cioè del 90% della popolazione, e la non disponibilità di mercati esteri ormai tutti accaparrati dalle maggiori potenze industriali.

Quando Lenin, spinto dallo stesso bisogno di certezza fideistica nell’inevitabilità della rivoluzione, approdò al marxismo, fece in tempo a farsi le ossa sferrando gli ultimi e decisivi colpi in questa polemica. Nei suoi scritti giovanili, attingendo al secondo libro del Capitale  scarsamente conosciuto, laddove i populisti facevano invece tesoro del primo, Lenin dimostrò così in maniera ineccepibile il carattere economico e non geografico del concetto di mercato, la cui estensione va misurata pertanto non in chilometri quadrati e neppure, a rigore, in milioni di abitanti, ma è funzione della divisione sociale del lavoro, a sua volta dipendente dagli sviluppi della scienza e della tecnica.

Sul momento Lenin non si accorse di essere andato, in questo modo, ben oltre il bersaglio, presentando della dinamica capitalistica un’immagine prima di insuperabili contraddizioni interne, in grado di causarne il fatale inceppamento. Uomo d’azione, e quindi portato ad affrontare le difficoltà a mano a mano che esse si manifestano, ben si comprende, che, di fronte al fatto tangibile della non rispondenza della classe sontadina alla missione rivoluzionaria che i populisti volevano accollarle, Lenin non fosse sfiorato dal dubbio teorico che anche la classe operaia potesse rivelarsi non essere all’altezza di questa missione.

Il trapianto del marxismo in Russia solleva semmai un’altra difficoltà, questa volta inerente al corpo stesso dei postulati fondamentali della dottrina, e pertanto non eludibile.subordinando rigorosamente l’avvento del socialismo al pieno sviluppo della fase capitalistico-borghese, specie dopo la polemica che nell’Europa degli anni Settanta l’aveva contrapposto al volontarismo anarchico, il marxismo imponeva, infatti, ai socialisti russi di battersi per una rivoluzione solo borghese, di aprire anzi la via al pieno sviluppo di un sistema che, per definizione, un socialista parrebbe destinato ad avversare senza quartiere, quello capitalista. L’enorme sproporzione tra la parte arretrata e la parte più moderna dell’economia russa allontanava, inoltre, di alcune generazioni la successiva rivoluzione, quella socialista.

Così il marxismo, se sembrava soddisfare il bisogno di certezza nella rivoluzione, comportava però il sacrificio di una componente altrettanto e forse più essenziale della psicologia dell’autentico rivoluziionario: l’impazienza, il desiderio cioè di vivere da protagonista l’evento palingenetico. Ciò spiega come mai il marxismo, benchè lo sviluppo capitalistico che si verificò in Russia a cavallo tra i due secoli gli desse ampiamente ragione, non riuscisse tuttavia a sgominare il populismo. L’impazienza vi tratteneva una parte notevole delle forze rivoluzionarie che confluirono poi nel partito che si disse appunto socialista rivoluzionario, destinato a svolgere un ruolo di primo piano nel 1917.

Tuttavia, neppure di fronte al dilemma: o tradire lo spirito scientifico del marxismo, innestandovi l’antica idea populista del salto della fase capitalistica; o accettarlo fino in fondo sacrificandogli l’impazienza per la rivoluzione socialista, Lenin esitò, e fu un marxista ortodosso. Sviluppo del capitalismo a livello delle strutture, sviluppo della democrazia parlamentare a livello delle sovrastrutture, erano infatti per lui i compiti primari e pregiudiziali del partito socialdemocratico russo. Nell’opera conclusiva del primo periodo della sua milizia marxista, lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899), si nota una certa forzatura per dimostrare che il paese era più capitalista, e dunque più vicino al socialismo, di quanto in realtà non fosse.

Fu solo quando negli ultimissimi anni del secolo si diffuse in Russia la conoscenza del revisionismo bernsteiniano, subito ripreso in proprio da diversi intellettuali russi, che iniziò in Lenin la crisi conclusasi nel 1902 con il Che fare?, destinato a diventare il testo base di una nuova ideologia, il Leninismo appunto. Il Revisionismo contestava, infatti, dal seno stesso del marxismo, e per opera di Bernstein, uno dei massimi collaboratori ancora viventi dei due maestri, la vocazione rivoluzionaria della classe operaia, basandosi su mezzo secolo almeno di esperienza occidentale, così come i marxisti russi in questo “revisionisti” del populismo avevano in precedenza negato quella della classe contadina. Ora anche la certezza che il marxismo era sembrato garantire, era compromessa. Il gradualismo, per cui i marxisti russi avevano subordinato la rivoluzione socialista a quella borghese, entrava così in crisi. L’avvento della democrazia politica e il pieno sviluppo del capitalismo cessavano di apparire la garanzia del sicuro avverarsi della rivoluzione socialista. Al contrario, consentendo alla classe operaia di fruire delle libertà “borghesi” e di conseguire miglioramenti progressivi del proprio tenore di vita, ne avrebbero, come era già accaduto in Inghilterra, fiaccato la volontà combattiva, trasformando la sua vocazione rivoluzionaria in prassi riformista. Poiché d'altronde non era dato scorgere ancora nessuna nuova classe cui trasferire di nuovo la missione palingenetica, l’accettazione della priorità pregiudiziale della fase democratico-borghese in Russia implicava, ormai, la rinuncia alla rivoluzione socialista. Che fare?, dunque?

Se fu Lenin a porsi con lucidità la domanda, ciò dipese oltre che dall’eccezionale istinto politico dell’uomo, anche dalla sua particolare formazione marxista. Si può dire, infatti, che le premesse teoriche dei corollari operativi di Bernstein, Lenin le avesse elaborate in anticipo, e con maggior rigore nel corso della polemica contro i populisti. La sua teoria dei mercati equivaleva infatti, a negare la esistenza si ostacoli d’ordine economico all’indefinito sviluppo del capitalismo e, dunque, all’indefinito miglioramento della condizione operaia all’interno del sistema. “ la storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia – scrive Lenin nel Che fare? – colle sue proprie forze solamente, è in grado di elaborare soltanto una coscienza trade-unionista, vale a dire la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai,…”. Quindi “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica”. Il che, a rigore, significa che alla lotta di classe corrisponde una coscienza di classe che non è il socialismo: lotta di classe e socialismo non solo non coincidono, ma addirittura divergono.

Il revisionismo, in verità, non si era spinto tanto in là. Aveva anzi seguitato a pensare che, dalla somma degli sforzi e delle lotte per elevarsi socialmente e culturalmente, sarebbe maturata nella classe operaia una autocoscienza socialista, parallelamente al processo che, dalla somma delle riforme strappate o imposte, avrebbe visto la società mutarsi da capitalista in socialista. Un socialismo del genere, invece che negare radicalmente la cosietà democratico-liberale si presentava però, deposta ogni velleità palingenetica, quale perfezionamento di essa, e il marxismo approdava così anch’esso al riformismo.

Lenin ammette con spregiudicatezza la natura riformista della classe operaia ed implicitamente respinge la teoria del crollo spontaneo del capitalismo, cui aggreppavano le loro speranza rivoluzionarie i marxisti-ortodossi, proprio perché intende salvare nei fatti, e non a parole soltanto, la prospettiva rivoluzionario-palingentica. La concordanza oggettiva tra Leninismo e revisionismo si arresta perciò alla diagnosi. Al livello di terapia il leninismo si caratterizza, invece, per lo sforzo di mettere in opera un insieme di strumenti ideologico-organizzativ atti a rovesciare il corso naturale dell cose.

Se l’evoluzione della classe operaia in regime democratico parlamentare, la conduce fuori dei binari del socialismo, occorrerà anzitutto una guida che mantenga le masse nel giusto cammino. Ecco dunque la necessità e la funzione di un partito di rivoluzionari di professione di origine piccolo-borghese, costituito cioè all’esterno della classe operaia e da essa non controllabile né influenzabile. Il partito, depositario della verità in quanato interprete dell’essenza della classe operaia, incarnazione presente del socialismo, unica garanzia del suo avvento futuro.

E sul tipo di partito da costruire si verifica nel 1903 la scissione tra boscevichi e menscevichi all’interno della socialdemocrazia russa. La questione, solo in apparenza d’ordine puramente organizzativo, coinvolgeva in realtà un diverso giudizio sulle istituzioni democratico-liberali: i menscevichi, non condividendo, come Lenin, le tesi dei revisionisti sulla natura riformista della classe operaia, seguitavano a ritenere le istituzioni democratiche parlamentari una tappa insieme necessaria ed utile, per cui volevano un partito deocratico di massa che di esse potesse pienamente valersi; mentre i bolscevichi di Lenin, pur non giungendo ancora a negare la necessità di una fase democratico-borghese, ne paventavano le capacità di lusinga nei confronti della classe operaia cui intendevano pertanto apprestare, con il partito monolitico, l’antidoto che la salvasse suo malgrado.

Ma di quale efficacia potrà mai essere il partito una volta che la classe operaia, ammessa a fruire dell istituzioni liberali, potrà respingerne la funzione di guida o tenerla di fatto in non cale? L’urgere di questa domanda, che discende con ferrea logica dalla pretesa di conciliare la rivoluzione socialista con la sfiducia nella volontà socialista della classe operaia, sospingerà il Leninismo dal partito monolitico verso lo Stato totalitario come lo strumento che solo appariva in grado di permettere al partito di svolgere fino in fondo e comunque, “anche contro la classe operaia”, la funzione di guida al socilismo. Solamente allora, scomparsa insieme alla classe operaia la sua tendenza al tradeunioismo, Stato e partito si estingueranno dando luogo all’universale libertà nell’universale uguaglianza.

Si aggiunga che in Russia le istituzioni democratico-parlamentari erano ancora da conquistare. La debolezza e l’indecisione della borghesia sembravano, inoltre, affidare questo compito, al partito socialdemocratico: mentre i menscevichi erano desiderosi di assumerselo e di realizzarlo per il meglio, i bolscevichi, date le premesse che si sono viste, erano invece tentati di strumentalizzare la battaglia democratica, per rovesciare l’autocrazia restando assoluti padroni del campo, in modo da prevenire con l’esautorazione di fatto, e se necessario con la soppressione pura e semplice delle istituzioni liberali, l’allontanarsi della classe operaia dalla via del socialismo.

Ritornava così, in Lenin la vecchia idea populista del salto della fase borghese, ma preofondamente cambiata, per rispondere a preoccupazione di tutt’altro ordine. Laddove i populisti erano mossi dalla generosa illusione di potere dare alle masse il benessere, risparmiando loro i tormenti dell’industrializzazione; per Lenin in questo rimasto sempre (anche nel 1917) rigorosamente marxista, la fase dall’industrializzazione, e dunque del capitalismo, era inevitabile; si trattava, per lui, di saltare l’aspetto liberal-democratico dell’era borghese, per impedire alla classe operaia di manifestare la propria propensione all’imborghesimento. Il programma leninista consisteva, dunque, nella conquista del potere per promuovere un più rapido sviluppo dell’industrializzazione, sotto il controllo di uno Stato onnipotente, in grado di soffocare qualsiasi spinta autonoma della società civile verso obiettivi diversi dal socialismo.

Con le parole di Lenin:

capitalismo di Stato + dittatura del proletariato

Nel quadro internazionale questo programma collocava pur sempre la Russia in coda rispetto ai paesi occidentali, ormai maturi per il socialismo, almeno secondo l’ortodossia marxista, da Lenin mai esplicitamente rinnegata. Di qui la tentazione di assegnare alla Russia la funzione demiurgica di ridestare al socialismo le masse proletarie dei paesi evoluti, inspiegabilmente sempre ai termini del dogma, intorpidite. Il ritorno cioè di un altro elemento ancora del populismo: il nazionalismo messianico.

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