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Il Sole

Le caratteristiche principali del Sole.

Albert Einstein ha dato alla fisica moderna il contributo di una creazione geniale che rimarrà nei secoli futuri una delle pietre miliari nella storia del pensiero umano. La teoria della relatività, da lui sviluppata, ha permesso di dare una prima spiegazione all’origine dell’ universo in termine di Big Bang, ed una delle più importanti conseguenze di tale teoria, il principio di equivalenza tra massa ed energia, E = mc2 ha permesso ai fisici quali Eddington di cominciare a parlare della conversione diretta della massa in energia all’ interno del Sole, sebbene attraverso processi ancora sconosciuti.

Il Sole è, analogamente alle altre stelle, una sfera di gas, ad altissima temperatura (plasma solare), la cui materia è tenuta unita dalla forza di attrazione gravitazionale. Di esso è visibile dalla Terra solo l’atmosfera composta da tre stati: la fotosfera, la cromosfera e la corona. La fotosfera e la cromosfera sono i due strati visibili direttamente sul disco solare, mentre la corona è visibile solo durante le eclissi o con particolari strumenti. L’interno del Sole non è visibile direttamente, in quanto la radiazione in essa generata viene assorbita e riemessa più volte prima di giungere alla fotosfera.

L’energia emessa dal sole viene prodotta nel nucleo, la regione più centrale, avente un diametro dell’ ordine di 0,2 volte quello dell’ intero globo solare e una densità pari a 160 g/cm3. La compressione qui esercitata dal peso degli strati sovrastanti (220 miliardi di atmosfere) innalza i livelli termici dei gas interni fino a 15 milioni di gradi kelvin, temperatura sufficiente a conferire ai nuclei di idrogeno (protoni),il più abbondante componente chimico del sole, energie cinetiche superiori a quelle della reciproca repulsione elettrostatica. Bethe, nel 1938 dimostrò che siffatte condizioni fisiche potevano essere favorevoli al mantenimento di reazioni di nucleosintesi consistenti nella combinazione di quattro protoni liberi in un nucleo stabile di elio poichè in un nucleo di elio così costituito, si verifica(nei confronti della massa complessiva dei protoni reagenti) un difetto di 0,028 u.a. (unità atomiche) per nucleo prodotto; l’opinione di Bethe fu che tale differenza, convertendosi in energia andasse a rappresentare realmente la sorgente solare, in accordo con la legge einsteiniana. Nel complesso, in ogni secondo, il sole tramuta in energia 4,2 milioni di t. di idrogeno: questo tasso di dissipazione, nei circa 5 miliardi di anni di vita dell’ astro, ha provocato una diminuzione di massa pari al 3 %0 e, al tempo stesso gli assicura un’ esistenza futura per circa altri 5 miliardi di anni. Bethe ha scoperto che vi sono due cicli di trasmutazioni nucleari attraverso i quali l’idrogeno può essere convertito in elio all’ interno del nucleo del solare.

Il primo ciclo è la cosiddetta catena protone-protone durante la quale due protoni collidono ed emettono un positone e un neutrino, formando un nucleo di deuterio, l’isotopo pesante dell’idrogeno, il cui nucleo possiede un protone e un neutrone. Al deuterio si aggiunge poi un altro protone, formando l’ isotopo leggero dell’ elio, l’ elio3. Infine due nuclei di elio3 si combinano per dare origine a un nucleo di elio ordinario, l’elio4, liberando anche due protoni. L’effetto totale è la conversione di 4 protoni in un nucleo di elio. La quantità di energia liberata è all’ incirca di un milione di volte maggiore di quella coinvolta in reazioni chimiche, quali la combustione.

Il secondo ciclo è quello noto con il nome di CNO, poiché ad esso prendono parte nuclei di carbonio, azoto e ossigeno. Il ciclo ha inizio con un nucleo di carbonio 126C (questo simbolo indica che il nucleo contiene 12 nucleoni, di cui 6 sono protoni ed il resto protoni), al quale si aggiungono, uno alla volta, tre protoni, dando così luogo a un nucleo di azoto (157N) che contiene 8 neutroni e 7 protoni. L’ aggiunta di un altro protone provoca una reazione in cui vengono prodotti 2 nuclei, il nucleo iniziale 126C e l’ elio 42He: in ciascuna fase vengono emessi 2 neutrini: uno proviene dal decadimento radioattivo del 713N e l’ altro dal decadimento del 15°.

Il neutrino è l’unica particella prodotta dalle reazioni termonucleari, che riesce a raggiungere la superficie solare, percorrendo una distanza di circa 640.000 Km, e a sfuggire nello spazio. Queste particelle di massa nulla ,che viaggiano alla velocità della luce, reagiscono così poco con le altre, che su 100 miliardi di particelle generate nel nucleo solare, solo una viene frenata o deviata durante il percorso fino alla superficie del sole. I neutrini ci permettono quindi di "vedere" nell’ interno del sole, dato che sono gli unici a sfuggire nello spazio. Circa il 3% dell’energia totale irraggiata dal sole viene emessa sottoforma di neutrini. Sulla superficie terrestre, il flusso dei neutrini prodotto dal sole è dell’ ordine di 1011 per cm2 per secondo.

Purtroppo il fatto che i neutrini riescano così facilmente a sfuggire dal sole significa anche che è molto difficile riuscire a catturarli. Nel 1968 è però entrato in funzione una gigantesca trappola per neutrini, collocata in una caverna molto al di sotto della superficie terrestre Home-Stake a Lead, nel South Dakota (USA). Questa trappola è stata riempita con un milione di galloni (pari a circa 378.000 litri) di tetracloroetilene (C2Cl4), un comune solvente. I primi risultati, pubblicati da Raymond Davis, lasciarono alquanto perplessi gli astronomi e gli astrofisici, poiché da essi risultava un valore molto basso per la velocità di flusso dei neutrini; essa risultava infatti pari a meno della metà del valore che si ottiene dai calcoli teorici fissando certi valori "standard" per le grandezze usate nella costruzione di modelli teorici dell’interno del Sole. L’ ipotesi dell’ esistenza dei neutrini fu formulata per la prima volta nel 1931, quando si notò che nel decadimento radioattivo di alcuni nuclei sembravano sparire delle piccole quantità di massa.Wolfgang Pauli suggerì l’idea che questa massa fosse portata via in forma di energia da particelle di massa nulla, per le quali Enrico Fermi propose poi il nome di "neutrini".

Se lo studio dell’attività solare nel nucleo, nonostante le enormi difficoltà per l’impossibilità di una verifica diretta, si svolge in termini di reazioni nucleari, quello, invece, riguardante l’attività violenta sulla superficie dell’astro giunge a risultati diversi.

I particolari più appariscenti della fotosfera sono senz’altro le macchie solari, scoperte e studiate per la prima volta da Galileo nel 1610. Esse sono delle zone scure e fredde che appaiono sulla superficie solare con una certa periodicità; esse si presentano scure non tanto perchè siano realmente nere, quanto perchè sono più fredde rispetto alle zone circostanti della fotosfera. Attorno alla zona più scura della macchia , detta "ombra", in cui la temperatura è di circa 4300-4800 gradi Kelvin, vi è una zona di luminosità intermedia, detta "penombra", in cui la temperatura invece è di circa 5400-5500 0K . L’evoluzione delle macchie solari ha inizio quando in un punto della superficie solare comincia a formarsi una zona più scura, di qualche migliaio di chilometri di diametro, detta "poro"; la maggior parte di questi si dissolve in circa un giorno. Alcuni, invece, si dilatano gradatamente fino ad assumere le caratteristiche di una macchia, ovvero manifestano una sia pur modesta penombra e raggiungono dimensioni notevoli. Tale formazione ha luogo solo nelle medie latitudini eliografiche ( tra il 50 e il 400 parallelo ). La vita media di una macchia è di un paio di settimane, durante le quali si evolve, manifestando variazioni continue di forma e di dimensioni. In genere, però, esse tendono a formarsi a coppie o a gruppi, i quali possono avere una vita media anche di tre mesi e si spostano sulla superficie del Sole sia a causa di un piccolo moto proprio sia, soprattutto, perchè il Sole ha una rotazione non uniforme. È noto almeno dall’inizio del XVIII secolo che l’intensità e la frequenza delle macchie seguono un andamento ciclico che dura circa 11,2 anni, con oscillazioni tra gli 8 e i 17 anni. Nel corso di questo periodo esse aumentano fino a raggiungere un massimo e poi diminuiscono, riportandosi ai livelli iniziali.

Nel 1848, R. Wolf e Wolfer, due astronomi svizzeri, idearono un sistema per esprimere l’entità dell’attività solare tramite il numero di macchie osservabili, in modo del tutto indipendente dall'osservatore e dallo strumento utilizzato. Il numero che dà questa misura (numero di Wolf) è indicato con la lettera W e si calcola tramite la seguente formula:

W= K(10 G + T)

Dove G è il numero di gruppi di macchie, T è il numero totale di macchie contenute nei gruppi (comprese le macchie isolate) e K è un coefficiente che varia con lo strumento, l’osservatore e la turbolenza atmosferica; per Wolf, che disponeva di un cannocchiale di 75 mm, K è uguale a 1.

L’abbassamento della temperatura all’interno delle macchie è legato agli intensi campi magnetici che si registrano in quelle regioni, che impediscono il regolare movimento convettivo del materiale solare, allo stato di plasma, che dall’interno cerca di raggiungere la superficie. La polarità delle macchie non è casuale: se esaminiamo, infatti, le macchie distribuite lungo un medesimo parallelo, si osserva che coppie di macchie contigue hanno polarità opposta: per esempio quella, quella più a Ovest ha polarità N, mentre quella che la segue verso Est ha polarità S. Non sono, ma ogni coppia di macchie dello stesso emisfero ha lo stesso tipo di magnetizzazione, mentre tutte le coppie dell’altro emisfero sono magnetizzate in senso opposto. All’inizio di ogni nuovo ciclo solare le polarità si invertono.

Le macchie solari sono associate a zone molto attive della superficie solare in cui si verificano anche altri fenomeni:

– Le facole fotosferiche che sono zone di luminosità più elevata rispetto al resto della fotosfera, compaiono in prossimità delle macchie e durano più a lungo rispetto ad esse.

-Le protuberanze che sono grandi nubi filamentose di idrogeno che si innalzano dalla cromosfera e penetrano ampiamente nella corona, in genere fino a quote di 20-40.000 Km. Hanno forme di immense fiammate, di vortici, di archi giganteschi lunghi anche 100-200.000 Km: nell’Agosto del 1973 i ricercatori a bordo del laboratorio spaziale Skylab ne fotografarono una lunga oltre mezzo milione di Km. La temperatura della materia gassosa dalle protuberanze è compresa tra 15.000e 25.000 K: sono più calde, perciò, della cromosfera, ma decisamente fredde rispetto alla corona solare entro cui si spingono.

Si riconoscono protuberanze quiescenti, simili a tenui drappi, in apparenza sospese ed immobili per parecchi mesi: l’osservazione sistematica ha permesso di vedere che il materiale che le compone scende come una pioggia verso la superficie del Sole, come se si trattasse di materiale della corona che localmente si condensa e torna nella cromosfera seguendo le linee di forza del campo magnetico. Ma si osservano anche protuberanze eruttive, il cui materiale risulta eiettato dalla cromosfera verso l’esterno a velocità elevate (anche 700 Km/s) per decine di migliaia di Km. Le protuberanze si osservano durante un’eclissi totale come lingue di fuoco luminose che sporgono dalla cromosfera; se si osservano, invece, contro il disco del Sole (usando uno spettroeliografo) appaiono come strutture lunghe e oscure, chiamate filamenti.

– I brillamenti (o flares come vengono più spesso chiamati con termini inglesi) che sono violentissime esplosioni di energia, veri e propri lampi di luce intensissimi associati a potenti scariche elettriche: compaiono di tanto in tanto in prossimità di grandi gruppi di macchie e nel giro di pochi minuti (raramente di qualche ora) si propagano su un’area di milioni di Km2 , per poi estinguersi completamente. Nel corso di tali esplosioni vengono liberate enormi quantità di energia, con un’ampia gamma di radiazioni, dai raggi X alle onde radio. Viaggiando alla velocità della luce questi improvvisi aumenti di radiazioni investono gli strati più alti dell’atmosfera terrestre, provocando notevoli perturbazioni, che influiscono sulle trasmissioni radio. Oltre a radiazioni di carattere ondulatorio, i brillamenti possono lanciare getti di materia gassosa incandescente fino a 10-20.000 Km di altezza, ma, soprattutto, emettono un intenso flusso di particelle atomiche (elettroni e protoni)che lasciano il Sole verso lo spazio viaggiando ad alta velocità (1500 Km/s). nel caso dei flares più intensi, si osserva anche l’emissione di un’ultraradiazione (o radiazione cosmica), formata da particelle ad altissima energia che si propagano a velocità prossima a quella della luce. Quando un flare esplode in prossimità del centro del disco solare (rispetto alla Terra), nel giro di 26 ore il flusso di particelle raggiunge il nostro pianeta. I velocissimi corpuscoli di origine solare colpiscono con violenza le particelle ionizzate dell’alta atmosfera terrestre, "soffiandole" verso la bassa atmosfera, dove, a quota tra 70 e 1000 Km danno origine alle aurore polari (boreali e australi). La forma del campo magnetico terrestre fa sì che le particelle, elettricamente cariche, possano penetrare nell’atmosfera soltanto nelle zone prossime ai poli magnetici, dove, ionizzando gli atomi presenti, provocano l’emissione delle luci polari.
Dopo un brillamento queste zone dell’atmosfera terrestre rimangono in stato di eccitazione per parecchi giorni, durante i quali le aurore assumono gli aspetti più fantastici: tenui veli rossastri, lunghe bande in lente ondulazioni, drappeggi verdastri, blu rossastri. contemporaneamente alle aurore polari, si verificano anche le "tempeste magnetiche", ossia forti perturbazioni del campo magnetico terrestre.

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