Le Invasioni del V Secolo - Studentville

Le Invasioni del V Secolo

Le invasioni barbariche nell'Italia del V secolo d.C.

Radagaiso

Non era ancora cessata l'emergenza alariciana, quando, nel 405, penetrarono nella Venetia et Histria -secondo alcuni studiosi dalla Pannonia occidentale e dal Norico sud-orientale attraverso i valichi delle Alpi Giulie, secondo altri, dalla Rezia attraverso il Brennero- le orde ostrogote, unne e alane di Radagaisus. Divisa in più corpi, l'enorme armata barbarica (le fonti più credibili parlano di 100 mila persone), mise a ferro e a fuoco la Venetia e la Liguria prima di volgersi a sud: le città vennero saccheggiate, depredate le greggi, uccise o rese schiave le genti. La carestia, provocata dalle razzie dei barbari e dalle requisizioni degli eserciti imperiali impegnati a combatterli, imperversò nelle campagne, finché nel 406 Radagaisus fu finalmente sconfitto a Fiesole, nei pressi di Firenze, dal generale Stilicho. La parte del suo esercito sfuggita alla strage, alla fame e alle epidemie, fu ridotta in schiavitù o arruolata nell'esercito romano.

Alarico

Il trattato stipulato nel 403 con i Visigoti fu violato da parte romana e, alla fine del 407, Alaric, offeso dall'ostilità dell'imperatore Onorio, penetrò nuovamente nella Venetia et Histria attraverso il passo di Atrans (Trojane): si accampò ad Emona (Ljubljana / Lubiana) in attesa di una riparazione. Intanto, l'aristocrazia senatoria istigava, con il tacito consenso dell'imperatore, le truppe romane concentrate a Ticinum (Pavia) ad eliminare i fautori di Stilicho. Il generale vandalo, additato dopo l'accordo con Alaric come un "traditore semibarbaro" (semibarbarus proditor), pur trovandosi al comando delle truppe barbare dislocate a Bologna, non volle però punire l'assassinio dei suoi uomini di fiducia né tanto meno marciare su Pavia: così andò incontro alla fine: i militari ribelli chiesero e ottennero da Onorio il suo arresto e la sua morte (22 agosto 408).

Con l'uccisione di Stilicho, il quale si era sempre mostrato fedele all'Impero, tutte le forze dissolvitrici dell'Occidente ebbero la meglio. Troncato ogni indugio, Alaric perpetrò quindi un rapido raid nell'Italia settentrionale dove fu raggiunto dai rinforzi di Goti e di Unni condotti dal cognato (e futuro successore) Athaulf. Senza soffermarsi ad assediare le città del Norditalia (difese, a quanto pare, ciascuna da 300 Unni e da contingenti di cavalleria e fanteria), il visigoto si diresse quindi verso il centro della penisola e tentò di intavolare dei negoziati con l'imperatore Onorio, chiusosi nel frattempo a Ravenna.Dopo il fallimento delle estenuanti trattative romano-gotiche (nel corso delle quali Alaric aveva invano richiesto il permesso di insediarsi con il suo popolo nella Venetia et Histria, nel Norico e in Dalmazia), i Visigoti procedettero all'assedio e all'espugnazione della Città Eterna nel 410. In quello stesso anno, l'esercito dell'usurpatore celto-britanno Costantino III, che dal 407 regnava sulla Britannia e sull'intera Gallia, penetrò nell'Italia nord-occidentale con il pretesto di prestare soccorso ad Onorio: saccheggiò invece la città di Alberga, si spinse fino a Libarna (Serravalle Scrivia) e si ritirò solo dopo la morte di Alaric. Costantino III fu poi sconfitto dal generale Flavio Costanzo, il quale fu associato nel 421 al trono da Onorio.

I contraccolpi economici delle calate in Italia di Alaric e Radagaisus -e della crescente frequenza con cui gli eserciti romani e barbarici scorrevano per la Cisalpina- furono di certo disastrosi. Nel 408, l'imperatore Onorio ritenne infatti necessario esonerare l'intero Vicariato d'Italia dal pagamento dell'imposta fondiaria e dal versamento dell'aurum glebae, ossia della tassa che gravava sui latifondi dei senatori, dai quali, evidentemente, si erano ricavate la maggior parte delle forniture alimentari per i soldati. Non solo: ancora nel 451, l'imperatore Valentiniano III decretava con queste parole –"Ci è noto, che dopo la fatale devastazione da parte dei nemici…"– che non potevano esser perseguiti quei curiali italiani che avevano venduto le loro proprietà a seguito dei saccheggi di Alaric. Infine, un secolo più tardi, lo storico bizantino Procopio ascrisse ai visigoti le ragioni dello spopolamento d'Italia, affermando anche che lungo le coste dell'Adriatico restavano ancora ai suoi tempi le vestigia delle loro devastazioni. Ma aldilà di questo, se si eccettuano i riferimenti alla decadenza dei centri urbani siti lungo la via Aemilia (Bologna, Modena, Reggio, Brescello, Piacenza) e dei castelli emiliano-appenninici, non sussistono delle prove concrete relative alla crisi economica delle città del Norditalia e, in particolare, della Venetia et Histria.

Teodosio II

Alla morte del sovrano della Pars Occidentis, Onorio, nel 423, l'Impero si trovò riunito per l'ultima volta sotto un unico Augusto, l'imperatore d'Oriente Teodosio II. Assunto il potere anche sull'Occidente, l'Augusto orientale pensò fosse giunto il momento di sopprimere la Corte ravennate e di licenziarne tutti i dignitari ma, come tutta risposta, i notabili aulici dell'Occidente elevarono al trono uno di loro -Giovanni-, dopo aver costretto Galla Placidia, la sorella di Onorio, e il di lei figlio, Valentiniano, a rifugiarsi a Costantinopoli. Temendo la reazione di Teodosio II, l'ex primicerius (primo segretario del concistoro imperiale) Giovanni credette opportuno chiedere l'appoggio militare dei barbari: a tale scopo fu inviato in Pannonia alla corte del re unno Rua un funzionario di corte di origine gallica, Flavius Aetius (Ezio), che aveva vissuto come ostaggio tra gli Unni. Nel frattempo, espugnata la città dalmata di Salona nell'inverno del 424/5, l'armata di Teodosio II muoveva, tanto per terra che per mare, all'attacco dell'Italia. Varcate le Alpi Giulie, l'esercito, comandato dall'alano Aspar, si accampò ad Aquileia dove il giovane cesare Valentiniano potè insediare la sua corte; la flotta orientale fece invece naufragio e il suo comandante Ardabur, il padre di Aspar, fu condotto in prigionia da Giovanni a Ravenna. Aspar riuscì tuttavia a liberarlo e a catturare con l'inganno l'usurpatore Giovanni che, nel maggio o nel giugno del 425, andò incontro ad Aquileia al taglio della mano destra, all'umiliante esibizione nel circo in groppa ad un asino e, infine, alla forca. Tre giorni dopo la barbara fine di Giovanni, entrò in Italia l'armata di 60 mila mercenari -la cifra pare comunque esagerata- reclutata da Aetius tra gli Unni. Dopo alcune ostilità il condottiero amico di Rua si accordò con il giovane Valentiniano ottenendo per sè il titolo di comes domesticorum (comandante del corpo degli ufficiali cadetti) e la direzione della guerra in Gallia contro i Visigoti; dal canto loro, gli Unni fecero ritorno in Pannonia solo dopo aver ricevuto un generoso compenso. Alcuni mesi dopo, in ottobre, la morte di Teodosio II significò l'elevazione al rango di Augusto di Valentiniano III, il figlio di Costante e di Galla Placidia.

Attila

Una violenta pestilenza si era propagata dalla Gallia in quasi tutto il mondo romano nel 442 e il rigidissimo inverno del 443 aveva provocato morie di uomini e animali nella Pars orientale dell'Impero. Nel luglio del 418, una terribile siccità, preannunciata a detta degli superstiziosi del tempo da un'eclissi di sole, aveva interessato di certo anche un'area come il Norditalia che sappiamo esser stata afflitta, tra il 411 e il 450, da ben cinque grandi carestie.

Anche nell'anno in cui Attila irruppe nella Venetia et Histria, nel 452, in tutto il paese imperversava un'"obscaenissima" carestia: sotto i morsi della fame, le persone vendevano come schiavi i propri figli e la situazione era degenerata al punto che l'imperatore stesso, Valentiniano III, dovette legiferare affinché questi schiavi per fame potessero essere riscattati.

Nel frattempo, il re degli Unni, invasa la Gallia, era stato duramente sconfitto nei pressi di Troyes, ai Campi Catalaunici, da un'armata reclutata dal generale Ezio tra i Gallo-romani, i Burgundi, gli Alani, i Franchi, i Sassoni e i Celti dell'Armorica. "Reintegrate le forze che aveva perduto, -così racconta Prospero d'Aquitania- Attila decise quindi di penetrare in Italia dalla Pannonia senza peraltro che il nostro comandante Aetius (Ezio), persuaso che gli rimanesse questa sola speranza -lasciare l'Italia assieme all'imperatore-, considerasse opportuno servirsi delle Chiuse alpine con cui si sarebbe potuto vietare l'accesso ai nemici". La corte imperiale lasciò dunque Ravenna per mettersi in salvo a Roma e di qui -almeno nelle intenzioni- in Gallia e nessuno credette opportuno ripristinare le difese sulle Alpi Giulie, danneggiate durante i conflitti civili della fine del IV secolo e ai tempi delle incursioni di Alaric: fu questo un grave errore perché sarebbe stato facile tenere in scacco la cavalleria unna in una guerra di montagna. Stando così le cose, l'avanzata degli invasori non incontrò altro ostacolo che la resistenza di Aquileia, una città che, seppur spesso assediata, non era stata mai costretta a capitolare. I primi assalti degli Unni furono tutti respinti e sembra che, di fronte all'inutile ripetersi dei suoi attacchi, Attila fosse dubbioso sul da farsi, se avesse dovuto cioè o togliere il campo o persistere nel suo ambizioso intento. Si racconta allora che la vista di uno stormo di cicogne alzatesi in volo per lasciare la città fu da lui interpretata come un presagio dell'imminente caduta di Aquileia: convocati quindi coloro che, delle nazioni a lui soggette, erano esperti nella costruzione delle macchine d'assedio, egli continuò, a quanto pare per tre mesi, gli assalti fino al successo finale. Aquileia fu messa duramente a sacco e distrutta -così narrano le fonti- sino quasi alle fondamenta. Dei suoi abitanti, quanti non erano riusciti a mettersi in salvo sulle isole, furono deportati in prigionia dagli Unni e dagli Ostrogoti e si apprende da una lettera di papa Leone I che trascorsero ben sei anni prima che alcuni di questi sventurati potessero far ritorno nella loro città. Attila intanto era avanzato nella pianura padana seminando il panico e la distruzione. Le città di Concordia, Altino, Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo erano state arse e rase al suolo; i loro abitanti erano stati condotti via in schiavitù. Seppur espugnate, Milano e Pavia non furono invece sottoposte a saccheggio. Quel che è certo è che le rapine degli Unni non migliorarono la situazione in cui versavano le campagne della nostra provincia, devastate dalla carestia e dalla pestilenza e fu forse proprio per evitare il contagio e il dilagare fra i suoi uomini dell'epidemia (oltre che per far fronte ad un attacco dei Romani d'Oriente sul Danubio) che Attila, giunto sulle rive del Mincio, si lasciò persuadere da papa Leone I, dall'ex prefetto Trigetius e dal consolare Gennadius Avienus, ad abbandonare l'Italia.

Vidimer

Gli Ostrogoti rappresentavano lo strumento con cui il generale alano Aspar tentava di conservare e consolidare la propria supremazia sugli imperatori romani d'Oriente: per questo motivo essi si trovarono coinvolti in una serie di conflitti con gli Sciri, i quali godevano invece dell'appoggio della corte bizantina. Nel corso di questi scontri cadde uno dei loro capi Valamer, la cui tribù si riunì a quella di Theodemer l'Amalo, il padre di Teodorico. Nel 472, gli Amali lasciarono la Pannonia: Theodemer e Teodorico, si diressero a sud alla volta della Macedonia e misero a ferro e a fuoco l'Illirico; l'Amalo Vidimer si mise invece al servizio dell'Imperatore d'Occidente Antemio (Anthemius) che, entrato in conflitto con il generale franco Ricimer, si trovava da questi cinto d'assedio a Roma. In cambio del suo intervento, Vidimer aveva ottenuto la nomina a comandante militare delle Gallie (magister militum Galliarum) già rivestita dal burgundo Gondebaud, un fautore dell'usurpatore Olibrio (Olybrius) sostenuto da Ricimer. Il capo ostrogoto entrò dunque in Italia dal Norico e, attraversata la pianura padana, giunse a Roma: qui si scontrò con le truppe che assediavano Antemio ma perse la battaglia e la vita nei pressi del Mausoleo di Adriano (Castel S.Angelo).

Lo scontro tra Odoacre e Teoderico

Dopo la morte di Valentiniano III (455), si successero sul trono d'Occidente degli imperatori che dovevano la loro proclamazione all'appoggio dei capi goti, vandali e burgundi, che fondavano il loro potere su truppe ormai composte quasi unicamente da barbari e che, agli occhi della Corte d'Oriente, non erano che usurpatori. La sollevazione dei contingenti barbarici al servizio dell'impero, e la destituzione dell'ultimo imperatore-fantoccio, Romolo Augustolo, segnarono, com'è noto, nel 476 la fine dell'Impero romano d'Occidente e l'inizio del regno dello sciro Flavius Odovacar (Odoacre).

Dalle due spedizioni punitive che condusse nel 487 e nel 488 contro i Rugi, i quali occupavano, in qualità di federati dell'Impero, una regione periferica come il Norico, posta ai limiti delle sfere d'influenza dell'Oriente e dell'Occidente. Dotato di una considerevole intelligenza politica, Odoacre tentò in ogni modo di spianare le eventuali incomprensioni con l'Impero d'Oriente, allora retto da Zenone: graziò il re dei Rugi Feba, inviò a Costantinopoli / Bisanzio una buona parte del bottino, eliminò nuove possibilità di attrito con i Romani d'Oriente rinunciando al controllo del Norico Ripense. Uno degli effetti di tale rinuncia fu l'esodo, decretato da Odoacre e sovrinteso dal comes Pierius della popolazione romano-norica alla volta della Venetia et Histria: i profughi portarono con sé il corpo dell'asceta Severino (morto nel 482) che li aveva guidati nella resistenza contro i Rugi, i Turingi e gli alemanni, e che trovò infine sepoltura a Napoli.

Mentre Odoacre consolidava il suo potere in Italia, ad oriente, il capo degli Ostrogoti Teodorico l'Amalo (454-526) affermava la sua autorità a Bisanzio. Reduce da feroci lotte di potere con un altri capi ostrogoti (Teodorico di Triario e il figlio di questi Rekitach), l'Amalo aveva messo a ferro e a fuoco i Balcani e aveva minacciato la stessa Costantinopoli (487). Fermato da Zenone mediante l'offerta di doni e dignità, Teodorico, che era reputato un federato quanto mai infido e ambizioso, fu istigato a partire alla volta dell'Italia con il pretesto di rivendicare la sovranità dell'imperatore su quella terra.

La marcia di Teodorico alla volta dell'Italia ebbe inizio nel 488 da Nova sul Danubio e agli Ostrogoti si unirono ben presto altre genti e, in primo luogo, i Rugi di Frederic, scampati al massacro da parte di Odoacre. Alla palude Ulca, sita nei pressi di Sirmium (Sremska Mitrovica), Teodorico si scontra con i Gépidi del re Thraustila che gli sbarravano il cammino: li sconfigge, elimina il re avversario, si accorda con suo figlio Trasaric e accetta che alcuni Gépidi si uniscano sotto la guida di Mundo alla sua spedizione. Risale quindi il corso della Sava fino ad Emona (Ljubljana/ Lubiana) e, valicate le Alpi Giulie, giunge nella valle dell'Isonzo. Qui Odoacre aveva radunato le forze delle universae gentes soggette al suo comando nel tentativo di fermare i Goti ma, il 28 agosto del 489, fu Teodorico che riportò la vittoria e potè oltrepassare l'Isonzo. Una seconda vittoria riportata a Verona e la battaglia sull'Adda dell'11 agosto del 490 vinta grazie all'aiuto dei Visigoti di Vidimer gli garantirono il completo controllo della penisola. Il riversarsi sulla Venetia et Histria dei Goti -i quali, compresi i vecchi, le donne e i bambini, assommavano a100 mila persone- e il continuo attraversamento delle piane dell'Italia settentrionale da parte delle milizie barbariche impegnate nella guerra tra i due re scatenarono le carestie e le pestilenze cui allude in un suo scritto papa Gelasio (492-496).

Venetia et Histria nell'epoca gotica

Anonimo Ravennate

Venanzio Fortunato. Diplomatico, poeta e prosatore, nato intorno all'anno 535 nel vico Duplavilis, oggi Valdobbiadene, e compagno di studi a Ravenna di Felice, il vescovo di Treviso che, nel 568, andò incontro ad Alboino per consegnargli le chiavi della città. In missione per conto di Bisanzio, Venanzio lasciò l'Italia nel 565 per recarsi a Metz, alla corte del re franco d'Austrasia, Sigibert I: dal Friuli attraverso il Passo di Monte Croce Carnico alla volta di Aguntum, Augusta Vindelicum

Paolo Diacono

A occidente e a mezzogiorno, la Venetia et Histria confinava con le province della Liguria.

A nordovest, …, erano ormai insediati i Baiuvari (Bavari) e, a nordest, nell'attuale Carinzia, i Carontani o Carantani

A oriente si estendevano infine le province della Carniola e della Liburnia Tarsaticensis.

La Carniola, detta anticamente "Alpi Giulie" ("Carneola quae et Alpes Iuliana antiquitus dicebatur" scrive l'Anonimo), corrispondeva alla parte settentrionale del distretto delle Chiuse delle Alpi (Claustra Alpium): si può inferire quindi che da distretto militare della Venetia et Histria, sottoposto all'autorità del comes rei militaris Italiae (ovvero del comandante militare del Tractus Italiae circa Alpes), essa avesse assunto sotto i Goti una propria fisionomia amministrativa.
Lo stesso si può dire forse della Liburnia, detta Tarsaticensis perché gravitante sul centro di Tarsatica (Trsat presso Rjieka / Fiume): la parte meridionale della zona militare delle Chiuse continuò a rivestire infatti un ruolo di primaria importanza per la difesa dell'Italia nord-orientale e sappiamo da Cassiodoro che una flotta ostrogota era stazionata nell'insula Puritana, isola di Krk. In virtù dunque della sua importanza strategica, anche la Liburnia Tarsaticensis, -come la Carniola, sarebbe stata elevata, al tempo del dominio ostrogoto in Italia, al rango di provincia.
Montuosa e ricca di laghi, la Carniola o Carnech era attraversata da numerosi fiumi dei quali l'Anonimo Ravennate ricorda il Corcac (Kokra). I suoi principali centri erano, sulle alture, Carnium, Scoldium, Bipplium, Ris, Planta, Clemidium e Sedo e, nelle valle della Sava, Seution, Patiuma, Sorbam, Eperunto, Precona, Lebra, Ambito, Barneo, Paris, Elebra, Ecuno, Selunto, Poreston, Artara, Ranio, Rinubio, Benela e Cliena. Di questi centri -o meglio di queste fortezze- solo Carnium, identificato con l'odierna Kranj, può essere localizzato con esattezza.
… la Liburnia Tarsaticensis, separata dalla Venetia al tempo della guerra gotica mentre l'unità ecclesiastica del sarebbe perdurata fino al IX secolo
Verona (Verona), Vincentia (Vicenza), Mantua (Mantova), Monsilicis (Monselice), Patavium (Padova), Altinum (Altino), Opitergium (Oderzo), Filtrio (Feltre), Concordia (Concordia), Aquileia (Aquileia),
Istria: Ad Bessicina, Tergeste (Trieste), Capris (Koper / Capodistria), Piranon (Piran / Pirano), Silbio (Savudrjia / Salvore), Siparis (Sipar), Humago (Umag / Umago), Neapolis (Novigrad / Cittanova), Parentium (Porec / Parenzo), Ursaria (Vrsar / Orsera), Ruginio (Rovinj / Rovigno), Pullaria, Pola (Pula / Pola), Nessatio e Arsia
Puciolis (Pozzuolo), Osopus (Osoppo), Reunia (Ragogna), Foroiulium (Cividale) e il castrum Iulium Carnicum (Zuglio).

Il regno ostrogoto

La deposizione, nel 476, dell'"imperatoruccio" (Augustulus) Romolo e l'elevazione al trono di un generale sciro, Odoacre (Odovacer), rappresentarono, com'è noto, un evento di politica interna che segnò la scomparsa dell'Impero d'Occidente tanto come entità statale che come finzione giuridica. Tale evento non fu in realtà altro che l'esito della secolare decadenza di una civiltà, quella romana, che era stata fiaccata più dalla corruzione interna che dalle incursioni dei "feroci" barbari. Da quanto si evince dalle nostre fonti, -invero malfide-, il nuovo dominatore non avrebbe avuto del resto nulla della ferocia "congenita" ai Germani: Odoacre avrebbe infatti risparmiato la vita sia a Romolo Augustolo, sia al re dei Rugi da lui sconfitto in battaglia. Inoltre, sarebbe stato amico di San Severino, un asceta del Norico, e si sarebbe avvalso, durante il suo lungo governo (476-493), di un gruppo di valenti funzionari imperiali (Liberio, Simmaco, Pelagio, Basilio) che avrebbero continuato ad amministrare la cosa pubblica nel rispetto delle leggi di Roma.

Il condizionale è quanto mai d'obbligo: le nostre conoscenze di questo tormentato periodo si fondano, come si è detto, su dati insicuri e su notizie tendenziose. Abbiamo quindi solo pochi ragguagli sulle principali attività politiche del rex d'Italia Odoacre, il quale avrebbe rinunciato al possesso del Norico (rinuncia che determinò uno spostamento dei popoli germanici e avvicinò i Longobardi all'Italia), conquistato la Dalmazia e acquistato la Sicilia dal re dei Vandali. Sappiamo invece per certo che, nonostante i suoi tentativi di non alienarsi la benevolenza dell'imperatore d'Oriente (cui era nominalmente sottoposta l'Italia), Odoacre impensierì con la sua politica la corte di Bisanzio, la quale riuscì ben presto a insidiargli il regno con trame e maneggi di ogni sorta. Fu dunque sotto lo sprone -e con l'oro- dell'imperatore Zenone, che, nel 488, il re degli Ostrogoti Teodorico si mosse dalla Mesia (odierna Serbia) alla volta dell'Italia. Il re, affrontati dapprima i Gepidi che gli ostacolavano il cammino, sconfisse quindi le armate di Odoacre sul fiume Isonzo (489), poi sotto Verona e, infine, con il supporto dei "fratelli" Visigoti, sull'Adda (490). Tre anni dopo questa vittoria, nel 493, mentre molti capi barbari, ribellatisi all'autorità dei due contendenti, approfittavano della guerra per regolare antiche inimicizie, Odoacre, assediato a Ravenna, fu costretto alla resa: Teodorico lo uccise di sua mano nonostante gli avesse promesso salva la vita.

Per buona parte del suo lungo regno in Italia (493-526), Teodorico s'avvalse della collaborazione di quegli insigni romani (Liberio, Cassiodoro, Simmaco, Boezio, Venanzio), che, a detta delle fonti, avevano collaborato anche con il suo sfortunato predecessore. Dalla scelta di questi uomini di governo appare evidente che il re, tutt'altro che ignaro dei costumi romani, mirava alla conciliazione dei dominatori Goti con gli Italici sottomessi. Tuttavia, proprio per non compromettere gli esiti di questa difficile convivenza e per non urtare la suscettibilità dei Germani, Teodorico preferì impartire dalla sua capitale, Ravenna, delle direttive differenti per l'amministrazione dei suoi antichi e dei suoi nuovi sudditi.

Si rivolgeva invece sia ai Romani che ai "Barbari" (così il re ostrogoto designava la sua gente nei documenti ufficiali) l'Editto promulgato da Teodorico nell'anno 500. Era questo un regolamento di pubblica sicurezza, composto da 154 articoli, con cui il re tentò di imporre anche ai Goti il rispetto di un limitato numero di norme giuridiche romane. Non solo: affermando le prerogative dello Stato in materia di giustizia, stabilendo una rigida disciplina nelle pene e, infine, prevedendo il frequente ricorso alla pena capitale, si può dire che Teodorico abbia tentato con questo Editto di arginare l'illegalismo dei barbari.

Per il suo rispetto delle leggi romane, per le sue vittorie militari (conquistò infatti la Pannonia e la Provenza) e per la sua lungimirante politica interna (impiegò il frumento in esubero per soccorrere le genti liguri colpite dalla carestia e fece costruire mille "dromoni" per il commercio e la guerra), il re degli Ostrogoti Teodorico fu salutato dai Romani come l'artefice di un'epoca di ritrovata felicità. Negli ultimi anni del suo governo, neppure gli adulatori di Teodorico poterono invece parlare di un regno felice. Nel momento in cui al re parve -e non a torto- che la sua gente fosse minacciata dalle mire espansionistiche dell'Impero d'Oriente, egli diede infatti inizio alla repressione di quanti, in primo luogo gli ecclesiastici, erano sospettati in Italia di tramare con Giustiniano. Le uccisioni di Severino Boezio, -l'autore del "De consolatione philosophiae", di suo suocero Simmaco e del senatore Albino, l'arresto del papa Giovanni, l'imposizione al solio pontificio di Felice III furono solo alcune delle violenze perpetrate dal re ostrogoto tra il 524 e il 526.

La morte del sovrano e l'ascesa al potere di sua figlia Amalasunta -in qualità di reggente del proprio figlio Atalarico- segnarono però la ripresa di quella politica di conciliazione tra Goti e Romani che trovava ora in Cassiodoro di Squillace, il celebre autore dell'"Historia tripartita" e delle "Institutiones divinarum rerum", il suo più autorevole fautore. Tuttavia, lungi dal segnare un ritorno alla "felicitas" teodoriciana, la reggenza di Amalasunta e il breve regno del giovane Atalarico furono funestati dalla torbida contesa che vide contrapposti il figlio alla madre e al cugino -e amante di lei- Teodato. Alla fine, con l'appoggio dell'imperatore d'Oriente Giustiniano, Amalasunta e Teodato riuscirono a tramare la morte del legittimo sovrano e ad assumere il regno: l'ascesa al trono dei due amanti non fu però vantaggiosa per Amalasunta che, condannata dapprima al confino, fu poi assassinata per volere di Teodato. L'uccisione della regina fornì all'imperatore bizantino l'occasione che aspettava da tempo per muovere guerra ai Goti.

Il conflitto, noto come guerra greco-gotica, fu lungo (535-555) e sanguinoso. Dovendone elencare i momenti salienti possiamo ricordare almeno: l'espugnazione di Napoli da parte delle truppe bizantine (le quali, composte in larga parte da contingenti germanici, si dimostrarono non meno feroci degli Ostrogoti), la rivolta che portò all'uccisione di Teodato e alla nomina di Vitige; la sconfitta del generale bizantino Belisario sotto le mura di Narni; la presa di Roma -assediata poi da Vitige- e di Ravenna da parte degli imperiali (540); la distruzione di Milano da parte dei Goti (539); la cattura di Vitige (541) e le vittorie che il suo successore, Baduila detto Totila, ottenne grazie al consenso delle popolazioni italiane e sfruttando le contese tra Belisario e il nuovo comandante Narsete. Il conflitto si chiuse con la vittoria degli imperiali e le morti in battaglia del re ostrogoto Vitige a Gualdo Tadino (553) e del suo successore, Teia, sul monte Lattaro (555).

Venetia et Histria nell'epoca teodoriciana

L'alleanza con i Visigoti rappresentava il canale preferenziale della politica estera del re Theoderic e la ricostituzione dell'unità tra i popoli ostrogoto e visigoto, infranta circa un secolo prima di fronte al dilagare in Europa degli Unni, rientrava forse nei suoi piani. Non va dimenticato inoltre che i Visigoti erano accorsi in suo aiuto in Italia durante la guerra contro Odovacar (Odoacre) e che, ancor prima, gli Ostrogoti guidati da Videmir, un fratello di Theodemir, suo padre, si erano ricongiunti con i "parenti" occidentali insediati in Gallia e in Spagna. Ma gli intenti di Theoderic non ressero al collaudo con la realtà dei fatti: dopo aver ricacciato oltre il Reno gli Alamanni, che erano clienti del regno ostrogoto, il re dei Franchi Clodovis sconfisse e uccise in battaglia a Vouillé il re Alaric II (507). L'occupazione da parte dei Franchi di quasi tutta la Gallia visigota, attaccata nel contempo anche dai Burgundi, indusse Theoderic ad assalire a sua volta il regno dei Visigoti per limitare l'espansione a mezzogiorno di Franchi e Burgundi (508): gli Ostrogoti occuparono quindi Marsiglia e la Provenza e il re assunse la tutela dei diritti al trono del nipote Amalaric, figlio di Alaric II e di sua figlia Theodegota. L'Italia, benché sufficientemente florida in condizioni normali, non si mostrò allora in grado di sostenere l'onere dell'approvvigionamento delle truppe operanti in Provenza. Solo i contribuenti delle Venetiae et Histria -e in particolare quelli dell'Histria- furono in grado di fornire, a prezzo di calmiere, le derrate alimentari imposte dal governo ostrogoto: i guerrieri di Theoderic, impegnati nella Gallia meridionale, furono quindi riforniti con la carne suina, il frumento, il vino e l'olio prodotti nella nostra provincia. Frumento, cavalli, carri e foraggio furono invece i prodotti di cui il re ostrogoto impose la fornitura ai proprietari delle Venetiae et Histria, quindici anni dopo (523): Theoderic approfittò infatti dell'attacco dei Franchi al re burgundo Siegismund per annettersi una parte del suo regno. Il re degli Ostrogoti chiese e ottenne a tale scopo l'aiuto dei Gèpidi e il contingente inviato da questo popolo fu rifornito, durante la sua marcia dalla Pannonia alla Gallia meridionale, con le derrate imposte alla nostra provincia.

La guerra Gotica

Le fonti relative alla guerra greco-gotica (535-553) insistono sulla desolazione delle campagne italiane, sull'estendersi delle paludi e sull'esondazioni dei fiumi -spesso favorite a fini militari dai belligeranti-, sulla carestia, sulla peste e sullo scorbuto, e ci narrano di città rase al suolo e di genti spinte a nutrirsi di ghiande o al cannibalismo. Le conseguenze del conflitto furono certamente la depressione economica e il generale impoverimento di una terra sottoposta al continuo drenaggio delle sue risorse, agli espropri, alla requisizione forzata delle derrate per l'approvvigionamento delle truppe e al passaggio devastante degli eserciti. Tale situazione fu ulteriormente aggravata dalle razzie e dai saccheggi delle soldataglie e dei popoli barbari d'oltreconfine, i quali approfittarono della guerra per depredare i beni della penisola e per deportarne gli abitanti.

Per quanto concerne la nostra provincia si devono ricordare, a tale proposito, le incursioni perpetrate nel 536/7 nelle Venetiae dagli Svevi (Alamanni) calati dalla Rezia. Queste scorrerie portarono la Venetia et Histria, attanagliata dalla carestia sin dall'anno precedente, sull'orlo del collasso economico: non a caso ai proprietari terrieri veneti, cui era già stata concessa nel 536 la remissione delle imposte in vino e frumento (ma non in carne), vennero condonati anche i tributi del 537. Oltre che con gli sgravi fiscali, il governo ostrogoto cercò in quell'occasione di far fronte alla crisi autorizzando la ridistribuzione a prezzo calmierato delle scorte raccolte nei centri di ammasso fiscale di Trento (Tridentum), Treviso (Tarvisium), Concordia, Aquileia e Cividale (Forum Iuli). Toccò allora ai proprietari dell'Histria fornire la maggior parte delle derrate alimentari alla corte e all'esercito: anzi, all'Istria risparmiata tanto dall'inclemenza stagionale che dalla guerra, vennero imposte contribuzioni straordinarie di vino a compenso delle mancate prestazioni fiscali delle Venetiae.

La situazione si aggravò ulteriormente, per quanto concerne l'Italia settentrionale, nel 538, quando il teatro della guerra si spostò nel Nordl, e, per quanto attiene alla nostra provincia, qualche anno più tardi, quando i Franchi del re Theudbert e i loro vassalli Alamanni, occupate le province ostrogote delle Alpi Cozie e della Liguria, si espansero dapprima nella Venetia occidentale e nel Norico (539) e poi (545) nelle zone costiere dell'Adriatico. Dai territori posti sotto il loro controllo, i Franchi perpetrarono numerose incursioni nelle Venetiae(ad es. nel 548) e si deve considerare che ognuna di queste incursione si risolveva in una deportazione di massa delle genti italiane alla volta delle campagne e dei mercati d'Oltralpe. Dalla Francia, divenuta nel VI secolo una sorta di centro di smistamento del mercato schiavistico internazionale, i mercanti ebrei esportavano quindi gli Italiani ridotti in catene in ogni regione del Mediterraneo: in Spagna, in Inghilterra e nel mondo arabo.
Infine, nel 552, mentre la fame, lo scorbuto e la peste portata in occidente dalle armate bizantine imperversavano tra gli Italiani, i Goti e gli invasori, fece il suo ingresso nella Venetia et Histria l'esercito del generale Narses (Narsete). Si trattava di un'armata immensa ed eterogenea: al seguito del praepositus bizantino c'erano infatti i 5500 Longobardi inviati dal re Audoin, gli oltre 3000 Eruli al comando di Philemuth, oltre ad alcuni reparti di bucellari (guardie del corpo) e ai contingenti di Gèpidi, Unni, Eruli e di disertori Persiani. Risalita la costa orientale dell'Adriatico, l'esercito di Narses penetrò dunque nel Norditalia dall'Istria e si trovò a combattere non solo contro i Goti, asserragliati in alcune piazzeforti della pianura (come Verona, espugnata solo nel 561), ma anche contro le bande dei Franchi e dei loro vassalli Alamanni: quelle di Leuthar, acquartierate nel Veneto, furono decimate dalla peste; le altre furono in seguito sterminate da Narses nell'Italia meridionale. Così, mentre la resa definitiva degli Ostrogoti ebbe luogo nel 553, fu solo tre anni più tardi, nel 556, che i Franchi evacuarono definitivamente i loro insediamenti nella nostra provincia.

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