Purgatorio: XV Canto - Studentville

Purgatorio: XV Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Mancano tre ore al tramonto del sole e i due pellegrini procedono sempre nel secondo girone, allorché una

luce improvvisa colpisce con particolare intensità gli occhi di Dante: appare l’angelo guardiano del terzo girone, quello

degli iracondi, il quale indica ai due poeti la scala per salire, e li accompagna con il canto di « Beati rnisericordes » e «

Godi tu che vinci! ». Dante, per mettere a profitto il tempo del cammino, chiede al maestro chiarimenti intorno all’uso dei

due termini, divieto e consorte, fatto da Guido del Duca nel canto precedente. Ha inizio una lunga spiegazione filosofica,

nella quale Virgilio dimostra che l’invidia nasce dall’amore dei beni terreni, mentre coloro che ormai hanno conquistato, in

paradiso, quelli spirituali, sono uniti da un profondo affetto reciproco, nel quale si riflette l’infinita carità di Dio verso

le sue creature. Giunti nel terzo girone, appaiono in visione a Dante tre scene di mansuetudine:- il ritrovamento di Gesù nel

tempio mentre discute con i dottori, l’episodio che ha per protagonisti il tiranno Pisistrato e la moglie, la lapidazione di

Santo Stefano. Il canto termina con un’esortazione di Virgilio al discepolo, affinché questi, dopo essersi riscosso dalle

visioni, affretti il suo passo, mentre avanza sempre più verso di loro un denso fumo, quello che avvolge le anime degli

iracondi.

Introduzione critica

Il canto XV, dopo essere stato giudicato nel suo complesso di scarso

rilievo ai fini di una considerazione dei valori poetici, in quanto prevalentemente dottrinario – attinente alla struttura

didascalica del poema più, che alla sua poesia – è stato fatto oggetto, segnatamente da parte del Marti, di un’analisi volta a

temi che questa struttura vìvificano, ponendola come inscindibile dal momento lirico che la pervade. Entro tale prospettiva il

XV del Purgatorio è stato definito il canto della luce. “Nella continua e sempre rinnovantesi – scrive il critico – prospettiva

di luci é di ombre – dalla spera che a guisa di fanciullo scherza, alla luce abbarbagliante dell’angelo; dalla luce d’ardore

e di carità del primo paesaggio paradisiaco a quella tutta interiore delle visioni estatiche; dalla luce serotina e trepida di

tramonto al preannunziato buio d’inferno – la cosiddetta struttura dimostra tutta intera la sua natura poetica, mitologica,

fantastica, insomma; e il canto riacquista una sua funzione ed una sua autonomia.” Anche una considerazione tuttavia che, come

quest’ultima, insista prevalentemente sull’elémento sensibile e metaforico della luce, assunto a momento determinante la

complessiva fisionomia poetica del canto, rischia di apparire in fondo ancora astratta e di esaurirsi in una serie di citazioni

isolate. Essa infatti convalida il diffuso preconcetto secondo il quale, ovunque nella Commedia affiori in maniera esplicita il

pensiero filosofico o teologico dei tempi del Poeta, ci troviamo in presenza di passi aridamente scolastici, i quali, per

essere accetti al nostro palato, avrebbero bisogno una integrazione lirica. Questo equivale a perdere di vista che, a mano a

mano che la mente del protagonista si avvicina al regno dell’assoluta evidenza, le discussioni teoriche acquistano una

dimensione sempre più eminentemente drammatica e tesa, a prescindere, dalle oasi liriche, dense di un più circoscritto peso di

affetti, che in esse si schiudono. È stato scritto in proposito (Montano) che nella Commedia “i vari personaggi, e Dante e

Virgilio prima di tutti, si esprimono ed agiscono in conformità con le diverse situazioni di peccato e di redenzione”, onde “la

discussione teologica non è minimamente nel poema; il frutto di un intendimento didascalico e di un intervento del teologo

nella storia, ma nasce, anche essa, sempre dall’interno della rappresentazione e ne esprime uno dei momenti” ed in

particolare, per quanto riguarda il gruppo dei grandi canti dottrinali dal XV al XIX della seconda cantica, che questi ultimi,

mentre rappresentano l’apoteosi del lumen naturale impersonato da Virgilio, al tempo stesso ne denunciano gli insopprimibili

limiti. Già a partire dal XV, infatti, la ragione si mostra imperfettamente capace di far propri i motivi che la realtà del

secondo regno le propone. Virgilio spiega ricorrendo a poetiche analogie; il suo insegnamento si commisura con temi, come i

paradossi della carità (com’esser puote ch’un ben distributo in più posseditor faccia più ricchi di sé, che se da pochi è

posseduto?), che la sua crepuscolare, serena sapienza non è in grado se non di illuminare suggestivamente, da lontano (com’a

lucido corpo raggio vene). L’amore di cui egli parla adombra, come in un mito; la vissuta concretezza della carità; non è ad

un’esperienza sofferta in prima persona che egli fa riferimento, ma soltanto ad un postulato, esigenza insoddisfatta

dell’essere dell’uomo, fermo, all’apogeo della cultura classica, nei limiti della suprema tra le facoltà naturali. Presago

della dimensione del trascendente, ma sanza speme, in perpetuo; insaziato disio, non è dato a Virgilio di accedere ad -essa. Di

qui, in armonia con quella ché è l’intonazione generale del Purgatorio, il colore trepido, l’arcana malinconia delle sue

parole, nota grave, ovunque percepibile in queste pagine. Il trascendente si mostra, tuttavia prefigurato qui, non meno che

negli altri gironi del monte, anche per via non razionale, entro la percezione diretta del pellegrino, nelle visioni che lo

mettono in presenza di esempi di mansuetudine. Assai più che negli esempi di virtù fin qui apparsi è sottolineato, nelle

visioni del canto XV – quasi in risposta alla discussione teorica che ne occupa la parte centrale è nella quale la guida

razionale del poeta latino ha svelato un principio di difficoltà inerente alla sua stessa finitezza (com’esser puote) – il

carattere miracoloso, gratuito. I bassorilievi del girone dei superbi, al confronto, albergavano già in sé il miracolo, ma

miracolosa era in essi soltanto la perfezione della esecuzione artistica, non le caratteristiche materiali (marmo) o formali

(arte del rilievo) che li definivano come prodotti dì una tecnica sostanzialmente ancora umana. Qui Dio si serve invece, per

rivelarsi, di uno strumento che é esso stesso inspiegabile, sacro: la visione che folgora profeti e santi. Essa impone alla

nostra percezione una verità che non consente quegli .apprezzamenti critici e quei confronti che il Poeta era stato ancora in

grado di formulare di fronte agli esempi scolpiti del canto XI. Donde l’immediatezza nella resa stilistica di queste visioni:

essa poggia su mezzi elementari (il nesso paratattico, la ripetizione di parole e forme grammaticali, l’impiego

dell’annominatio, il frequente uso di sostantivi scarsamente individualizzanti o del pronome indefinito), che avvicinano

questo brano del canto al realismo dei libri sacri o di certa umile epica medievale. Gli esempi di mansuetudine vengono così a

pausare felicemente l’elaborata struttura strofica e sintattica caratterizzante il canto nel suo complesso, dalla

determinazione astronomica iniziale, attraverso la complessa fenomenologia della luce (assunta ora in senso naturalistico ora

in senso metaforico), che commenta il tema itinerale e il teorizzare. di Virgilio, fino alla decisa risoluzione di

quest’ultima nel verso di chiusura, che ormai individua con fermezza la tematica del canto successivo.

  • La Divina Commedia

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