Purgatorio: XVII Canto - Studentville

Purgatorio: XVII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

A Dante, uscito con Virgilio dal denso fumo che avvolge le anime degli

iracondi, mentre è ormai prossimo il tramonto, compaiono in visione tre esempi di ira punita, che gli presentano per prima la

vicenda di Progne, mutata in uccello per aver imbandito al marito le carni del figlio in un eccesso di folle gelosia. Appare

poi la figura di Aman, ministro del re persiano Assuero, che fu crocifisso dopo aver tramato la distruzione totale degli Ebrei,

contro cui era adirato, e subito dopo Dante vede Lavinia che piange sul cadavere della madre Amata, suicidatasi in un impeto

d’ira, per non vedere la figlia andare in sposa ad Enea. Scomparse all’improvviso queste visioni. il Poeta ode la voce

dell’angelo della pace che indica la strada per salire al quarto girone e che gli cancella dalla fronte la terza P, cantando

la beatitudine evangelica «Beati pacifici ». Frattanto i due pellegrini giungono sul ripiano deserto della quarta cornice, e

Virgilio, in seguito a una domanda precisa del discepolo, spiega le caratteristiche del peccato che, lì viene espiato,

l’accidia. L’ultima parte del canto è occupata dall’esposizione, da parte del poeta latino, della dottrina dell’amore nella

sua duplice forma – naturale (o istintivo) e voluto con libera scelta dalla volontà e dall’intelletto – e della struttura

morale del purgatorio.

Introduzione critica

È possibile individuare nel canto XVII, non diversamente che

nel XV, due nuclei di spiccato interesse ai fini del definirsi della complessa poesia della parte centrale del Purgatorio:

quello delle visioni e quello dell’esposizione didattica di Virgilio. Nel canto XVI invece, al dialettico contrapporsi

dell’insegnamento razionale, impartito dal poeta latino, all’immediatezza delle verità infuse, per intervento della Grazia,

nell’anima itinerante si era sostituito un interesse esclusivo per le cose del mondo: guida di Dante era stato, nelle tenebre

avviluppanti dell’ira, un uomo di corte, fervente seguace, come lui, dell’idea imperiale: al magistero di Virgilio si era

sostituito il teorizzare – sfociante nella concitazione di una passione non ancora rischiarata, in acerbi accenti polemici – di

Marco Lombardo sui rapporti tra spada e pasturale. Nel canto XVII Dante si affida nuovamente a Virgilio per saziare la sua sete

di conoscere, sete che la ragione, impersonata dal poeta latino, potrà solo parzialmente placare. Virgilio ha sempre dato voce,

fino a questo punto, ad un superiore principio razionale, reso caldo di umano fervore da una illimitata dedizione al suo

compito di maestro. Tuttavia, data l’immaturità del discepolo a penetrare i sensi meno ovvii che presiedono al dispiegarsi

apparentemente dispersivo delle cose, questo principio razionale si é fin qui manifestato in interventi di ancora angusta

portata, in formule gnomiche ed ostative, per cui l’insegnamento del mantovano é potuto apparire – a chi non avesse tenuto

conto delle necessità postulate dalla narrazione di quell’itinerario spirituale che é la Commedia – qua e là irrisorio e

banale, inadeguato alla drammaticità delle prospettive che si aprono agli occhi del protagonista. A partire dal canto XV,

invece, Virgilio affronta i temi di una meditazione organica e superiore, per lui, tuttavia, lontana dalla possibilità di

tradursi in esiti di indiscussa evidenza, data la sua estraneità nei riguardi di un pensiero che la fede definisce e rischiara.

L’esposizione della topografia morale del secondo regno (versi 91-139) é stata concordemente giudicata positiva dalla critica,

che ne ha messo in rilievo l’ampio, sereno respiro, entro il rigoroso concatenarsi delle deduzioni, che una terminologia

astrattamente scolastica avrebbe rischiato, in un poeta di meno ricco sentire, di precludere ad ogni forma di trasfigurazione

in senso lirico. Il procedere della dimostrazione, ricondotta ad un unico motivo ispiratore, al fondamento luminoso e centrale

dell’amore – concepito come principio motore di ogni manifestazione del reale e del quale sono partecipi le creature non meno

del loro Creatore – esprime un sicuro equilibrio, quasi un senso di trionfo per l’immancabile scaturire di ogni singola

proposizione da quelle che, in funzione di premesse, la precedono. L’impalcatura scolastica che appesantiva la digressione

didascalica del canto XI dell’Inferno non nuoce qui al ritmo limpido che scandisce il succedersi delle argomentazioni. Ciò é

dovuto forse proprio all’emozione che, illuminando, interiorizza il dire di Virgilio ogni volta che torna a proporsi il motivo

dell’amore, nel quale tutti gli svolgimenti concettuali che da esso discendono tendono a riassorbirsi, dopo aver enunciato

ciascuno la propria verità parziale, quasi diretti ad un fulcro di verità ancora insondata, ad una scaturigine per troppa luce

fasciata del proprio mistero. Nel canto XV il discorso di Virgilio sull’amore che aumenta in proporzione diretta al numero di

coloro che ad esso partecipano, si era sollevato a canto nello svolgersi metaforico e sublime del tema della luce. Qui il suo

dire si distende in cadenze più riposate, ma non si può in alcun modo parlare in proposito di astratto didascalismo, bensì di

una poesia animata da un forte, anche se contenuto, pathos metafisico, da un’ansia profonda e segreta di penetrare nei moventi

concettuali e morali che presiedono all’ordinata architettura delle cose. Gli esempi di ira punita, costituenti il momento di

più accesa e ricca individuazione poetica del canto, presentano – se, considerati nella staticità dei singoli quadri proposti,

vengono messi a raffronto con gli opposti esempi di mansuetudine del canto XV – una chiusura alla dimensione dell’infinito,

una limitatezza nel definirsi dei sentimenti di quelli che ne sono i personaggi, chiusura e limitatezza che si traducono in una

meno intensa evidenza lirica nella resa di queste scene. Ciò é dovuto al fatto che l’interesse del Poeta nel canto XVII é

incentrata soprattutto sulle modalità del proporsi delle visioni, sul loro immotivato accamparsi al centro dell’anima in se

stessa raccolta – evasa, sia pure per la durata di attimi, dagli orizzonti del mondo – sul loro improvviso svanire, per cui i

momenti più alti della rappresentazione poetica non sono espressi dai quadri successivi che le visioni stesse presentano, ma

riguardano la dinamica del loro prorompere nella coscienza del soggetto. All’ancora generico nell’imagine mia apparve

l’orma, che suggella il proporsi del primo esempio, fanno seguito, nell’intensificarsi del rapimento interiore, il poi piovve

dentro all’alta fantasia, che introduce – fermata in una eternità ottusa e statica – l’ira grandiosa di Aman, e infine, in

contrapposizione logica non meno che tonale a quest’ultimo verso, il surse… piangendo forte dei versi 34-35, anticipato dal

concretissimo “rompersi” riferito all’astratta imagine, e riecheggiante nella similitudine della bulla. Il motivo del rompersi

della bulla é ripreso in quello del “frangersi” del sonno (verso 40), svolto secondo le linee di un incontenibile dinamismo (si

frange… percuote) che riesce ad una fortissima animazione del dato generico. II sonno acquista qui una vitalità animale

(guizza), quasi un sussulto atterrito prima di essere abolito dal tempo che gli prescrive di “morire”. Da quest’attenzione

portata dal Poeta sulle modalità del vedere interiore scaturisce la travolgente apostrofe iniziale all’imaginativa.

  • La Divina Commedia

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