Purgatorio: XXXIII Canto - Studentville

Purgatorio: XXXIII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Le quattro virtù cardinali e le tre teologali iniziano, di fronte alle tristi vicende del carro

della Chiesa, il canto del Salmo LXXIX: «Deus, venerunt gentes », al quale Beatrice risponde con le stesse parole rivolte da

Gesù ai discepoli per annunziare loro la sua morte e la sua risurrezione: « Modicum, et non videbitis me… » . In un secondo

momento Beatrice invita Dante a camminare al suo fianco, affinché possa meglio udire le sue parole. Ella ora intende spiegare i

misteriosi prodigi avvenuti intorno e sul carro della Chiesa e contemporaneamente preannunziare la punizione di coloro che si

sono resi colpevoli della corruzione morale della Chiesa. Al Poeta – continua Beatrice – toccherà il compito di riferire agli

uomini ciò che ha udito. E poiché Dante osserva che il linguaggio da lei usato è troppo oscuro ed esige uno sforzo non comune

per poterlo comprendere. Beatrice rivela che ciò avviene per dimostrare all’uomo che ogni dottrina terrena è insufficiente a

penetrare la scienza divina. È mezzogiorno allorché le figure delle sette virtù si fermano nella zona in cui termina l’ombra

della foresta, di fronte alla sorgente dei due fiumi del paradiso terrestre, il Letè, nelle cui acque il Poeta è già stato

immerso per dimenticare il male passato, e l’Eunoè. Matelda – in seguito a un comando di Beatrice – invita Dante e Stazio a

seguirla per bere l’acqua di questo fiume, che ravviva la memoria del bene compiuto. Con questo ultimo rito la purificazione

del Poeta è completa: egli è ormai puro e disposto a salire alle stelle.

Introduzione critica

La

struttura dell’ultimo canto del Purgatorio si presenta, sotto alcuni aspetti, simile a quella del canto precedente: essa

sviluppa ulteriormente, concludendola, la ricca tematica storico-politica del XXXII e appare vigorosamente percorsa –

nell’ultimo, impegnato discorso di Beatrice nel Purgatorio – dallo stesso impeto profetico che sorreggeva le fosche visioni

del carro della Chiesa. Inoltre contrappone anch’essa alle scene apocalittiche, avvolte in una luce epica e sacrale, la

suggestione di alcune immagini distese in una natura limpida e sognante, che richiama le prime, luminose terzine descrittive

del paradiso terrestre. Tuttavia, fin dall’inizio, si avverte che l’atmosfera è mutata, perché freme dovunque un’ansia di

liberazione e di purezza, che allontana le crude immagini conclusive del canto XXXII per introdurre alla vastità misteriosa

delle stelle ormai propinque, del ciel che più alto festina, del sole corusco, fino allo slancio anelante a Dio, che chiude

tutta la seconda cantica. Questa mutata dimensione interiore appare evidente nel solenne esordio, dove la dolce salmodia delle

virtù ricorda il salmo dolcemente intonato al momento del primo atto della purificazione di Dante (canto XXXI, versi 97-99), e

l’angelica nota che temprava i passi nella selva prima delle allucinanti visioni accanto all’arbore robusto. Anche Beatrice

abbandona il grave e corrucciato atteggiamento del Cristo-giudice, atteggiamento che aveva reso particolarmente solenne e dura

la sua rampogna a Dante nel canto XXXI, e si trasforma nella dolente immagine di Maria ai piedi della croce, per pronunciare

poi, levatasi in piedi e colorata come foco le parole della promessa e del riscatto (versi 10-12). Qui soprattutto si dissolve

la torbida atmosfera di vizio che aveva chiuso il canto XXXII e si scioglie l’incubo del trionfo del male. Beatrice,

raccogliendo intorno a sé “in un solo moto di carità” (Montano) le virtù, Dante, Matelda e Stazio, che rappresentano qui

l’umanità credente, con tranquillo aspetto e con fraterni incoraggiamenti (versi 19-21 e 23-24) svela il futuro Avvento, la

redenzione morale-politica del mondo. Come il pellegrino è ormai lontano dai fieri sdegni fiorentini, dalle accanite lotte fra

Bianchi e Neri, dall’interesse polarizzato solo sulla sua città! È tutto il dramma storico del suo tempo che gli scorre

davanti agli occhi: gli sdegni, le illusioni, le aspettative non sono più per i cittadin della città partita o per il giardin

dello ‘mperio, ma per tutti i vivi del viver ch’è un correre alla morte. Il dinamismo figurativo che informa le apparizioni

del canto XXXII cede ora il posto a cadenze gravi e solenni, la cui lentezza riecheggia la ieraticità di certe celebrazioni

liturgiche (sappi ch ‘l vaso… fu e non è; ch’io veggio certamente, e però il narro; nel quale un cinquecento diece e

cinque…) : il Poeta vede prossimo il tempo della liberazione (tosto fier li fatti…) con il ritorno della Chiesa e

dell’Impero – nel rispettivo campo d’azione – a quella divina origine che la verità rivelata ha stabilito. La fermezza

dell’accento con cui Beatrice fa questa predizione traduce la fermezza dello spirito di Dante che, ormai illuminato da Dio,

crede senza ombra di incertezza a quanto vede con la sua fantasia, per cui in questo momento trova il suo culmine ideale

l’ispirazione apocalittica e profetica della Commedia. Giustamente l’ultimo canto del Purgatorio può essere definito come il

nodo vitale del triplice pensiero religioso-morale-politico che circola in tutto il poema e la sua profezia come “la profezia

centrale e… più appariscente e sonora” (Cian). Tuttavia una lettura che limiti l’interesse del canto a questa parte, non

solo risulterebbe parziale, ma, altresì, sarebbe incapace di cogliere la nota caratteristica di esso: una varietà di toni ed

accenti in relazione alla varietà dei momenti e degli stati d’animo, un oscillare continuo di movenze e di affetti fra

l’umano e il divino. Nell’esordio, durante la rappresentazione dei fatti storici, la vicenda personale di Dante non viene

dimenticati e, anche se è brevemente accennata, le parole (frate, perché… Madonna, mia bisogna…) si caricano di profonde

risonanze. Poi essa prende decisamente il sopravvento (dorme lo ‘ngegno tuo…) e “la parola di Beatrice diventa una lezione

mista di rimproveri blandi e di punture, di osservazioni insistenti e minuziose, assumendo un tono… pedagogico” (Cian).

Allorché Dante le chiede perché mai le parole che ella gli rivolge si innalzino troppo al di sopra della sua intelligenza, la

risposta di lei è una dura lezione sull’insufficienza di ogni tentativo compiuto dalle sole forze umane per avvicinarsi a Dio.

Subito dopo, però, Beatrice torna a sorridere con indulgenza cortese, e infine lo giustifica affettuosamente di fronte a

Matelda, prima di preparare per lui l’ultimo rito purificatorio (versi 127-129). Cosi il Poeta, osserva il Cian, attraverso la

efficacia “di toni discorsivi, dapprima austeramente didattici… poi sempre più pacati ed umani… ci ha ricondotti, senza che

ce ne accorgessimo, in un clima fortemente suggestivo che ci richiama non solo quello del suo primo incontro con la bella donna

(canto XXVIII), ma anche quello d’un’altra sua felicità terrestre della giovinezza, felicità sognata, descritta, cantata

nelle ultime pagine” della Vita Nova. Non solo l’amoroso atteggiamento di Beatrice, ma anche il richiamo rinnovato e forte

alla dolcezza e alla bellezza della natura edenica concorre a ricreare quel clima. Se è totalmente errata la posizione di chi

intende identificare la “mirabile visione” finale della Vita Nova con questa del Purgatorio (tra l’una e l’altra c’è di

mezzo tutta la maturità del pensiero politico e religioso dell’Alighieri), è però innegabile una certa consonanza interiore,

“o poetica e musicale”, fra i due momenti spirituali “in cui le due visioni hanno origine e si muovono” (Cian).

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