Riassunto - Studentville

Riassunto

Riassunto generale su Kant.

La vita e il periodo precritico Kant opera negli ultimi decenni del Settecento in Germania, in un’epoca per molti versi di transizione tra illuminismo e romanticismo. Risente di questa fase di transizione e, pur collocandosi a pieno titolo nell’illuminismo (di cui ò l’ultimo e il massimo esponente), molti aspetti del suo pensiero sono già  romantici. Rilevante ò il fatto che egli operi in una realtà  come quella tedesca che, per la sua collocazione ‘provinciale’ dal punto di vista culturale e politico, vede il penetramento di un illuminismo diverso da quello degli altri Paesi, un illuminismo più sfumato, il cui aspetto rivoluzionario di netta rottura e di critica verso il passato risulta smorzato. Che l’illuminismo in Germania sia più sfumato che altrove, lo si può facilmente evincere dall’uso che i tedeschi continuano a fare del latino, nella altre nazioni europeee ormai sostituito dalle lingue nazionali, atte a divulgare il più possibile la cultura e le scoperte filosofiche. Un altro aspetto che contraddistingue la realtà  tedesca dalle altre in Europa ò il fatto che, in ambito filosofico, in Germania non c’ò la rottura definitiva con la metafisica, nò tantomeno il distacco degli intellettuali dalle università : Kant stesso sarà  per tutto il corso della sua vita professore universitario. Si può dire, in altri termini, che la Germania di quegli anni ò di gran lunga meno rivoluzionaria di molti altri Paesi, quali la Francia o l’Inghilterra; Kant ò per molti versi un pensatore rivoluzionario, tanto da essere talvolta paragonato a Robespierre; eppure, letto in trasparenza, molti sono in lui gli aspetti conservatori: egli si presenta, più che come pensatore radicalmente rivoluzionario, come pensatore che cerca di dare una sistemazione definitiva alla culturta moderna. Kant accetta con entusiasmo le novità  subentrate nella cultura moderna, cercando di dar loro una veste definitiva; quest’operazione egli la attuerà  soprattutto con la scienza newtoniana: la filosofia di Kant ò, infatti, per molti aspetti un tentativo di fondare filosoficamente la scienza di Newton e questo dimostra che egli non ò un conservatore, ma anche che ò meno rivoluzionario del previsto. La vita di Kant, interamente dedicata all’insegnamento universitario, ò diventata quasi proverbiale per i pochi avvenimenti che la caratterizzano. Due però sono le tappe fondamentali che la segnano: la prima, risale a quando Kant rivendicò apertamente la libertà  di pensiero, in opposizione con la censura che aveva avuto da dire sul suo scritto sulla religione costruita nei limiti della sola ragione. In Kant la libertà  di pensiero ò un tema centrale, che trova la sua massima trattazione nella Risposta alla domanda: che cosa ò l’illuminismo? (1784). In questo trattatello (che ò il vero e proprio testamento spirituale dell’illuminismo), Kant definisce l’illuminismo come ‘ l’uscita dell’ uomo dallo stato di minorità  che egli deve imputare a se stesso ‘, quasi come se l’uomo non fosse ancora del tutto divenuto maggiorenne sul piano intellettuale, cioò capace di usare la propria ragione. Kant, riprendendo le tematiche tipicamente illuministiche della lotta ai pregiudizi, spiega che gli uomini, fino a quel momento, non hanno dovuto fare lo sforzo di pensare da soli perchò c’era chi lo faceva per loro: essi si sono dunque ridotti ad accettare le opinioni elaborate dagli altri senza vagliarle con la propria ragione. La minorità  che ha caratterizzato fino ad allora l’uomo ò interamente imputabile all’uomo stesso, che non ha avuto il coraggio nò la voglia di sapere; l’illuminismo ò quindi un fatto di volontà  e il suo motto ò ‘ abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione! ‘. A questo punto, però, Kant (e qui si vede come egli sia per molti aspetti conservatore) distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione: l’uso pubblico ò quello che io faccio in qualità  di libero cittadino, quello privato ò invece quello che faccio nell’esercizio specifico di determinate funzioni. Come soldato impegnato in guerra, ad esempio, dovrò limitarmi ad obbedire, senza esprimere la mia disapprovazione (uso privato della ragione); quando però non sono più nelle vesti di soldato, ma in quelle di cittadino, posso liberamente esprimere la mia disapprovazione e tutte le obiezioni che desidero (uso pubblico della ragione); allo stesso modo, se un gruppo religioso mi paga per tenere la messa, io devo limitarmi ad eseguire e non mi ò concessa la libertà  di esprimere le mie riserve in merito a quella dottrina religiosa; come libero cittadino, invece, posso esprimere il mio disappunto e le mie perplessità . Nei due casi appena esaminati, non vi ò alcuna violazione dell’obbedienza: ho libertà  di parola, ma devo obbedire (anche se non approvo); e Kant tesse le lodi di Federico II, il sovrano imbevuto di razionalismo, il cui atteggiamento può così essere riassunto: ‘puoi pensare quello che vuoi, ma devi obbedire ai miei ordini’. Tuttavia Kant si accorge con grande acutezza che spesso la distinzione tra fatti e parole non ò così facilmente operabile: il soldato che obbedisce agli ordini, ma li critica va oltre la libertà  di espressione e raggiunge la fattualità , creando una situazione psicologica che favorisce la disobbedienza agli ordini: in questo modo, le parole diventano fatti. Kant riconosce dunque due limiti alla libertà  di espressione: il primo ò quello che risiede nella distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, e il secondo ò invece quello riguardante i casi in cui la libertà  d’espressione non ò del tutto legittima (come nel caso del soldato che obbedisce ma critica). L’altra tappa fondamentale della vita di Kant ò legata all’atteggiamento assunto nei confronti della Rivoluzione francese: si narra che i concittadini di Kant regolassero i loro orologi in base alle sue passeggiate, che avvenivano immancabilmente in determinati orari, e che una sola volta egli mancò all’appuntamento: quando seppe della presa della Bastiglia. Anche quando la Rivoluzione prese una piega radicale, Kant restò coerente: non rinunciò mai a considerare la Rivoluzione come positiva per la storia dell’umanità  e il popolo francese come il primo popolo che si era finalmente dato un regime del tutto degno del genere umano. Stranamente però nel giudicare la Rivoluzione e l’annosa questione della legittimità  della ribellione, Kant sostenne che di fronte ad un’autorità  legittimamente costituita la ribellione fosse illegittima; tuttavia questo non gli impedì di giudicare positivamente i contenuti del regime nato dalla Rivoluzione una volta che esso era nato: la Rivoluzione ò stata illegittima, secondo Kant, perchò contro un governo legittimamente costituito, ma, una volta che essa c’ò stata, non si possono non riconoscere i valori fortemente positivi scaturiti dal nuovo regime. Anche in merito a questo strano atteggiamento verso la Rivoluzione emerge la questione della libertà  di pensiero: non c’ò il diritto di opporsi ad uno stato costituito legittimamente, ma c’ò il diritto di schierarsi, in qualità  di liberi cittadini, a favore della Rivoluzione, una volta che essa ha preso il via. Tutto questo si collega ancora ad un altro opuscolo kantiano, dedicato alla politica e intitolato Per la pace perpetua: in esso, Kant ipotizza la possibilità  di realizzare una pace perpetua, cioò di trovare un sistema di equilibrio internazionale che garantisca una volta per tutte la fine delle guerre. Kant non ipotizzava una sorta di unico stato mondiale, anzi, guardava con sospetto la cosa perchò in fondo la sua ò una posizione liberale. Piuttosto, egli propone di creare una sorta di federazione mondiale degli Stati, a partire dall’Europa per poi coinvolgere l’intero mondo. In questo senso, Kant può essere considerato il teorico dell’Europa Unita. E’ interessante il fatto che egli scorga nella Francia repubblicana (per repubblicano Kant intende uno Stato in cui i cittadini prendano parte al governo) il punto di riferimento per questa confederazione: il ragionamento che porta il pensatore tedesco a scegliere la Francia e più in generale un Paese repubblicano ò questo: Kant ò convinto che in fondo i sovrani han sempre fatto le guerre come varianti dello sport della caccia, senza rimetterci molto; se si vuole davvero ottenere una pace perpetua, ò necessario che a scegliere se fare la guerra o meno sia chi ne paga le conseguenze, ovvero il popolo: se spettasse ad esso la decisione, non vi sarebbero mai guerre, sostiene Kant. Quest’osservazione kantiana, però, non ò del tutto corretta e nasce soprattutto in virtù dell’ottimismo illuministico che si respirava in quegli anni: il Novecento ha chiaramente mostrato come i popoli (pur pagandone le conseguenze) si lascino facilmente trascinare in guerra, a differenza di quel che pensava il filosofo tedesco. Piuttosto importante ò la vita intellettuale di Kant: egli ebbe una prima formazione di stampo pietistico. Il pietismo ò quella corrente protestante che, nata nel Seicento, si caratterizza per un intenso senso della spiritualità  e per un rigorismo morale molto marcato: e sia il rigorismo sia l’interiorità  spirituale sono due connotazioni fortissime nella filosofia di Kant; uno dei suoi testi più famosi (la Critica della ragion pratica ) ò dedicato all’etica ed ò evidentemente ispirato al pietismo. Nella formazione culturale del giovane Kant ebbero peso parecchi pensatori: va subito precisato che Kant non ò un autore precoce (come saranno invece gli autori romantici: Schelling, ad esempio, a 25 anni aveva già  scritto le sue opere più importanti), bensì giunge alla piena maturazione del proprio pensiero in età  avanzata. Pur avendo composto parecchi scritti in gioventù, ò solo con la Critica della ragion pura (1781), composta quando aveva ormai circa sessant’anni, che Kant raggiunge la maturità  del suo pensiero. Tutto ciò che aveva scritto prima non ò altro che una lunga e laboriosa preparazione a questo. La sua filosofia, del resto, viene solitamente suddivisa in due periodi, facendo riferimento alla stesura della Critica della ragion pura: il periodo che viene prima di quest’opera ò definito ‘precritico’. A caratterizzare questo lungo periodo di maturazione filosofica, sono le continue oscillazioni dovute alle diverse influenze filosofiche che agiscono su Kant. Di esse, due sono quelle che si fanno più sentire: si tratta dell’empirismo e dell’innatismo. Nella metà  del Settecento, in Germania, l’influenza di Leibniz era ancora fortissima, grazie anche alla diffusione e alla sistematicizzazione del suo pensiero operata da Wolff: e proprio queste due istanze, leibniziane e di sistematicizzazione, le ritroviamo in Kant; soprattutto l’idea di sistematicizzare ò fortissima nel pensatore tedesco, quasi ossessiva, tanto che qualcuno ha detto che si tratta quasi di una gabbia che cristallizza il suo pensiero: sì, perchò se prendiamo la Critica della ragion pura noteremo in essa una sistematicità  esasperata, ricercata; addirittura alle altre due grandi critiche (la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio ) egli tenterà  di conferire la stessa sistematicità . Detto questo, Kant deriva da Leibniz parecchie concezioni, delle quali una resta fissa, assolutamente intoccabile: si tratta di un’istanza innatista sul piano gnoseologico, un rifiuto a pensare che tutto possa derivare solo dall’esperienza; come diceva Leibniz stesso, non c’ò nulla nel nostro intelletto che prima non sia passato dall’esperienza, fatta eccezione per l’intelletto stesso. Naturalmente il materiale della conoscenza lo riceviamo dal’esperienza, ma a rielaborarlo ò l’intelletto, che esula del tutto dall’esperienza stessa. Leibniz aveva avuto il merito di riconoscere, almeno embrionalmente, che le strutture con le quali organizziamo le conoscenze sono innate; la soluzione all’annoso problema del conflitto tra empirismo e innatismo la darà  Kant, in modo definitivo: la materia della conoscenza deriva dall’esperienza, ma la forma della conoscenza ò a priori. Kant mutua quindi da Leibniz l’istanza innatistica, pur depurandola: dal soggetto deriviamo le forme della conoscenza, dai sensi deriviamo invece i contenuti. Questo vuol dire che Kant (sostenendo che il materiale dela conoscenza derivi dall’esperienza) non attinge solo dall’innatismo leibniziano, ma anche dall’empirismo lockiano. Da Locke egli eredita anche il criticismo nei confronti degli strumenti conoscitivi a nostra disposizione, ponendosi il quesito: fin dove può arrivare la mia ragione? Locke diceva che la ragione ò l’unico lume di cui possiamo avvalerci per illuminare il mondo, ma si tratta comunque di una luce limitata, che non può gettar luce su ogni cosa: ma la limitatezza di queso mezzo non autorizza a porre ad esso dei limiti esterni (quale la fede). Essendo l’unico strumento a disposizione, il lume della ragione ò l’unico che abbia il diritto di indagare sui suoi stessi limiti, che non le sono comunque imposti dall’esterno. La ragione non ò onnipotente, ma ha dei limiti intrinseci: questo distingue l’illuminismo dal razionalismo cartesiano, che, vedendo la ragione come onnipotente, scivolava, paradossalmente, nell’irrazionalismo al pari della religione: come la religione non ha fede nella ragione, così il razionalismo ha fede in essa, senza però indagare sui limiti che essa presenta. La Critica della ragion pura ò proprio, come il Saggio sull’intelletto umano di Locke, un tentativo della ragione umana di riflettere su se stessa, un tentativo che per molti versi conclude il discorso avviato a suo tempo da Cartesio sul metodo da adottare: che mezzi ha a disposizione la ragione per conoscere? E fin dove si possono spingere tali mezzi della ragione? Ad indagare sui limiti della ragione deve essere la ragione stessa. Ma Kant, oltrechò dell’influenza di Locke e di Leibniz, risente anche di quella di Newton e di Hume: la filosofia di Kant (almeno nella sua parte teoretica, ossia nella Critica della ragion pura ), come accennato, si configura come tentativo di fondare filosoficamente la scienza moderna, la cui paternità  ò riconducibile soprattutto a Newton. A quest’ultimo spetta il merito di aver unificato in una sola legge (legge di gravitazione universale) quelle che in Keplero e Galileo erano leggi distinte: Keplero aveva elaborato le tre leggi sull’orbita ellittica dei pianeti, Galileo, invece, aveva formulato la legge di caduta dei gravi. All’epoca di Kant la formulazione scientifica di Newton ò all’avanguardia perchò si configura come una formulazione pienamente matura del meccanicismo: ormai il meccanicismo cartesiano, rigurgitante di errori, ò sorpassato. Cartesio, del resto, aveva respinto l’attrazione a distanza dei pianeti e dei corpi perchò puzzava troppo di animismo e rischiava di inficiare l’impianto meccanicistico, il quale implica invece un’azione per contatto. Le teorie di Newton, che proponevano, con la legge di gravitazione universale, un’attrazione reciproca dei corpi, erano state viste dai cartesiani come un infamante allontanamento dal meccanicismo, noi le vediamo invece come la sua forma più matura. E Kant, sotto questo profilo, la pensa come noi. A testimonianza del suo stretto rapporto con la scienza newtoniana va indubbiamente ricordato lo scritto, datato 1775, intitolato Storia universale della natura e teoria del cielo: in esso, Kant avanza l’ipotesi della nascita dell’universo a partire dalla formazione nello spazio di una nebulosa di materia, secondo le leggi di Newton; quest’opera testimonia, tra l’altro, grandi comptetenze scientifiche, perchò sarà  poi riformulata dall’astronomo La Place e prenderà  il nome di ipotesi Kant-La Place. Vi ò poi un altro testo fondamentale, risalente al periodo precritico, che testimonia la vicinanza a Newton e, al tempo stesso, la presa di distanza da Leibniz: Newton e Leibniz avevano avuto due diverse concezioni del tempo e dello spazio. Per il pensatore inglese, il tempo era qualcosa di assoluto, cioò di indipendente dal soggetto che conosce e dagli oggetti immersi nello spazio stesso; anche se non vi fossero cose nò soggetti percepienti lo spazio, quasi come un enorme contenitore, continuerebbe ad esistere; per esso (dato da 3 coordinate, cioò tre numeri ciascuno dei quali dà  un’informazione: non possono esserci al tempo stesso due oggetti ad occupare lo stesso spazio) ò anzi indifferente che vi siano al suo interno soggetti e cose. La concezione di Leibniz, per molti versi più vicina a quella della fisica novecentesca, vuole sia il tempo sia lo spazio come inesistenti in assoluto, ma dipendenti dagli oggetti stessi: spazio e tempo per Leibniz non sono altro che le relazioni tra le realtà  materiali esistenti: lo spazio ò la relazione della coesistenza fra le cose, e il tempo della successione delle cose. Concettualmente per Leibniz prima ci sono le cose, poi il tempo e lo spazio, perchò ne sono relazioni (e una relazione deve per forza sussistere tra cose già  esistenti): pur dipendendo dalle cose, spazio e tempo non dipendono per Leibniz dal soggetto, in quanto non hanno carattere meramente soggettivo. Per Newton ò l’esatto opposto: prima ci sono lo spazio e il tempo, poi tutto il resto. E Kant, nel periodo precritico, scrive un opuscolo in cui prende le difese di Newton, servendosi, nella sua dimostrazione, dell’analisi degli oggetti simmetrici: la mano destra e la mano sinistra, pur essendo simmetriche (cioò avendo una relazione interna tra le parti uguale, ma capovolta), non sono congruenti (cioò non occupano lo stesso spazio); ne consegue che se lo spazio fosse soltanto la relazione delle parti di un oggetto, lo spazio occupato dalla mano destra e dalla sinistra (la cui relazione interna ò uguale, seppur capovolta) dovrebbe essere uguale, ma così non ò: infatti (ed ò evidente nel caso delle mani) dove c’ò la stessa relazione, non c’ò lo stesso spazio, ovvero il rapporto tra le parti non ò lo spazio. Il che spiega chiaramente che la relazione delle parti non fa lo spazio, come invece sosteneva Leibniz, ma che lo spazio ò prima delle cose stesse, come voleva Newton. Nella fase critica, però, Kant, pur non rinnegando la sua adesione alla tesi di Newton, opererà  una modifica: ò vero che lo spazio e il tempo sono assoluti e indipendenti dagli oggetti, di cui sono anzi la condizione di esistenza, spiegherà , ma ò altrettanto vero che essi sono in qualche modo dipendenti dal soggetto. Tra i vari pensatori che influiscono su Kant vi ò pure l’ inglese Berkeley, il quale sosteneva che essere vuol dire essere percepiti: anche nel caso in cui non vi fossero più gli uomini, le cose continuerebbero ad esistere perchò percepite da Dio; Berkeley conferiva così alla propria filosofia una sfumatura idealistica (negando l’esistenza autonoma delle cose). Quando Kant scriverà  la Critica della ragion pura, molti vedranno erroneamente in essa una banale riproposizione delle tesi esposte a suo tempo da Berkeley: il che spinse Kant ad effettuare una rivisitazione dell’opera in cui confutava l’idealismo e prendeva le distanze da Berkeley. Oltre a Berkeley, Kant risente anche dell’influenza di Hume, a tal punto che egli riconoscerà  al pensatore scozzese il merito di averlo destato dal suo sonno dogmatico. Quest’espressione, divenuta celebre, dà  quasi l’idea di un’illuminazione improvvisa arrivata dalla lettura dei testi humeani, i quali hanno svolto su Kant una funzione anti- dogmatica, l’hanno cioò destato da quel sonno che l’aveva portato ad accettare in maniera acritica alcuni punti fermi della metafisica e del comune modo di pensare: Hume aveva mostrato che la nozione di sostanza e di causa, da tutti accettate come evidenti, in realtà  non erano poi così ovvie: chi mi dice che il mondo sia effettivamente un insieme di sostanze tra loro legate da rapporti causali? Non posso dimostrarlo razionalmente, ma ne sono certo per via della credenza immediata dettata dalla mia stessa natura di uomo, la quale mi invita ad accettare le nozioni di causa e sostanza, secondo Hume. Una volta svegliato da Hume, Kant ne prenderà  poi le distanze perchò convinto che sebbene infondate razionalmente, le nozioni di causa e sostanza, a differenza di quanto credeva il pensatore scozzese, possano essere fondate dalla ragione. Certo, Hume ha perfettamente ragione a dire che le nozioni di causa e sostanza non sono ovvie, ma, detto questo, bisogna spingersi oltre, provando, con un percorso originale, a fondarle. E a proposito ò interessante ricordare uno scritto kantiano (di tutti forse il più piacevole alla lettura) risalente al 1766, intitolato I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica. Lo spunto per quest’opera sorge in occasione di un fatto contingente: una conoscente aveva chiesto a Kant il parere a riguardo di un bislacco personaggio di allora, dalle idee strane e, a quanto sosteneva, capace di entrare in contatto col mondo sovrasensibile e spirituale. Kant ne approfitta e scrive questo libercolo, effettuando un capovolgimento ironico (evidente a partire dal titolo), quasi a dire che quel personaggio ò un fanfarone che vuole andare al di là  dell’esperienza sensibile allo stesso modo in cui spesso la metafisica ha costruito castelli in aria, cercando illegittimamente di andare oltre l’esperienza: i sogni della metafisica vengono dunque accostati a quelli del fanfarone e ritenuti dei puri vaneggiamenti. Questo testo costituisce l’apice della polemica kantiana verso la metafisica, una polemica che trova appunto in Hume il suo massimo eroe. Questa posizione di insofferenza verso la metafisica nel periodo critico si attenuerà  e, sebbene Kant continuerà  a ritenere erronea la pretesa della metafisica di spiegare ciò che ò al di là  del mondo fisico, tuttavia egli spiegherà  che si tratta di una pretesa innata nella natura dell’uomo stesso, il quale sente l’esigenza di porsi queste domande e di rispondere ad esse. Dirà  che alcune idee metafisiche (ad esempio Dio) hanno una certa funzione nella conoscenza (ad esempio, non posso conoscere Dio, ma l’idea di Dio mi aiuta a capire molte altre cose), e che esse, sebbene inaccessibili alla conoscenza, per altri versi sono accessibili al campo morale ed etico (ad esempio, Dio non lo posso conoscere, ma nell’etica, scegliendo come comportarmi, mi baso sul concetto di Dio). A quegli anni risale anche un’altra opera kantiana, che segna il distacco di matrice humeana dalla metafisica: L’unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763). Qui Kant distrugge la classica argomentazione ontologica di Anselmo da Aosta: Anselmo aveva dimostrato l’esistenza di Dio partendo dal concetto stesso di Dio, inteso come l’essere perfettissimo, e spiegando che Dio, la cosa più perfetta di ogni altra, per essere tale non può mancare di esistenza; l’esistenza, in quanto perfezione, per Anselmo fa parte dell’essenza, e un concetto (pura essenza) privo di esistenza, non può essere perfetto. Ma Kant confuta quest’argomentazione, sostenendo che l’esistenza non può a nessun titolo far parte dell’essenza; il concetto di una cosa, sia che essa esista sia che non esista, non varia e l’esistenza ò come se si aggiungesse dall’esterno: il concetto di giraffa ò perfetto di per sò, anche se le giraffe non esistessero. Kant si avvaleva di un esempio: certo i 100 talleri che ho in tasca sono diversi dai 100 talleri che io penso, già  solo perchò con quelli in tasca posso fare acquisti, ma non ò una differenza di essenza, non ò, come credeva Anselmo, che i 100 talleri esistenti siano più perfetti e abbiano più valore dei 100 talleri pensati; non ò vero che una cosa esistente ò più grande della medesima cosa pensata come se inesistente. L’esempio dei 100 talleri rende bene l’idea perchò, se come dice Anselmo ciò che esiste vale di più ed ò più grande di ciò che ò solo pensato, avendo 100 talleri in tasca, pensando quei talleri, dovrei averne in mente meno, solo 90, ad esempio, perchò una cosa solo pensata vale meno di una esistente. Così facendo, Kant smonta la prova anselmiana e mostra che i 100 talleri, sia che esistano sia che non esistano, hanno la stessa essenza. L’esistenza ò invece qualcosa che si aggiunge dall’esterno, ò la posizione (l’essere posto) di qualcosa: esiste ciò che ò dato o può essere dato nell’esperienza di qualcuno: l’essenza di libro non cambia a seconda che il libro esista o meno, e posso dire che il libro esiste perchò mi ò dato all’esperienza (visiva, tattile, etc. ). Ne consegue che all’esistenza di qualcosa si arriva sempre dall’esperienza, mai dall’essenza, e quindi Anselmo ha sbagliato credendo di poter dimostrare l’esistenza di Dio partendo dalla sua essenza. In L’unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio, Kant, smontata la prova ontologica, spiega che vi ò un solo argomento per dimostrare l’esistenza di Dio, e tale argomento si basa appunto sull’esperienza: si tratta della dimostrazione (‘del principio di ragion sufficiente’) data a suo tempo da Leibniz. Non vi ò nulla che avvenga senza un motivo: ne consegue che si deve trovare un qualcosa che si spieghi da solo, che sia motivo di se stesso e che faccia derivare da sò tutto il resto: si tratta di Dio. Successivamente Kant rifiuterà  quest’argomentazione, ma manterrà  valida la critica alla prova di Anselmo, spiegando anzi, nella Critica della ragion pura, che tutte le prove dell’esistenza di Dio sono riconducibili alla prova di Anselmo; ma se essa ò falsa, anche tutte le altre (che da essa derivano) lo sono. In effetti la prova della dimostrazione dell’esistenza di Dio addotta da Kant in quest’opera ò molto discutibile, e lui stesso se ne rende conto, a tal punto che, sul finale dell’opera sull’unico argomento possibile, troviamo scritto: ‘ se ò necessario convincersi dell’esistenza di Dio, non ò altrettanto necessario che la si dimostri ‘. Nel 1770 Kant pubblica un’opera di fondamentale importanza nel suo percorso filosofico: si tratta della Dissertazione del 1770 sulla forma e i princìpi del mondo visibile e intellegibile: l’importanza di questo scritto risiede nel fatto che esso segna il periodo di transizione da fase precritica a fase critica; dopo averla pubblicata, Kant non scriverà  più nulla di significativo per 11 anni: egli sente l’esigenza di riflettere prima di pubblicare qualcosa di davvero importante. Possediamo delle lettere kantiane risalenti a quel periodo in cui il pensatore tedesco spiega di essere impegnato nella preparazione di una grande opera, la Critica della ragion pura, che comporrà , nel 1781, in due soli mesi. Dalle lettere, ò interessante notare, emerge che Kant aveva pensato a realizzare un’unica opera in cui illustrare i concetti che invece poi inserirà  in due opere distinte, la Critica della ragion pura (dedicata alla gnoseologia) e la Critica della ragion pratica (dedicata alla praticità ). Nelle lettere Kant non accenna minimamente a quella che sarà  la terza grande critica, la Critica del giudizio (dedicata all’estetica): non riteneva infatti l’estetica suscettibile di trattazione critica. Esiste poi un Opus postumum, una raccolta di riflessioni kantiane pubblicate postume, in cui emergono alcune sfumature del suo pensiero, in particolare a riguardo di quella che Kant chiamerà  la ‘cosa in sò’: in questi scritti essa tenderà  a subire delle modificazioni. Tornando alla Dissertazione del 1770, quel che emerge in essa e che sarà  presente, seppur in modo diverso, nel periodo critico ò la distinzione tra fenomeno e noumeno. Fenomeno (dal greco fainomenon, ciò che appare ) ò ciò che appare, ò l’oggetto dell’esperienza sensibile, mentre noumeno (dal greco noumenon ciò che ò pensato ) ò ciò che viene pensato, il possibile oggetto del pensiero. Questa distinzione rievoca quella operata a suo tempo da Platone tra sensibile e intellegibile, anche se in realtà , per Platone, si trattava di una distinzione tra due diversi oggetti del pensiero (una cosa era il cavallo, un’altra l’idea di cavallo e altra cosa era conoscere la prima rispetto alla seconda: si poteva conoscere una realtà  a livello sensibile o pensandola con l’intelletto), per il Kant della Dissertazione, invece, si tratta di due livelli graduali: prima conosco la cosa come appare (conoscenza fenomenica), poi come effettivamente ò (conoscenza noumenica). Ed ò solo la conoscenza intellettuale (noumenica) che mi fa vedere come la cosa ò realmente. In un secondo tempo, Kant introdurrà  il concetto di ‘cosa in sò’ come sinonimo di noumeno: parla di cosa in sò perchò si tratta della cosa non in riferimento alla mia attività  conoscitiva, ma slegata, a sò stante. Tuttavia la differenza lampante tra il Kant della Dissertazione e quello della Critica della ragion pura sta nel fatto che nel 1770 egli, influenzato dal platonismo, ò pienamente convinto della conoscibilità  della cosa in sò, mentre nel periodo critico la dichiarerà  inconoscibile. E’ ben evidente che la posizione kantiana nella Dissertazione ò diametralmente opposta a quella assunta ne I sogni di un visionario, dove intendeva la metafisica come un puro vaneggiamento: nella Dissertazione Kant dice invece che posso vedere le cose come mi appaiono, ma, platonicamente, posso anche coglierne col pensiero l’essenza stessa (la cosa in sò). Il Kant della Ragion pura, invece, proclamerà  l’inconoscibilità  della cosa in sò asserendo che la nostra conoscenza si ferma al fenomenico. Esaminando la Dissertazione, però, ò interessante notare che Kant, imbevuto di platonismo, introduce l’idea che la forma della conoscenza fenomenica sono lo spazio (per il mondo esterno: tutto quel che ò fuori di me, lo percepisco nello spazio) e il tempo (per il mondo interiore: la successione dei miei stati interni). Qui Kant concepisce lo spazio e il tempo in maniera differente rispetto alle nozioni leibniziane e newtoniane, spiegando che essi non hanno esistenza oggettiva (come pretendeva Leibniz) e non sono assoluti, indipendenti dalle cose in essi immerse e dai soggetti conoscenti (come voleva Newton): per Kant spazio e tempo sono realtà  soggettive, che non appartengono agli oggetti e al noumeno, ma al nostro modo di conoscere gli oggetti e al fenomeno. Essi appartengono dunque alle forme della conoscenza sensibile (fenomenica), fanno parte non della natura delle cose in sò, ma della natura del nostro modo di percepire: percepiamo, infatti, le cose nello spazio e nel tempo. Ma dobbiamo prestare attenzione a non farci ingannare dal linguaggio kantiano: egli per oggettivo intende sì qualcosa di opposto al soggettivo, un qualcosa che non dipende dal soggetto ma ò a sò stante (il noumeno), tuttavia in Kant il termine ‘oggettivo’ ò spesso sinonimo di ‘universale’: ad esempio, spazio e tempo sono soggettivi, nel senso che non appartengono alle cose come sono in sò, ma alle cose come appaiono a noi; detto questo, però, Kant dice anche che la nostra conoscenza delle cose nello spazio e nel tempo ò oggettive, ha cioò valenza universale, vale per tutti i soggetti umani. Dire che la conoscenza fenomenica ò oggettiva sembra un paradosso, perchò il fenomenico ò soggettivo, non attinge la cosa oggettivamente come ò in sò: però, avendo tutti gli uomini la stessa struttura mentale, allora conoscono le cose, sostanzialmente, tutti nella stessa maniera, che non ò oggettiva nel senso che attingono la cosa in sò, ma ò oggettiva nel senso che tutti la percepiscono fenomenicamente allo stesso modo: quando, ad esempio, parlo della penna, nessuno può cogliere il noumeno, ma dicendo ‘la penna ò qui’ tutti mi capiscono perchò hanno le mie stesse strutture mentali. Così si spiega dunque perchò per Kant la conoscenza fenomenica ò oggettiva (universale), grazie al fatto di essere soggettiva: avendo tutti noi gli stessi strumenti per conoscere le cose in modo soggettivo (nello spazio e nel tempo), si tratta però di una conoscenza universale, cioò oggettiva; il che ci permette di comunicare. Protagora diceva che l’ uomo è misura di tutte le cose e questa espressione può anche significare che l’ uomo in quanto tale (il genere umano) conosce le cose come gli appaiono e non può fare altrimenti. Ora, quest’ interpretazione rispecchia molto bene il pensiero di Kant: il genere umano conosce le cose come appaiono (fenomenicamente), ossia ciascuno le conosce soggettivamente, come appaiono a lui; ma tuti gli altri uomini, dotati delle stesse strutture mentali, le conoscono soggettivamente allo stesso modo: si tratta allora di una conoscenza soggettiva (fenomenica: basata sull’apparenza), ma oggettiva (universale, uguale per tutti gli uomini). Ad accomunare Protagora e Kant ò poi il fatto che per entrambe l’uomo può conoscere (e non può fare altrimenti) le cose come gli appaiono, quasi come se avesse davanti agli occhi delle lenti colorate non rimuovibili che gli fanno vedere il mondo in un determinato modo. Tuttavia, il Kant della Dissertazione ò pienamente convinto che si possa conoscere anche il noumeno, accanto al fenomeno: vale a dire, che se la conoscenza fenomenica avviene attraverso il filtro dello spazio e del tempo e ci fa vedere le cose non come sono, ma come appaiono, tuttavia esiste la conoscenza noumenica, che ci fa cogliere le cose in sò, come oggetti del pensiero. Nella Critica della ragion pura, invece, spiegherà  che ò conoscibile solo il fenomeno e che in realtà , mentre lo spazio vale solo per il mondo esterno, il tempo, invece, oltre a valere nell’interiorità , vale anche per l’esterno: infatti anche le percezioni esterne diventano qualcosa di interiore a me (quando vedo un libro blu, ò una sensazione di qualcosa di esterno, ma come sensazione ò interna, perchò il blu entra nella mia testa, nel mio interno: e qui regna il tempo). Sempre nella Critica della ragion pura, Kant spiega che non si possono conoscere le cose in sò, ma le si possono comunque pensare: penso alla penna conosciuta fenomenicamente, la percepisco e la inquadro intellettualmente: rifletto sul fatto che al di là  della penna c’ò la penna in sò, da cui derivano tutti gli elementi sensibili, e sebbene io possa pensarla, tuttavia non posso conoscerla, perchò dovrei avere un concetto privo di contenuto della penna, senza relazioni con altre cose: dovrei avere il noumeno. La critica della ragion pura Nella Dissertazione, dunque, (e qui sta la differenza rispetto alla Critica della ragion pura) vi ò una netta contrapposizione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale, sebbene si tratti comunque di due diversi modi di conoscere il medesimo oggetto: esso viene conosciuto fenomenicamente sotto il profilo dell’apparenza, filtrato cioò dallo spazio e dal tempo (che non appartengono alle cose in sò, ma appartengono alle cose come fenomeni). Tuttavia, essendo spazio e tempo uguali per tutti gli uomini, tutti vedono le cose nella medesima maniera, in modo oggettivo (ossia universale). Tuttavia la posizione del Kant della dissertazione si riveste di ambiguità  nel momento in cui prospetta la conoscenza della cosa in sò, del noumeno, che sarà  invece respinta nella Critica della ragion pura. Per il Kant del periodo critico, conoscere sarà  pensare, sì, ma pensare qualcosa di dato dall’esperienza: dove non c’ò esperienza non c’ò conoscenza. Pare del resto evidente che una cosa, per essere pensata e conosciuta, deve prima essere percepita empiricamente; tuttavia l’esperienza non basta, non c’ò conoscenza senza il pensiero: raccolti i dati sensibili, essi devono essere riorganizzati dall’intelletto. Ecco dunque che quei due diversi livelli conoscitivi (intellettuale e sensibile) vengono per così dire ricompattati: nò l’esperienza nò il pensiero, da soli, danno la conoscenza; per pervenire ad essa sono necessari i dati sensibili e l’intelletto che li riorganizzi. Ecco perchò ‘ senza l’intelletto la nostra conoscenza sarebbe cieca e senza l’esperienza sarebbe vuota ‘. Kant non riconosce più, nel periodo critico, una netta distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale perchò ciascuno di questi due pezzi, se non abbinato all’altro, ò inutile. La conoscenza che deriva dall’organizzazione dei dati sensibili da parte dell’intelletto resta comunque fenomenica (mai noumenica), in quanto l’intelletto non ò più una fonte autonoma di conoscenza (come era nella Dissertazione); tuttavia la nozione di conoscenza fenomenica assume ora una diversa coloritura: essa implica la collaborazione tra sensi, impiegati nella raccolta dati empirici, ed intelletto, impiegato nell’organizzazione di tali dati; ne consegue che pensare significa unificare, ossia riorganizzare i dati dell’esperienza con l’intelletto. Tuttavia Kant si avvede che non ò solo la sensibilità  ad avere le sue forme (spazio e tempo), come invece credeva ai tempi della Dissertazione: anche l’intelletto organizza il materiale sensibile attraverso delle forme, che Kant chiama categorie; ecco dunque che nella conoscenza fenomenica opera anche l’intelletto, la cui competenza, invece, nella Dissertazione era riservata esclusivamente alla conoscenza noumenica. Questo non toglie che la conoscenza resti fenomenica, e anche se la cosa in sò posso pensarla, non per questo posso conoscerla. Il contenuto della cosa in sò, però, spiega Kant, è vuoto ed inaccessibile. Tutti questi concetti, pilastri del suo sistema filosofico, Kant li illustra nella Critica della ragion pura (1781), il suo capolavoro, con la cui pubblicazione prende il via il periodo critico. Esso viene così definito per via dei titoli delle tre grandi opere che lo caratterizzano (le 3 critiche, della ragion pura, della ragion pratica e del giudizio); in origine, però, la terza critica (quella del giudizio) non era prevista, e le prime due dovevano avere un titolo diverso da quello con cui ci sono giunte: si sarebbero infatti dovute intitolare Critica della ragion pura teoretica e Critica della ragion pura pratica. Bisogna ora spendere due parole sul motivo di questi titoli, in cui compare il termine ‘critica’ che dà  appunto il nome a questa seconda fase del pensiero kantiano. Il termine ‘critica’ si riconduce inevitabilmente al vocabolario della temperie culturale allora in atto, l’illuminismo, il quale tendeva appunto ad avere con la ragione un approccio critico: la ragione per gli illuministi ò l’unico baluardo conoscitivo a disposizione dell’uomo, ed ò però uno strumento che presenta degli evidenti limiti. Per evitare che la ragione compia passi, per così dire, più lunghi della gamba e rischi di impelagarsi in questioni che non può risolvere nò le competono, ò opportuno giudicare (in greco krinw vuol appunto dire giudicare: da qui l’aggettivo ‘critico’) sulle sue facoltà  e sui suoi limiti. L’assillante quesito volto a scoprire che cosa possa conoscere la ragione e fin dove possa spingersi ò presente a partire dalle opere seicentesche (il Novum organum di Bacone, il Discorso sul metodo di Cartesio, il SAggio sull’intelletto umano di Locke) e trova nel Kant della Ragion pura la massima espressione. Egli sostiene che la filosofia debba rispondere a tre quesiti: 1 ) che cosa posso sapere? (e Kant risponde a questa domanda nella Critica della ragion pura ), 2 )che cosa posso fare? (e Kant risponde nella Critica della ragion pratica ), 3 ) cosa posso sperare? (e risponde in ambedue le opere appena citate, sostenendo che ò legittimo sperare nell’esistenza di Dio e nell’immortalità  dell’anima). Occorre dunque avere un approccio critico con la ragione, giudicandone i limiti ed i difetti: ecco allora che Kant istituisce un vero e proprio tribunale della ragione, dove la ragione è allo stesso tempo imputato e giudice: imputato nel senso che si indaga su quali siano i suoi limiti e il suo campo di applicabilità , giudice nel senso che è proprio lei che indaga e giudica se stessa. In tribunale però non si discutono solo le questioni di fatto, ma anche quelle di diritto: dopo aver spiegato che l’imputato ha agito in quel determinato modo, occorre chiedersi se egli ne aveva il diritto. Non si tratta dunque di indagare sulla ragione esclusivamente per quel che ha fatto, ma anche se aveva o meno il diritto di farlo. Nelle prime pagine della Critica della ragion pura, Kant riprende le tre domande poc’anzi citate cui ò tenuta a rispondere la filosofia, e le riformula sotto forma di tre sottodomande: a ) come ò possibile una matematica pura? b ) come ò possibile una fisica pura? c ) come ò possibile una metafisica come scienza? Con l’ultimo quesito, il pensatore tedesco si chiede se sia possibile una metafisica come scienza e, nel caso lo sia, come debba funzionare. Con le prime due domande, invece, Kant non si chiede se sia possibile una matematica o una fisica pura (poichò egli non nutriva dubbio alcuno sulla fisica matematizzata di Newton), ma come sia possibile, secondo quali modalità . Che siano scienze ‘possibili’, del resto, lo dimostrano i grandi risultati a cui esse hanno portato: Kant dà  quindi per scontato che siano possibili e passa direttamente a chiedersi come lo siano. Sarà  poi nell’ Ottocento e nel Novecento che la fisica e la matematica verranno messe in discussione e nasceranno le geometrie non euclidee. Per quel che riguarda la metafisica, anche in virtù dei dubbi sollevati da Hume, occorre invece chiedersi in primis se essa sia possibile, e, in caso affermativo, come lo sia. Alla domanda se sia possibile una metafisica come scienza Kant fornisce una risposta articolata e, per molti versi, ambigua, spiegando che la metafisica ò un impulso innato nella natura umana: tale natura non si accontenta delle cose fisiche, ma ha bisogno di andare al di là  di esse. Kant descrive quest’atteggiamento proprio dell’uomo servendosi di un’immagine: come quando in riva al mare vediamo all’orizzonte la distesa marina più in alto rispetto a quanto non sia, e pur sapendo che si tratta di un’illusione ottica, non per questo smettiamo di vederla più in alto, allo stesso modo sappiamo che la metafisica ò una fantasticheria, ma non per questo cessiamo di cedere ad essa, presi da un impulso innato nella nostra natura. Kant quindi riconosce che l’uomo, per sua inclinazione naturale, tende alla metafisica, e vede questa tendenza come positiva; ciononostante, la ragione deve vigilare e deve fare in modo che questa tendenza ad andare al di là  del mondo fisico non degeneri in una pretesa. Ma la questione inerente alla metafisica come scienza non si risolve qui: se intendiamo la metafisica in senso letterario come un oltrepassamento delle cose fisiche, allora essa non ò possibile come scienza; ma il termine ‘metafisica’ può anche avere un significato più sfumato e se alla parola conferiamo questo significato, allora una metafisica come scienza ò possibile. Sembra dunque che Kant sia il grande distruttore della metafisica (specialmente quando nega ogni possibilità  di conoscere la cosa in sò), come Robespierre lo era del regime in vigore prima della Rivoluzione francese, ma in realtà  il pensatore tedesco può anche essere considerato come il rifondatore della metafisica, colui il quale le diede fondamenti validi smantellando quelli vacillanti su cui fino ad allora era poggiata. Aristotele aveva inteso la metafisica (che lui chiamava ‘filosofia prima’) con una duplice valenza: in primis, per metafisica intendeva lo studio delle cose che stanno al di là  del mondo fisico, al di là  del mondo fenomenico avrebbe detto Kant (e il filosofo tedesco boccia l’ipotesi che una metafisica di questo genere possa essere una scienza), in secundis, però, metafisica era anche lo studio delle caratteristiche generali dell’essere (l’ontologia). Ecco allora che l’idea di una metafisica come scienza delle strutture generali dell’essere non va scartata, se però non la intendiamo come studio delle strutture dell’essere in sò (poichò il noumeno ò inconoscibile), ma come studio delle caratteristiche dell’essere che appare a noi, fenomenicamente. Viene rifiutata, dunque, da Kant la metafisica come scienza delle leggi dell’essere in sò, ma viene accettata come scienza dello studio delle leggi dell’essere fenomenico, così come ci appare: del resto le leggi della realtà  così come ci appare siamo noi a stabilirle, non nel senso che decidiamo noi come vada il mondo, ma nel senso che le leggi generali del funzionamento della realtà  empirica come ci appare derivano dal nostro modo di concepire la realtà . Sì, perchò il nostro approccio con la realtà  ò soggettivo, in quanto filtrato dalle forme dell’intelletto e dei sensi, ma ò oggettivo nel senso che ò comune a tutti gli uomini: proprio in virtù di questa oggettività , esistono leggi generalissime della realtà  riconosciute da tutti gli uomini, quale ad esempio la causalità : l’idea di fondo che nel mondo esistano rapporti di causa ed effetto rigidamente determinati, per cui ogni fenomeno ò causato da un altro fenomeno ed ò a sua volta causa di un terzo fenomeno. Queste legge generalissime derivano, secondo Kant, dal nostro modo di conoscere la realtà : come lo spazio e il tempo sono le forme della sensibilità , così le categorie sono le forme dell’intelletto. Proprio la causalità  ò una delle 12 categorie riconosciute dal pensatore tedesco ed ò uno dei modi in cui l’intelletto inquadra ed organizza il materiale sensibile ricevuto filtrato dal tempo e dallo spazio. Se la causalità  e le altre categorie non riguardano il mondo come ò in sò, ma come ci appare, allora vuol dire che siamo in grado di descrivere un insieme di leggi generali che regolano il mondo: ne consegue che possiamo descrivere le strutture generali dell’essere fenomenico (e non noumenico, che resta inconoscibile), anzi, le possiamo conoscere con la massima certezza perchò abbiamo imposto noi tali leggi: Kant dirà  che le possiamo conoscere a priori, ossia prima e indipendentemente dall’esperienza, perchò non ci derivano dall’esperienza, ma sono le leggi stesse che il nostro intelletto impone all’esperienza. Ogni cosa la pensiamo attraverso le 12 categorie (le strutture dell’intelletto) e la percepiamo attraverso lo spazio e il tempo: dunque il mondo che ci circonda ò l’insieme del materiale derivatoci dall’esperienza (e che a sua volta deriva dalla cosa in sò, pensabile ma non conoscibile) e filtrato dallo spazio e dal tempo, poi riorganizzato attraverso le 12 categorie: ecco che così abbiamo quel che ci sta intorno. Il mondo quindi sarà  costituito da un materiale (le sensazioni, i sensi, ecc) e dalle forme della sensibilità  (spazio e tempo) e dell’intelletto (le 12 categorie), che però gli abbiamo dato noi. Quando parliamo di leggi generali della realtà , quindi, non ci riferiamo al materiale della conoscenza, ma alla forma, perchò esse sono la forma della conoscenza: ò evidente che la legge di causalità  (una delle svariate leggi dell’essere) ò una delle forme in cui inquadriamo il materiale, il quale esula dalle leggi generali dell’essere. Ne consegue che, essendo le leggi generali della realtà  leggi della realtà  come appare a noi, allora le leggi dell’essere fenomenico ci sono perfettamente conoscibili, proprio perchò sono le leggi generalissime che imponiamo alla realtà  fenomenica a priori, prima e indipendentemente dalla realtà : ad esempio, ancor prima di entrare in una stanza vuota sappiamo a priori, senza sperimentarlo, che qualsiasi cosa che eventualmente troveremo sarà  nello spazio, così come, messa per la prima volta una pentola piena d’acqua sul fuoco, a priori sappiamo che l’accensione della fiamma sarà  la causa di qualcosa perchò il principio di causalità  ci dice a priori che ogni cosa ne causa un’altra; solo a posteriori (dopo averlo sperimentato) però potremo effettivamente sapere che cosa causi la fiamma accessa sotto la pentola, ma a priori potevamo già  dire che qualcosa l’avrebbe causato (perchò a monte rispetto all’esperienza sappiamo già  che il mondo ò un insieme di rapporti di causa ed effetto): lo scienziato, del resto, non si chiede se succederà  qualcosa (perchò lo sa a priori), ma cosa succederà . Ecco quindi che Kant affronta le tematiche su cui si era arrovellato Hume: come si fa a tirar fuori la causalità  dall’esperienza? Per Hume non era possibile: il fatto che ci siamo bruciati ogni volta che abbiam messo la mano sul fuoco, non permetteva secondo Hume di tirar fuori la causalità , perchò in fondo non c’ò nulla che ci garantisca che ci bruceremo di nuovo quando metteremo la mano sul fuoco: il nostro concetto di causalità  si basa, secondo il pensatore scozzese, sull’abitudine, ossia sull’essere certi che A causa B perchò ogni volta che abbiam visto A, abbiamo visto anche B. Kant dà  ragione a Hume: il concetto di causalità  non lo possiamo tirar fuori dall’esperienza; la causalità  l’abbiamo per Kant già  nella testa, ha dimensione innatistica: quale effetto deriverà  da quella causa lo possiamo solo sapere dall’esperienza, ma che ci sarà  una causa lo so a priori. Non ò quindi il fatto che io veda due cose in rapporto di causa ed effetto che mi dà  il concetto di causalità , ma ò il fatto che io abbia insito in me il concetto di causalità  che mi rende possibile l’esperienza, cioò il vedere le due cose in rapporto di causalità : concettualmente, prima c’ò il concetto di causalità , poi l’esperienza. E, in questo capovolgimento del discorso di Hume, Kant dà  per l’ennesima volta ragione a Newton: riprendendo l’immagine della stanza buia, prima c’ò lo spazio, e poi, eventualmente, le cose immerse in esso: lo spazio ò assoluto, a priori. Però per Kant non esiste oggettivamente lo spazio, ò una forma della nostra conoscenza e proprio per questo ò a priori, in quanto dipendente dalle forme sensibili soggettive. Ritornando alla questione di partenza, la metafisica (intesa non come scienza delle cose al di là  del mondo fisico, ma come scienza delle leggi dell’essere) come scienza ò possibile, perchò le strutture della realtà  fenomenica le conosciamo perfettamente, perchò siamo noi a imporle, anzi, paradossalmente, si identificano con la nostra mente e con le sue strutture. Ed ò proprio in virtù di questa identificazione che Kant impiega la parola metafisica con un terzo significato. Pubblicata la prima edizione della Critica della ragion pura (cui ne seguirà  una seconda in cui dissiperà  le perplessità  e i fraintendimenti), scrive una versione semplificata della Ragion pura, intitolata Prolegomeni ad ogni metafisica che vorrà  presentarsi come scienza: se in futuro la metafisica vorrà  ancora presentarsi come scienza, bisogna prima chiarire alcuni cose; così suona il titolo. Fa subito capire che Kant non ò distruttore della metafisica, ma anzi, ha un rapporto privilegiato con essa; egli si ò sempre dichiarato innamorato della metafisica, e non vuole abbandonarla: per alcuni versi, come abbiamo visto, riesce anche a renderla possibile come scienza delle strutture generali della realtà  (purchò sia del fenomeno). Kant arriva a definire metafisica l’indagine che lui sta conducendo, l’indagine preliminare sulle strutture della mente umana: sì, perchò se la metafisica come scienza delle leggi generali della realtà  ò possibile e tali leggi coincidono con la nostra mente (la realtà  fenomenica ò come la pensiamo), cioò le leggi della realtà  sono le leggi del pensiero, ne consegue che possiamo designare col nome di metafisica anche l’analisi che noi facciamo delle strutture delle leggi del pensiero (proprio perchò esse coincidono con le leggi generali della realtà  fenomenica, che chiamiamo appunto ‘metafisica’). Nella Critica della ragion pura Kant fa un uso frequentissimo dell’aggettivo trascendentale, di matrice Scolastica; egli dice: ‘ chiamo trascendentale quella conoscenza che non si occupa degli oggetti in sò, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto questo modo deve essere possibile a priori. L’indagine non verte dunque sugli oggetti, ma sul modo in cui noi li conosciamo, proprio in quanto questo modo deve essere possibile a priori. E’ la premessa e condizione di fondo perchò l’esperienza rigorosa si possa fare: debbo già  avere il concetto di causalità  per poterci costruire un’esperienza che sia rigorosa, sulla scia della scienza newtoniana. Ma dato che dall’esperienza non può derivarmi il concetto di causalità  (come ha acutamente notato Hume), esso può derivarmi solo dall’ammissione di forme a priori in cui inquadrare l’esperienza: ò solo ammettendo che esista nella struttura della mia mente il concetto di causalità  che l’esperienza del mondo potrà  essere rigorosa. Kant impiega il termine trascendentale, da un lato, per definire l’indagine da lui svolta sulle forme a priori della conoscenza e tutte le partizioni della Critica della ragion pura (estetica trascendentale, logica trascendentale, dialettica trascendentale), ma, dall’altro lato, per aggettivare le forme stesse della conoscenza. Usa però diverse espressioni per designare le forme della conoscenza: spesso le definisce ‘pure’, perchò analizzate in sò in quanto pure, depurate dall’esperienza, senza materiale sensibile all’interno: per intenderci, una cosa ò lo spazio in quanto tale, un’altra cosa ò lo spazio riempito di oggetti; una cosa ò sapere che c’ò la causalità , un’altra ò la causalità  applicata all’esperienza, al fuoco e alla pentola: e si intitola Critica della ragion pura in questo senso, cioò come giudizio sulla ragione depurata dall’esperienza). Altre volte Kant le definisce ‘a priori’ le forme, esse sono cioò condizioni che vengono prima dell’esperienza. Infine, e qui arriviamo al dunque, le chiama trascendentali: con questo termine egli intende una via di mezzo tra il trascendente platonico (le idee) e l’immanente aristotelico (le forme); da notare, però, che Kant impiega termini tipici della metafisica (materia, forma) in ambito gnoseologico, proprio in quanto concepisce la conoscenza come una costruzione che necessita di materia (i dati sensibili) e di forma (le 12 categorie più lo spazio e il tempo). Il termine trascendentale viene quindi adoperato nella sfera gnoseologica: Kant si chiede se le forme della conoscenza siano immanenti o trascendenti, se derivino dall’esperienza e se ad essa siano applicabili o se siano trascendenti e applicabili a qualcosa al di là  dell’esperienza, e risponde che esse sono trascendentali, ovvero non derivano dall’esperienza, ma contemporaneamente non si può dire che siano legittimamente applicabili al di là  dell’esperienza: non possono trascendere l’esperienza, ma non derivano da essa. Fin dalle prime pagine della Critica della ragion pura Kant prova ad individuare quale sia la domanda cui ò tenuta a rispondere la ragion pura ed esamina, in termini generali, la risposta a tale quesito. Arriva alla conclusione che le varie domande che si era posto (sono possibili una matematica pura, una fisica pura e una metafisica, come scienze? ) sono sintetizzabili in un solo interrogativo: come sono possibili dei giudizi sintetici a priori? Kant ravvisa infatti tre diversi tipi di giudizio: i giudizi analitici a priori (quelli che Hume e Leibniz avevano chiamato, rispettivamente, ‘relazioni tra idee’ e ‘verità  di ragione’): sono giudizi analitici a priori quelli in cui si cerca di far emergere il predicato tramite un’analisi (ossia una scomposizione) dei concetti del soggetto; la sentenza ‘il triangolo ha 3 lati’ ò un giudizio analitico a priori, in quanto ò implicito nel concetto di triangolo il fatto di avere tre lati: nel dire che il triangolo ha 3 lati non si aggiunge qualcosa al soggetto, anzi, lo si estrae da esso. Vengono detti analitici perchò implicano un’analisi tutta interna al concetto del soggetto, e a priori perchò non derivano nò dipendono dall’esperienza, ma sono veri ancor prima di essa. E il fatto di essere a priori ne garantisce, secondo Kant, la necessità  e l’universalità . Hume aveva a suo tempo insistito (e Kant gli dà  ragione) che dall’esperienza in quanto tale, la necessità  non viene mai fuori: sulle esperienze posso fare affermazioni, ma tali affermazioni non avranno mai carattere di assoluta necessità : dire che il fuoco causa il bruciore della mano posta su esso, ò frutto dell’esperienza, ma non c’ò nulla, a rigor di logica, che mi garantisca che la prossima volta che metterò la mano sul fuoco proverò bruciore; ò solo un fatto di esperienza, nel senso che ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi sono bruciato, e dunque, sono convinto (per abitudine) che rimettendola, mi brucerò di nuovo. Da ciò che deriva dall’esperienza io non riesco ad avere oggettività , universalità  e necessità . Gli analitici a priori hanno una loro oggettività  (dire che il triangolo ha 3 lati ò assolutamente corretto, universale e necessario) proprio perchò a priori. Accanto agli analitici a priori ci sono i giudizi sintetici a posteriori (che Hume e Leibniz avevano chiamato, rispettivamente, ‘materie di fatto’ e ‘verità  di fatto’) che altro non sono se non i giudizi dell’esperienza. Sono detti a posteriori perchò vengono dopo l’esperienza, e sintetici perchò aggiungono qualcosa al concetto del soggetto. Kant si avvale di un’efficace immagine per illustrarli: i corpi. Se dire che un corpo occupa dello spazio ò un giudizio analitico a priori perchò lo evinco dall’analisi del concetto del soggetto stesso (il corpo) senza bisogno di far uso dell’esperienza (perchò ò già  contenuto nel concetto stesso di corpo), dire che un corpo ò pesante ò un giudizio sintetico a posteriore perchò non rientra nel concetto di corpo l’avere un peso ma deriva, a posteriori, dall’esperienza attraverso la sintesi, cioò attraverso la costruzione di qualcosa di nuovo intorno al soggetto (il corpo). Infine Kant introduce i giudizi sintetici a priori (assenti in Hume e Leibniz) per far fronte all’aporia in cui era incappato Hume: il pensatore scozzese, infatti, si era accorto che nò i giudizi analitici a priori nò quelli sintetici a posteriori sono sufficienti. Sì, perchò gli analitici a priori sono assolutamente certi, ma assolutamente tautologici, non dicono cioò nulla di nuovo, che non fosse già  presente nel soggetto; i sintetici a posteriori, invece, arricchiscono la nostra conoscenza perchò, tramite l’esperienza, ci dicono qualcosa di nuovo, che in partenza non era presente nel soggetto, ma hanno il difetto di non fornire assoluta oggettività , universalità  e necessità . A questo punto, fatta crollare la metafisica, Hume si fermava perchò non riusciva a proseguire; Kant invece vuole andare avanti e si dimostra meno critico del previsto. Egli infatti accetta come scontata la validità  oggettiva della scienza newtoniana e, in particolare, della conoscenza umana: non si chiede nemmeno se siano possibili aa matematica, la fisica e la conoscenza umana, ma si chiede direttamente come, in che modo, siano possibili, convinto che possibili lo siano. In altri termini, Kant ò certo che sia possibile una scienza assoluta e proprio per questo non si accontenta di quanto ha detto Hume, il quale era pervenuto alla conclusione che la sostanza e la causalità  fossero indimostrabili razionalmente e si basassero su una convinzione psicologica dettata dall’abitudine. La domanda kantiana ‘come ò possibile la conoscenza umana? ‘ implica un’ulteriore domanda, ‘come sono possibili giudizi sintetici a priori? ‘: sì, perchò solo con gli analitici a priori e coi sintetici a posteriori non c’ò via d’uscita, si ha una conoscenza certa ma tautologica con i primi, e una conoscenza ricca ma non assoluta coi secondi. E Kant vuole invece una conoscenza ricca e varia, ed ecco che tira in ballo i giudizi sintetici a priori, l’unione dei due precedenti giudizi. Del resto la scienza di Newton, di cui Kant si professa strenuo difensore, ha la pretesa di essere costituita da giudizi allo stesso tempo sintetici e a priori, perchò pretende di costruire (con l’abbinamento di esperienza ed inquadramento razionale della medesima) una scienza che contemporaneamente arricchisca di conoscenze nuove e che le fornisca non in termini probabilistici (come era per Hume), ma oggettivi, necessari e universali, validi sempre e per chiunque. In Hume questa esigenza di una conoscenza certa era assente perchò gli analitici a priori davano una conoscenza certa ma tautologica, mentre i sintetici a posteriori ne davano una ricca ma incerta: la certezza della conoscenza nel pensatore scozzese era meramente psicologica, basata sull’abitudine (ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi son bruciato, quindi in base a questa ‘abitudine’ sono convinto che se la rimetto mi ribrucio), ed esulava del tutto dalla razionalità . E proprio la razionalità  della conoscenza ò l’obiettivo cui mira Kant: la certezza della conoscenza non deve solo essere psicologica (basata sull’abitudine), ma fondata in modo preciso. Ne consegue che i giudizi che fanno davvero la scienza devono per forza essere, al tempo stesso, sintetici (devono dirmi qualcosa di nuovo) e a priori (non derivati dall’esperienza, ma ad essa precedenti, puri, non soggetti ad essere confermati e smentiti il giorno dopo). D’altronde Hume sbagliava agli occhi di Kant già  nel ritenere che i giudizi matematici fossero analitici, mere relazioni tra idee, del tutto tautologici: per Hume svolgere un’espressione algebrica voleva dire prendere il concetto, analizzarlo, ed estrarne le conseguenze, con l’ovvio risultato che l’intera matematica finiva per essere nient’altro che un’enorme tautologia. Per Kant, invece, i giudizi matematici sono inevitabilmente sintetici: quando mi trovo di fronte all’espressione 7+5=12 non ò vero che analizzo i concetti di 7 e di 5 e ne estraggo il 12 come relazione tra idee; al contrario, 7+5 ò un materiale di lavoro, un’indicazione dell’operazione che devo svolgere. Ne ò un fulgido esempio il fatto che i bambini contino servendosi di oggetti materiali, come ad esempio le palline: le raggruppano e le affiancano una alla volta e, una volta sommate, ottengono il risultato. Ed ò quello che, secondo Kant, facciamo anche noi mentalmente. Ora, ò evidente che un’operazione di questo genere non rientra nell’ambito delle relazioni tra idee, dei giudizi analitici a priori. Si tratta di un’operazione sintetica, di costruzione (e non di analisi), ma nessuno si sognerebbe per questo di considerarla a posteriori, come derivata solo e soltanto dall’esperienza, sebbene si usino materialmente delle palline: ciascuno di noi considera le verità  matematiche del tipo 7+5=12 come assolutamente certe, e le certezze (come visto) derivano dagli analitici a priori. Del resto le verità  matematiche non possono derivare dall’esperienza, nò tantomeno essere da essa smentite: se un prestigiatore infila prima 7 e poi 5 palline in un recipiente e, mostrandoci il contenuto, non vediamo 12 palline, abbiamo la certezza che c’ò stato un trucco, nessuno penserebbe mai che possano essere più o meno di 12. Questo vuol dire che se anche l’esperienza ci fa vedere che 5+7 non dà  12, noi continuiamo ad essere certi che 7+5 dia 12; tutto questo dimostra l’a-priorità  (sono giudizi certi, non derivati nò sconfessabili dall’esperienza) e la sinteticità  (sono giudizi costruiti nel corso della dimostrazione). E’ dunque possibile una matematica pura, certa, razionale che funziona in base ai giudizi sintetici a priori; ma ò possibile anche una fisica pura, basata sui giudizi sintetici a priori? Kant dice di sì e lo dimostra avvalendosi del principio della causalità . Esso consiste nel sapere che ogni fatto ò causato da un altro fatto, ed ò lui stesso causa di un altro: Hume aveva detto che tale principio non era un giudizio nò analitico a priori (nel concetto di causa non ò insito quello di effetto) nò sintetico a posteriori (se, messa la mano sul fuoco, mi brucio una o due volte non ve la metterò più, per via di una certezza psicologica, derivata dall’abitudine che ogni volta che ho mes

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