Storia dell'astronomia - Studentville

Storia dell'astronomia

Storia dell'astronomia: dagli albori fino alla stazione spaziale internazionale.

L’astronomia è molto probabilmente la più antica delle scienze, che ha contribuito più di ogni altra all’evoluzione del pensiero. Essa nacque a seguito delle necessità della vita quotidiana (misura del tempo, navigazione, agricoltura, ecc.) e del forte interesse da parte dell’uomo per i grandi fenomeni naturali L’astronomia è rimasta  strettamente associata  alle credenze e superstizioni astrologiche fino agli inizi dell’età moderna, e in alcuni casi questa associazione persiste ancora.

Gli albori:

E’ impossibile identificare il luogo o il momento preciso della storia, della nascita dell’astronomia; sono diversi infatti, i vari centri di cultura astronomica nel mondo, ognuno dei quali è stato adattato secondo le necessità, agli usi ed i costumi di questa o quella popolazione. Numerosissime sono state le culture che si sono occupate di astronomia: Caldei, Maya, Fenici, Egiziani, Cinesi, Arabi, ed altri che ci hanno lasciato tracce delle loro esperienze astronomiche sviluppate autonomamente.
Essendo l’astronomia in un certo senso la scienza dell’assoluto e dell’infinitamente grande, è stata per millenni associata alla religione ed ai culti mistici; inizialmente non esisteva la figura dell’astronomo come scienziato, questa era rappresentata dal sacerdote che si occupava dello studio dei corpi celesti unicamente per trarne auspici e predizioni per il futuro. Il sacerdote era dunque più un astrologo che un astronomo, tuttavia questi studi concorsero in larga misura all’evoluzione delle ricerche successive, dando un’ulteriore spinta al progresso.

La maggior parte di queste civiltà ha utilizzato le proprie conoscenze astronomiche per il calcolo della misura del tempo, utilizzando il moto apparente del sole, le lunazioni, ed in alcuni casi anche le posizioni dei pianeti. Le popolazioni primitive infatti regolavano la loro giornata in base a calendari con giorni e mesi lunari, definiti dall’intervallo di due noviluni o due pleniluni.
Oltre al calcolo del tempo, uno dei problemi affrontati da questi popoli antichi fu quello dell’orientamento, problema di facile risoluzione calcolando come punti cardinali l’Est come il punto dal quale sorge il Sole e Ovest come punto nel quale tramonta. Il punto cardinale Est veniva da molti considerato sacro proprio in quanto è questa la direzione dal quale il Sole sorge, ed infatti troviamo molte chiese e templi che sono costruiti lungo la linea congiungente l’Est con l’Ovest. Sempre a proposito dell’orientamento ricordiamo l’importanza della costellazione dell’Orsa Maggiore (Ursa Major) e più precisamente dell’asterismo formato dal Grande Carro, utilizzato da sempre dai navigatori per localizzare il Nord, a causa della sua ridotta distanza angolare dalla stella Polare.
Nacque così la necessità di riunire in gruppi le costellazioni per meglio orientarsi attraverso il cielo notturno, (che ricordiamo, non era luminoso come quello di oggi a causa dell’assenza dell’inquinamento luminoso). Alle costellazioni sono stati dati i nomi, prendendoli dai miti e dalle leggende dell’antichità.

Sull’osservazione planetaria non abbiamo molte notizie: l’unico pianeta che viene menzionato abbastanza spesso è Venere, in quanto è il pianeta più luminoso di tutti e la cui magnitudine può arrivare a ben -4,7 m. , risultando quindi il corpo celeste più appariscente dopo il Sole (-26,7 m.) e la Luna (-12,7m.).

Dagli albori l’astronomia vera e propria dovrà dovrà seguire un itinerario lungo, e travagliato da scoperte e “riforme”, fino a conquistare  presso i  popoli culturalmente più evoluti, il titolo di “scienza pura”. La scienza pura è quindi quel complesso di risultati dell’attività speculativa umana volta alla conoscenza di cause, leggi, effetti intorno ad un determinato ordine di fenomeni, e basata sul metodo, lo studio e l’esperienza.

• Caldei ed Ebrei

Abbiamo scarse notizie sui Caldei, un popolo che abitava la Mesopotamia; tuttavia sono state rinvenute alcune tavolette di argilla risalenti al 4000 a.C. che ci fanno supporre che i Caldei altro non fossero che i componenti della casta sacerdotale babilonese, erano quindi a loro affidate la mansioni di osservazione del cielo a scopo soprattutto astrologico e religioso.
I Caldei furono i primi ad effettuare alcune importantissime scoperte, fra le quali il calcolo con una certa approssimazione dei moti diretti e retrogradi dei pianeti, le loro congiunzioni e, soprattutto, furono in grado di calcolare gli istanti delle eclissi di Luna.

L’astronomia babilonese può essere suddivisa in due periodi: il primo che va dal 4000 a.C. fino al 607 a.C. (Catastrofe di Ninive), e quello più recente che arriva più o meno all’ anno 0.
Il primo periodo è anche il più misterioso, benché siamo a conoscenza del fatto che un anno veniva suddiviso in 12 mesi (corrispondenti a 12 lunazioni), ai quali di tanto in tanto veniva aggiunto un tredicesimo mese, quando lo si riteneva necessario per pareggiare i conti. Nel calendario luni-solare ulteriormente suddiviso, si trovavano anche quei brevi periodi che noi chiamiamo settimane. All’epoca (VII sec. a.C) l’istante del tramonto del Sole corrispondeva all’inizio del giorno, quest’ultimo era suddiviso in dodici intervalli chiamati Kaspu.

Il secondo periodo porta con sé una maggiore precisione di calcolo dell’equazione del tempo, grazie alla quale verranno anche migliorate le osservazioni astronomiche, è infatti appartenente a  questo periodo la suddivisione del cerchio in 360°, come conseguenza del percorso del Sole nel cielo, l’eclittica. Questa ed altre scoperte sono da attribuire ai Caldei, fra le quali ricordiamo la prima registrazione di un’eclisse di Luna della storia, risalente al 19 Marzo 721 a.C. Sempre a proposito della Luna, è da attribuirsi ai Caldei la scoperta del cosiddetto “Ciclo di Saros” , un ciclo di 223 lunazioni, secondo la quale, ritornando la Luna, nella stessa posizione rispetto ai suoi nodi, al suo perigeo, e al Sole, si ripetono nello stesso ordine le eclissi dell’anno precedente.

I Caldei effettuarono diverse misurazioni e calcoli sulla posizione posizione dei pianeti relativamente al fondo stellare, studiandone quindi il moto diretto e retrogrado lungo lo Zodiaco, da loro chiamato linea del Sole. I Caldei inoltre attribuivano enorme importanza ai bolidi, alle comete e alle meteore, in quanto di grande interesse astrologico.

Per quanto riguarda il vicino popolo ebraico, non c’è molto da dire, infatti essi furono condizionati a tal punto dalla loro religione monoteistica da cercare di evitare l’uso dell’astronomia, o per lo meno di limitarlo al semplice calcolo del tempo; furono essi che introdussero lo “Shabbat” (sabato) come giorno di festa e riposo, tanto che chi l’avesse trasgredita sarebbe andato incontro a severe sanzioni.

Egitto

Contrariamente a quello babilonese, basato sulla Luna, il calendario egizio era incentrato sul moto del Sole. Già nel 4° millennio a.C.  l’anno era stato suddiviso in 365 giorni: 12 mesi di 30 giorni, più 5 giorni supplementari.
L’inizio dell’anno si faceva coincidere con la levata eliaca di Sirio, che coincideva, a sua volta, con l’inizio delle piene del Nilo. Col tempo, gli Egizi si resero conto che il sorgere eliaco di Sirio ritardava di circa un giorno ogni quattro anni, così che ci sarebbero voluti 1460 anni perché il sorgere eliaco di Sirio, che ritardava sempre più, tornasse a coincidere con l’inizio delle piene.
Più tardi si dedusse l’effettiva durata dell’anno in 365,25 giorni, e nel 238 a.C. si introdusse un giorno supplementare ogni quattro anni.

Maya, Incas e Aztechi

Le popolazioni dell’America Centrale pare abbiano avuto un’evoluzione parallela a quella degli Assiri e dei Babilonesi; i Maya pur non conoscendo la forma ellissoide della Terra, erano già perfettamente in grado di usare lo gnomone e di determinare i momenti degli equinozi e dei solstizi. Molte costruzioni risultano orientate secondo questi punti fondamentali per l’astronomia di posizione. Sicuramente devono aver basato le loro conoscenze sulle loro salde basi matematiche: conoscevano infatti lo zero ed adottavano la numerazione posizionale.

Il ciclico ripetersi dei fenomeni astronomici, aveva assunto un ruolo talmente importante presso queste popolazioni, che il loro calendario si basava esclusivamente su questi; esso utilizzava alternativamente l’anno solare  e l’anno venusiano, determinato dalla rivoluzione intorno al Sole del pianeta (rivoluzione sinodica). Fra l’altro Venere era un pianeta divinizzato, dato che rappresentava una delle loro divinità più importanti: Quetzalcoatl, il serpente piumato. Ovviamente anche il Sole e la Luna erano divinizzati, a tal punto che religione, superstizione e osservazioni astronomiche si fondevano insieme;i Maya conoscevano molto bene e seguivano i moti dei cinque pianeti conosciuti, osservabili ad occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), sapevano inoltre già che la Via Lattea, non è altro che un enorme ammasso di stelle.

Maya, Inca e Aztechi tenevano in particolare considerazione i punti nei quali l’eclittica passava per la Via Lattea, era infatti rispetto a questi punti che venivano stabiliti i tempi dei fenomeni astronomici, soprattutto per quanto riguarda i pianeti.

Grazie ad alcuni ritrovamenti archeologici nella zona di Palenque, in Messico, sembra che i maya avessero adottato già dal 500 a.C. un anno costituito da 365,242 giorni (il valore effettivo è di 365,2422 giorni), questi erano compresi in 18 mesi di 200 giorni ciascuno, più un mese addizionale di soli 5 giorni. Ogni mese possedeva un nome, proprio come oggi, e all’interno di essi i giorni erano contati dallo 0 al 19.

La cosmogonia e le età del mondo

Come in molte altre tradizioni mitologiche e religiose, anche presso gli aztechi esisteva la credenza in una successione di età del mondo, il cui passaggio era segnato da catastrofi e cataclismi; in particolare, gli aztechi credevano che quattro “Soli” o mondi avessero preceduto il mondo attuale. A ciascuno dei primi quattro Soli corrisponde un punto cardinale: rispettivamente, Nord, Ovest, Sud, Est.

Il primo Sole si chiamava Nahui-Ocelotl (“quattro-giaguaro”) e durò un periodo lungo tre volte cinquantadue anni; il mondo era abitato da giganti e venne distrutto dai giaguari, simboli zoomorfi di Tezcatlipoca in quanto dio del freddo e della notte.

Il secondo Sole, Nahui-Ehécatl (“quattro-vento”), si dissolse dopo un periodo di sette volte cinquantadue anni, a causa di un immane uragano, manifestazione di Quetzalcóatl, che trasformò in scimmie tutti i sopravvissuti.

Il terzo Sole, Nahui-Quiahuitl (“quattro-pioggia”), fu distrutto dopo un periodo lungo sei volte cinquantadue anni da una pioggia di fuoco, manifestazione di Tláloc, dio del tuono e del lampo dai denti larghi e dagli occhi enormi, e di Quiahuitl, la pioggia: gli abitanti del mondo erano tutti bambini e quelli che sopravvissero si trasformarono in uccelli.

Il quarto Sole, Nahui-Atl (“quattro-acqua”), ebbe una durata di tre volte cinquantadue anni, dopo di che il mondo fu sommerso da un diluvio, al quale scamparono soltanto un uomo e una donna che si erano rifugiati sotto un enorme cipresso. Tezcatlipoca li punì trasformandoli in cani e mozzando loro la testa.

Il Sole attuale è il quinto, si chiama Nahui-Ollin (“quattro-movimento”) ed è destinato a scomparire per la forza di un movimento o tremore della Terra: in quell’istante appariranno i mostri dell’Ovest, dall’aspetto di scheletri, i quali uccideranno l’intero genere umano, cui hanno dato origine Quetzalcóatl e suo fratello gemello Xolotl riportando in vita le ossa dei morti e nutrendole del proprio sangue. Il Sole attuale era situato al centro rispetto ai precedenti e costituiva il quinto punto cardinale; la sua creazione era attribuita a Huehuetéotl, dio del fuoco: infatti il focolare domestico si trovava al centro della casa.

Questi calcoli così precisi, sono tali che non se ne possono trovare eguali sino all’inizio dell’era moderna, per questo motivo alcuni ne hanno attribuito, in maniera direi piuttosto azzardata, addirittura un’origine extraterrestre. Fra i vari complessi archeologici sono state ritrovate delle strutture che, pare, non potrebbero essere state utilizzate per altro, se non come osservatori astronomici: ad esempio i templi osservatori della città Maya di Uaxacum, dai quali si potevano individuare con opportuni punti di riferimento, i punti dove il Sole sorge e tramonta nei giorni di equinozio e solstizio. La torre Palenque, un vero è proprio osservatorio, dalle cui finestrelle opportunamente posizionate, si potevano scorgere negli istanti in cui sorgevano e tramontavano il Sole, la Luna e Venere. Infine, c’è la costruzione più evidente di tutte: il Caracol a Chice ‘n Itzà, dalla caratteristica forma a cupola di osservatorio astronomico.

I Cinesi

Fra i popoli che annoverano una registrazione dei dati astronomici, i Cinesi detengono sicuramente il primo posto per l’accuratezza di questi; i loro studi sui moti del Sole e della Luna compiuti in un osservatorio fatto costruire dall’imperatore Hoang-Ti, avevano come scopo principale quello di aggiornare e correggere gli attuali calendari.
Quello dell’astronomia in Cina è stato un ruolo di grande rilievo, a causa del fatto che l’imperatore era considerato quasi una divinità. Quest’ultimo quindi nominava gli astronomi della corte imperiale, che erano direttamente responsabili, pena la vita, dell’esattezza delle previsioni e dei calcoli delle eclissi o di altri importanti fenomeni astronomici collegati alla nazione o alla vita dell’imperatore.

Per sottolineare questo legame divino fra l’imperatore e gli avvenimenti celesti, appena veniva nominato un nuovo regnante, alla sua ascesa al trono egli, per prima cosa spostava la sede dell’osservatorio imperiale, ed in seguito modificava anche le regole che costituivano le basi per la compilazione del calendario, lasciando così un segno del proprio passaggio ai posteri.
Come per la maggior parte delle culture finora analizzate, il calendario cinese, era per lo più un calendario luni-solare riveduto e corretto di dinastia in dinastia, anche a causa della non coincidenza delle lunazioni con il movimento del Sole lungo l’eclittica.

Oltre ad osservazioni comuni come il moto di Sole, Luna e pianeti, i Cinesi rivolgevano particolare attenzione nello studio di fenomeni rari e di grande impatto visivo, come le piogge di meteore, il passaggio di una cometa, o ancora più importante l’esplosione di una supernova. I Cinesi registrarono infatti la prima supernova della storia, quella che oggi è diventata la Nebulosa del Granchio, una piccola e piuttosto debole nebulosità che si trova nella costellazione del Toro e classificata parecchio più tardi come M1.

Anche i Cinesi facevano uso delle costellazioni per orientarsi nel cielo notturno, ma come è ovvio immaginarsi, queste erano completamente diverse da quelle occidentali, in primo luogo erano 250 (contro le attuali 88, ufficialmente riconosciute dall’ IAU), in secondo luogo, come è facile immaginarsi, erano molto più piccole (in termini angolari) di quelle da noi conosciute. Una di queste costellazioni è però “sopravvissuta”: quella del Draco, il Dragone, importantissima presso i Cinesi in quanto conteneva precedentemente il polo Nord celeste.

Purtroppo la Cina ebbe scarsi rapporti con l’Europa, soprattutto a causa dell’enorme distanza, che potò queste culture ad incontrarsi ben più tardi; a tale proposito ebbero grande importanza le missioni dei Gesuiti: uno di questi, Padre Ricci,  dal 1600 in poi lavorò a stretto contatto con gli astronomi cinesi divulgando così fra di essi le ultime e più importanti scoperte ed innovazioni occidentali in ambito astronomico (nel 1610 Galileo Galilei stila il Sidereus Nuncius, e comincia ad utilizzare il cannocchiale).

Grazie a padre Ricci, l’astronomia occidentale si diffuse con grande velocità in tutta la Cina, venne perfino indetto un concorso per scoprire chi sarebbe riuscito a prevedere l’eclisse di Sole del 1629 con maggior precisione; la sfida fu vinta dagli occcidentali, così l’imperatore decise di affidare da quel momento in poi la riforma del calendario ai Gesuiti. A testimonianza di questo fatto, ancora oggi presso la disgraziatamente famosa piazza Tienanmen, è presente un osservatorio astronomico dedicato a Matteo Ricci.

I Greci

Parlare di astronomia presso gli antichi Greci vuol dire percorrere alcune delle tappe fondamentali di questa scienza, soprattutto nella costruzione della struttura dell’Universo. Da Talete a Pitagora, da Eudosso ad Ipparco, ecco solo alcuni dei nomi dei più famosi “astronomi” di quel tempo.
I primi fondamenti astronomici greci pare debbano essere fatti risalire al 600 a.C. quando Talete di Mileto, a capo della “scuola ionica”, insegnava sulla sfericità della Terra, sul fatto che la Luna è visibile solo poichè riflette i raggi solari, affermando anche che le stelle del cielo erano fatte di “fuoco”.

Della scuola ionica fece parte anche Anassimandro, che, completando gli studi del predecessore, fu il primo a fare delle osservazioni celesti utilizzando strumenti come lo gnomone (pare da lui stesso inventato).

Intorno al V secolo a.C., nel centro della cultura mondiale di quel tempo, per mano di Pitagora, nasce e si sviluppa la omonima scuola alla quale si attribuiscono le prime idee sui moti, di rotazione e di rivoluzione, della Terra. Un passo importante che pone il nostro pianeta fra i corpi celesti (pianeti) anche se ancora al centro dell’Universo. Di questa scuola era Filolao, che verso la fine V secolo a.C., ipotizza una prima struttura dell’Universo, con un fuoco centrale, ed i pianeti, Sole compreso, ruotanti intorno ad esso. Un sistema quello di Filolao, che resisterà fino a che non verrà sostituito dalle nuove concezioni aristoteliche.

Nel frattempo, però, fra il 429 ed il 347 a.C., appare una figura che lascerà una notevole traccia del suo passaggio: Platone. Tra le allusioni astronomiche ritrovate nei suoi scritti, che sono più che altro a carattere mistico-poetico, si possono ad esempio, rintracciare i primi accenni a epicicli e deferenti, ai moti della Luna e dei pianeti ed alla materia che componeva le stelle. Ecco come il grande filosofo descrive, nel “Timeo”, l’Universo: “…ed Egli (Dio) lo fece tondo e sferico, in modo che vi fosse sempre la medesima distanza fra il centro ed estremità….e gli assegnò un movimento, proprio della sua forma, quello dei sette moti. Dunque fece che esso girasse uniformemente, circolarmente , senza mutare mai di luogo….;e così stabilì questo spazio celeste rotondo e moventesi in rotondo”. Quello di Platone era dunque un sistema geocentrico, a sfere concentriche, che fu in seguito perfezionato da Eudosso e a cui Aristotele, per altro suo discepolo e amico, attingerà in gran parte.

Fu proprio Eudosso da Cnido (409-356 a.C.) che per primo tentò di risolvere, da valente geometra quale era, in modo meccanico il problema dei movimenti irregolari (stazioni e retrogradazioni) dei pianeti. Per tentare di dare risposta alle sue teorie, egli si recò a studiare addirittura in Egitto dove i sacerdoti custodivano una innumerevole serie di cronache su antiche osservazioni celesti. Riuscì nel suo intento, dotando il sistema planetario di una serie di sfere motrici (in tutto 27) le quali contenevano i poli delle sfere dei pianeti, in modo che quest’ultimi potessero muoversi nel cielo indipendentemente gli uni dagli altri e tracciare nel cielo le traiettorie da noi osservate e solo apparentemente irregolari. Il sistema di universo costruito da Eudosso da Cnido e perfezionato da Callippo qualche anno più tardi con l’aggiunta di alcune sfere per Mercurio, Venere, Marte e per la Luna ed il Sole, diede lo spunto al grande Aristotele di parlare di astronomia. Egli, infatti, a dispetto degli anni (quasi 1800) in cui le sue teorie resteranno valide per tutti o quasi, non è da considerare un vero e proprio “astronomo”.

Aristotele aveva diviso il cosmo in due parti: la prima perfetta e incorruttibile, quella oltre alla Luna, costituita da sfere concentriche ove erano incastonati i pianeti e le stelle; l’altra, sublunare, costituita dal mondo caotico e corruttibile, formata da quattro sfere (Terra, Acqua, Aria e Fuoco) in cui l’ordine era solo una tendenza per ogni cosa. Al di là della più esterna di queste sfere concentriche, quelle delle stelle fisse, Aristotele collocava il “motore” di tutto l’Universo che trasmetteva il moto con una serie di sfere di collegamento per un totale di 55. Un sistema questo geocentrico ed incorruttibile, che resisterà per ben 18 secoli, fino cioè alla teoria copernicana.

Prima di Copernico, altri avevano già tentato di ipotizzare un Universo costruito con un sistema eliocentrico, mettendo così la Terra a ruotare intorno al Sole e ponendola quindi fra i pianeti. Fra questi, degni di nota, troviamo Aristarco ed Eraclide facenti parte della scuola alessandrina, che avevano teorizzato non solo un sistema eliocentrico, ma avevano trovato spiegazione al fenomeno delle stagioni, attribuendolo alla diversa inclinazione dell’asse della Terra rispetto allo Zodiaco e quindi rispetto al piano dell’eclittica. Pare inoltre, che avessero già idea della natura stellare del Sole e della distanza infinitamente grande delle stelle.

Un altro “astronomo” della scuola alessandrina degno di nota fu Eratostene, il primo a tentare di calcolare la grandezza della Terra con metodo scientifico, osservando la posizione del Sole nel cielo a diverse latitudini. Famoso rimane l’esperimento compiuto in un giorno di solstizio d’estate, quando misurò la distanza del Sole dallo Zenit dalla città di Alessandria. Sapendo che Syene (la moderna Assuan), in quello stesso istante il Sole era esattamente allo Zenit e conoscendo esattamente la distanza delle due città, riuscì, col calcolo, a trovare la lunghezza del meridiano che le congiungeva, visto che Syene ed Alessandria si trovano quasi alla stessa longitudine. Il valore che ne ricavò fu 250’000 stadi equivalenti a quasi 40’000 chilometri, molto vicino al valore reale. (1 stadio = da 179 a 213 mt)

Il primo vero e proprio astronomo di quel periodo fu però Ipparco di Nicea (194-120 a.C.), scopritore della precessione degli equinozi. Confrontando le sue osservazioni con quelle dei suoi predecessori egli scoprì degli spostamenti di lieve entità che potevano essere rilevati solo con osservazioni fatte a distanza di molto tempo le une dalle altre e che espose nella sua celebre opera “Spostamenti dei punti dei solstizi e degli equinozi”.

Di notevole importanza anche il suo “Nuovo catalogo stellare” ove erano catalogate oltre 1000 stelle, con le coordinate corrette per la precessione e suddivise in sei classi (grandezze) a seconda della loro luminosità. Ipparco fu spinto alla compilazione di questo catalogo dall’apparizione di una “stella nuova” nel 134 a.C. per meglio valutare eventuali nuove apparizioni.

Le osservazioni astronomiche fatte da Ipparco allo scopo di determinare l’entità della precessione, lo portarono a determinare anche le lievi differenze fra anno siderale (misurato col transito delle stelle al meridiano) ed anno tropico (misurato col passaggio del Sole nel punto equinoziale di primavera). Per quel che riguarda i pianeti, Ipparco, cercò di determinare, con la maggiore precisione possibile, i loro tempi di rivoluzione, senza peraltro costruire un vero e proprio sistema. Negli anni che seguirono la morte di Ipparco non vi è da registrare alcun progresso di una certa rilevanza nelle scienze astronomiche, né nomi di una certa rilevanza.

Per ritrovare persone interessate alla materia bisogna arrivare a Tolomeo (circa 150 d.C.). Claudio Tolomeo, nato ad Alessandria d’Egitto, fu l’ultimo rappresentante dell’antica astronomia greca. Visse nel II secolo d.C. e, secondo la tradizione, svolse la sua attività di astronomo nei pressi della sua città natale. Il merito principale di Tolomeo fu quello di aver raccolto tutto lo scibile astronomico, qual’era ai suoi tempi, dopo i grandi progressi dovuti ad Ipparco, e, coordinato ed arricchito con le sue esperienze, di averlo esposto nella sua opera principale, l’Almagesto.
Il titolo originale di quest’opera, che è rimasta come testo fondamentale astronomico fino a tutto il Medioevo, era “Grande composizione” che tradotto in arabo fa “Al Magistri”, da cui il titolo a noi conosciuto “Almagesto”. In esso Tolomeo aveva esposto un sistema del mondo, noto come sistema tolemaico anche se non si trattava completamente di farina del suo sacco, che poneva la Terra al centro dell’universo ed i pianeti, compresi il Sole e la Luna, ruotanti intorno ad essa col sistema degli epicicli e dei deferenti. In questo sistema Tolomeo negava anche la rotazione della Terra intorno al proprio asse, essendo il movimento diurno proprio della sfera celeste.

Nell’Almagesto, prima di avere a che fare col suddetto sistema, a dimostrare la compiutezza dell’opera, il lettore si viene a trovare davanti a dei capitoli che trattano di coordinate celesti, di trigonometria piana e sferica, di dimensioni della Terra, di eclissi di Sole e di Luna, di strumenti di osservazione e, a completamento, di un catalogo completo delle posizioni di ben 1022 stelle.
L’Amagesto di Tolomeo, venne definito, per parecchi secoli come “il Libro” dell’astronomia. Questo perché i metodi matematici e geometrici di cui Tolomeo si serve nella sua opera lo fecero preferire alle opere simili di quel tempo. Inoltre, per la sua completezza, ebbe una rapida ed ampia diffusione. L’Almagesto fu tradotto infatti una prima volta in latino da Boetius (traduzione mai giunta a noi). Più importante invece la traduzione in arabo, per ordine del califfo Al Manum nell’827 d.C., traduzione che si diffuse in Europa e che fu ritradotta in latino, assai prima che si scoprisse l’originale in greco (1438), a Napoli nel 1230.

Per tornare al sistema costruito da Tolomeo ed esposto negli ultimi cinque libri, o capitoli, dell’Almagesto, bisogna riconoscere che si tratta di un sistema piuttosto complesso, che però risponde con una buona approssimazione alle posizioni dedotte col calcolo matematico. Le irregolarità dei moti dei pianeti, del Sole e della Luna erano facilmente spiegabili mettendo la Terra non esattamente al centro delle orbite planetarie, ma leggermente decentrata. Era in tal modo evidente che a questo fatto era possibile anche attribuire la diversa velocità del Sole nel cielo e soprattutto, l’alternarsi delle stagioni.

Di questo sistema Dante Alighieri fece l’impalcatura de “La Divina Commedia” Ma non solo. Esso continuò ad essere insegnato nelle scuole del tempo anche dopo le innovazioni di Copernico, Keplero e Galileo fin quasi ai primi del Settecento.
Oltre all’Almagesto è doveroso, per completare il curriculum delle opere di Tolomeo dedicate all’astronomia, citare anzitutto l'”Ottica” (di cui rimane solo una traduzione latina eseguita da tale ammiraglio siciliano Eugenio), il “Planisfero” e il “Tetrabiblo“, opera in cui è esaltato il valore assoluto dell’astronomia, in confronto a quello dell’astrologia. Celebre è anche la sua “Geografia” che fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche rimase la fonte principale di questa disciplina.

Con Tolomeo finisce la storia dell’astronomia greca fatta di poche osservazioni, ma arricchita dalla matematica e dalla geometria che assumeranno una sempre maggiore importanza nell’aiutare questa scienza a progredire ed a perfezionarsi.

Latini e Romani

La maggior parte degli studiosi è concorde nel sostenere che i Romani ebbero un ruolo molto limitato nella storia dell’ astronomia antica: essi non apportarono nulla di nuovo in questo campo e le poche cose che conoscevano a riguardo erano state tramandate dai Greci. E’ emblematico il fatto che soltanto due costellazioni furono battezzate dai Romani: il Thronus Caesaris, attestato da Plinio il Vecchio, che ne fissa l’individuazione in età augustea, e la più famosa Antinoo, dal nome del giovinetto amato da Adriano. Inoltre non si manifestò mai a Roma una cultura astronomica autonoma e non si scorge in ambito latino la figura di un astronomo professionista o di uno scienziato che si occupi esclusivamente di tematiche celesti.

Se effettivamente i Romani non hanno dimostrato una particolare originalità in questo campo, ciò, tuttavia, non vuol dire che furono totalmente indifferenti a queste tematiche; numerose, anzi, sono le digressioni astronomiche presenti nelle opere letterarie e le opere dedicate a questo tema. Sebbene sia esistito un rapporto tra i Romani ed il cielo prima dell’ avvento della civiltà greca, è tuttavia dalla Grecia che derivano le opere che costituiscono le fonti principali della conoscenza astronomica dei Romani. La più importante, ed anche la più tradotta ed imitata fu un adattamento versificato di un trattato astronomico di Eudosso di Cnido: i FAINOMENA di Arato. Questa opera fu tradotta da Cicerone, Ovidio, Germanico, Avieno, venne tenuta presente da Igino, Vitruvio, Manilio e presa in considerazione da molti altri letterati.

L’opera di Arato ben si addiceva allo spirito pragmatico della cultura latina: il suo scopo preciso, infatti, era quello di aiutare, attraverso la conoscenza del cielo, i contadini ed i naviganti. Ecco la spiegazione della sua enorme e sorprendente fortuna presso i Romani. Altra opera che esercitò una durevole influenza sulla cultura astronomica latina fu la raccolta di catasterismi attribuita ad Eratostene di Cirene. L’ opera, che rientra nell’ ambito della letteratura eziologica, è una sorta di enciclopedia che raccoglie tutti i miti che hanno dato origine al nome delle costellazioni, e si occupa, quindi, del tema del catasterismo, termine connesso con il verbo greco katasteriazw (colloco tra le stelle). Molti gli autori latini che avevano ben presente l’ opera di Eratostene: Nigidio Figulo, Igino, Ovidio ed anche Germanico ed Avieno, traduttori latini dell’ opera di Arato. La tematica del catasterismo venne utilizzata a Roma soprattutto per scopi politico-ideologici, a partire dalla metà del I secolo d.C. Tale sviluppo è documentato dalla grande fioritura, in questo periodo, di scritti di astronomia e dalla presenza, in opere non direttamente connesse allo studio del cielo, di numerosi riferimenti a questa disciplina.In un’ epoca di così rilevante “espansionismo astrologico”, si assiste, secondo una caratteristica tipica dei Romani, ad un’ utilizzazione in chiave politica delle “cose del cielo”. E’ però con l’ instaurazione del principato che le tematiche astronomiche e astrologiche, ed in particolar modo l’ uso politico del catasterismo, assumono particolare importanza. Infatti l’ apoteosi del principe tende a configurarsi anche come divinizzazione astrale. Astronomia e astrologia nelle opere latine Per una rassegna di autori ed opere latine che si occupano di tematiche celesti, è necessario partire dal III secolo a.C., prendendo in considerazione Plauto.

Nel prologo di una delle sue numerose commedie, Rudens 1-5, egli affida l’ esposizione dell’ antefatto ad una stella: Arturo. E’ chiaro che se Plauto mise in scena una stella, il suo pubblico era in grado di comprenderne il significato. In un’ altra commedia di Plauto, Amphitruo 271-276, sono presenti altri riferimenti di carattere astronomico, relativi alla descrizione della notte d’amore – che si prolunga nel tempo con gli astri che interrompono il loro corso – di Giove, trasformato in Anfitrione, con Alcmena. Quasi contemporaneo di Plauto fu Ennio (239-169 a.C.), autore degli Annales. In Ennio, per la verità, vi sono pochi riferimenti agli astri, ma ciò è dovuto principalmente allo stato frammentario in cui ci è giunta la sua opera. Il solo cenno interessante alle tematiche celesti, presente negli Annales, è la descrizione di un’ eclisse di sole, importante soprattutto perchè testimonia il fatto che Ennio seguì molto da vicino, nella composizione della sua opera, gli Annales Pontificum. Ruolo determinante in questo campo, invece, spetta a Cicerone, che compone tra l’ 89 e l’ 86 a.C. gli Aratea, traduzione dei fainovmena di Arato. E’ proprio a partire da questo trattato del giovane autore di Arpino che numerosi termini astronomici cominceranno a trovare posto nell’ ambito della lingua letteraria latina.

Nel corso della sua lunga e folgorante carriera, Cicerone avrà sempre presente queste tematiche celesti su cui tornerà anche in opere successive: nel Somnium Scipionis, nella traduzione del Timeo di Platone e nel De divinatione, dove attaccherà l’ astrologia. Attorno alla metà del I secolo a.C. è da collocare il De Rerum Natura di Lucrezio. Per la tematica che stiamo trattando è interessante l’ excursus astronomico presente nel V libro di questo poema didascalico, in cui Lucrezio espone le ipotesi cosmologiche degli Epicurei. Nello stesso periodo è da citare Catullo: nel ciclo dei suoi Carmina docta è compreso anche un componimento, il carme 66, che è un omaggio al poeta principe dell’ alessandrinismo, Callimaco. Si tratta della traduzione in versi latini di un’ elegia famosa del poeta greco, che pare occupasse la parte finale del IV libro degli Aitia, nota come Chioma di Berenice. Questa vicenda rappresenta, in età ellenistica, l’ esempio meglio conosciuto di catasterismo elaborato con finalità ideologiche. Citiamo ancora, tra i vari autori, Nigidio Figulo, che scrisse una Sphaera Graecanica e una Sphaera Barbarica, relative rispettivamente alla descrizione delle costellazioni greche e di quelle egiziane e forse babilonesi; quindi Giulio Cesare, cui fu attribuita un’ opera astronomica, il de astris, strettamente connessa alla riforma del calendario. Molti riferimenti alle tematiche astronomiche sono presenti nelle opere di Varrone: ricordiamo il de re rustica, opera di agricoltura, ma con immancabile riferimento agli astri per la presenza di un calendario con fasi stellari; i disciplinarum libri in cui si interessa a numerosi aspetti della scienza celeste. Sempre a Varrone fu attribuita la composizione di un’opera intitolata Ephemeris navalis, dedicata a Pompeo in partenza per la Spagna per combattere Serorio, in cui, probabilmente, si occupava di orientamento attraverso le stelle. Con l’ inizio dell’ età augustea si apre un secolo aureo di autori e di opere con riferimenti astronomici. Lo stesso Augusto utilizzava i temi celesti per fini propagandistici; l’ imperatore Tiberio venne definito da Svetonio addictus mathematicae, dove il termine mathematica è un prestito diretto dal greco e individua specificamente l’ astrologia.

Sotto il regno di Augusto emerge la personalità di Virgilio: numerosi sono i riferimenti a queste tematiche nelle sue opere, soprattutto nelle Georgiche. Sappiamo che Virgilio, per le tematiche celesti, si rifece in modo particolare ad Arato, del quale ripropone nella sezione astro-meteorologica delle georgiche numerosi dati tratto dai Prognostica. Arato, come abbiamo già detto, influenzò molti autori latini: oltre al già citato Cicerone, ricordiamo, nell’ epoca fra Augusto e Tiberio: Igino, Manilio, che tra l’altro fu il primo ad esporre in versi latini le dottrine astrologiche, Germanico e, successivamente, intorno al 360 d.C., Avieno, per arrivare ad una traduzione anonima dei Phaenomena da collocare nel VII secolo d.C.

Tornando all’ età augustea non si può fare a meno di parlare di Ovidio, che nei Fasti ci parla delle fasi stellari che caratterizzano ogni singolo mese. Inoltre, nelle Metamorfosi alcune delle trasformazioni prese in considerazione sono di carattere astrale. In questa rassegna va menzionato anche Vitruvio: il IX libro del suo trattato De architectura è un vero e proprio compendio di contenuto astronomico; finalizzato a fornire le nozioni essenziali per l’orientamento degli edifici. In età neroniana citiamo l’opera di Columella sull’agricoltura, che presenta un calendario astro-metereologico. Importanti riferimenti si riscontrano anche nell’ opera di Calpurnio Siculo e soprattutto nelle naturales quaestiones di Seneca. Nello stesso periodo è da collocare anche l’ opera di Lucano, il Bellum civile, in cui risulta chiaro che l’interesse di Lucano per le tematiche celesti, evidenziato in modo particolare dai versi del I libro, dedicati alla previsione astrologica di Nigidio Figulo, e dalla descrizione del futuro catasterismo di Nerone, è probabilmente dovuto anche alla forte influenza che l’ opera di Seneca esercitò su di lui. Si interessò di astronomia anche Plinio il Vecchio nella sua opera enciclopedica Naturalis historia, il cui II libro è dedicato alla cosmologia e il XVIII presenta un calendario astro-metereologico che riproduce fedelmente i Fasti di Giulio Cesare. Persino Quintiliano, nel I libro dell’Institutio oratoria, in cui sta delineando la figura del grammaticus nel campo specifico dell’ interpretazione dei testi poetici, dice che per svolgere al meglio questa attività è necessaria la conoscenza della musica, della matematica e dell’astronomia. Nel IV riscontriamo riferimenti a “cose celesti” nell’ opera di Firmico Materno, Mathesis. In questo secolo si colloca il nuovo adattamento da parte di Avieno dell’ opera di Arato e, infine, nei secoli IV e V appartengono i Saturnales e il Commentario al somnium Scipionis di Macrobio.

La conquista della Luna

Le osservazioni telescopiche del nostro satellite, condotte tra il XIX e il XX secolo, portarono a una conoscenza piuttosto dettagliata della sua faccia visibile. L’emisfero nascosto, fino ad allora inosservato, venne fotografato per la prima volta nell’ottobre del 1959 dalla sonda sovietica Lunik III. Le immagini mostrarono che esso è simile a quello visibile, eccetto per il fatto che non vi sono mari, e che i crateri coprono l’intera superficie lunare, variando in dimensione da giganteschi a microscopici. Le fotografie scattate negli anni 1964 e 1965 dalle sonde statunitensi Rangers 7, 8 e 9 e Orbiters 1 e 2 confermarono queste osservazioni. La Luna ha complessivamente circa tremila miliardi di crateri con diametro maggiore di 1 m.

Negli anni Sessanta, le missioni delle sonde statunitensi Surveyor e di quelle sovietiche Lunik consentirono la misura diretta delle proprietà fisiche e chimiche del nostro satellite. Nel luglio 1969, durante l’allunaggio dell’Apollo 11, vennero scattate migliaia di fotografie e prelevati campioni del suolo lunare. Gli astronauti dell’Apollo installarono sofisticati strumenti per misurare le condizioni di temperatura e di pressione, per determinare il flusso di calore proveniente dall’interno del corpo del satellite e per analizzare le molecole e gli ioni che giungono sulla sua superficie. Furono raccolti e inviati a Terra anche dati sul campo magnetico e gravitazionale della Luna, sull’entità delle vibrazioni sismiche della superficie prodotte dai cosiddetti lunamoti (i “terremoti” lunari) e sull’effetto degli impatti di meteoriti. Infine, per mezzo di fasci laser, venne misurata con grande precisione la distanza Terra-Luna.

Dalla misura dell’età delle rocce lunari, si scoprì che la Luna ha circa 4,6 miliardi di anni, cioè più o meno la stessa età della Terra e presumibilmente del resto del sistema solare. Le rocce dei mari lunari si formarono per solidificazione di rocce fuse tra 3,16 e 3,96 miliardi di anni fa. Sono simili ai basalti terrestri, un tipo di roccia vulcanica estremamente diffuso sul nostro pianeta. Gli altipiani lunari (o continenti), invece, si formarono probabilmente da un tipo di roccia ignea meno densa, detta anortite, che consiste quasi interamente di un minerale chiamato plagioclasio. Altri importanti campioni lunari comprendono i vetri, le brecce (complessi miscugli di frammenti di roccia tenuti insieme dall’effetto del calore o della pressione) e le regoliti (sottili frammenti di roccia prodotti miliardi di anni fa dal bombardamento di meteoriti).

Il campo magnetico della Luna è meno intenso ed esteso di quello terrestre. Alcune rocce lunari sono debolmente magnetiche e ciò indica che esse si solidificarono in presenza di un campo magnetico più intenso di quello attuale. Le misure suggeriscono che la temperatura interna della Luna raggiunga i 1600 °C, un valore che supera il punto di fusione della maggior parte delle rocce lunari. L’evidenza sperimentale di eventi sismici lascia pensare, inoltre, che alcune zone vicine al centro del satellite possano essere composte da materiali allo stato liquido.

I sismografi installati sulla superficie lunare hanno registrato segnali che indicano l’impatto di 70/150 meteoriti con masse comprese tra 100 g e 1000 kg ogni anno. La Luna è ancora bombardata dallo spazio, benché meno intensamente che nel passato e ciò può rappresentare un problema per l’eventuale installazione di basi permanenti sul suo suolo. La superficie lunare è coperta da uno strato di pietrisco che, nelle regioni dei mari, è probabilmente profondo parecchi chilometri. Si pensa che anch’esso si sia formato per l’impatto di meteoriti.

L’atmosfera della Luna è meno densa del miglior vuoto ottenibile nei laboratori. Tutti e sei gli equipaggi che approdarono sul suolo lunare (durante le missioni Apollo 11, 12, 14, 15, 16 e 17) riportarono a Terra campioni di rocce, per un peso complessivo di 384 kg. Solo nell’ultima missione, quella dell’Apollo 17, vi era a bordo un geologo, H.H. Schmitt. Egli trascorse 22 ore esplorando la regione della valle Taurus-Littrow, e percorse 35 km con un fuoristrada. L’analisi accurata dei dati e delle rocce ricavati dalle missioni lunari continua ancora oggi.

L’I.S.S.: la stazione spaziale internazionale

L’assemblaggio dell’International Space Station, è iniziata verso la fine del 1998. Durante il suo assemblaggio, e i suoi 10 anni di servizio già previsti, l’ISS servirà come piattaforma per gli Stati Uniti e per i partners internazionali  (ESA, CSA, NASDA) al fine di effettuare esperimenti in orbita, con i vantaggi della microgravità. Questi esperimenti sono volti alla semplificazione e allo studio di una futura stazione spaziale sulla Luna, con i relativi moduli di sopravvivenza dove l’uomo potrà vivere, sarà quindi una vera e propria colonizzazione della Luna. Gli esperimenti consisteranno quindi nello studio della vita nello spazio, scienze della Terra, e infine ma non meno importanti ricerche di ingegneria e sullo sviluppo di prodotti commerciali.
Tutte queste attività serviranno a meglio comprendere i processi basilari biologici, chimici e fisici che influenzano la nostra vita di tutti i giorni, la Terra, l’esplorazione della spazio, ed il nostro ancor più fondamentale concetto di Universo.
L’utilizzo dell’ISS per creare le conoscenze e le tecnologie, è un’impresa che richiede non soltanto la costruzione di un laboratorio sicuro ed attuabile, ma necessita inoltre che gli utenti dell’ISS forniscano il miglior complemento della ricerca e del carico utile di tecnologia possibile per i voli sull’ISS.
Gli utenti dell’ISS comprendono tutti i membri delle diverse comunità scientifiche, ingegneristiche, tecniche e organizzazioni commerciali ed individuali, i cui obbiettivi potranno giovare all’utilizzo dell’ISS.

Storia dell’ISS

Nello “State of the Union Messagge Congress”, del Gennaio del 1984, il presidente degli Stati Uniti Ronald Raegan, stabilì ufficialmente l’obbiettivo di sviluppare una stazione spaziale orbitale abitata permanentemente. Furono inviatati Canada, Europa e Giappone per entrare a far parte della realizzazione dell’impresa; l’accordo con l’Agenzia Spaziale Canadese (CSA) e l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), fu raggiunto nel Settembre 1988, e con il governo giapponese nel Marzo del 1989. Una relazione cooperativa si espanse rapidamente nel volo spaziale fra gli U.S.A. e la Russia risultando in diversi accordi che portarono alla fine la Russia nel programma della Stazione Spaziale Internazionale nel Dicembre del 1993. L’aggiunta della Russia l progetto ha comportato diverse modifiche che ora sono parte della configurazione dell’ISS.
Oggi la struttura del programma ISS come impresa cooperativa internazionale è basata su di un accordo multilaterale intergovernativo, e sull’accordo bilaterale detto “Memoranda of Understanding”, stipulato fra la NASA e le agenzie spaziali partner internazionali (IP) che rappresentano questi governi.
La struttura organizzativa, che è stata chiaramente esposta, specifica che ognuna delle IP contribuirà nella costruzione di certe strutture dati, e avrà certe responsabilità all’interno di una struttura nella quale gli Stati Uniti hanno un’amministrazione dirigente, e ruoli di integrazione.
A rendere difficile la situazione è la possibilità di “barattare” accordi bilaterali, nei quali i due partner ridurranno a “trade based”, ossia al semplice scambio e sfruttamento commerciale, le loro rispettive abilità.
Nonostante il programma ISS abbia parecchi aspetti simili a quelli dei grandi test dei laboratori di ingegneria, nei quali ad un ricercatore potrebbero essere familiari i suoi stessi campi di ricerca, ci sono alcuni aspetti che lo rendono unico. Diversamente da un acceleratore di particelle, o da un telescopio multi-utente (come l’Hubble Space Telescope), l’ISS è stata progettata per completare un buon numero di obbiettivi nell’area dell’esplorazione e delle relazioni internazionali,e  far crescere gli obbiettivi della della ricerca stessa.

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