Vita e filosofia di Anselmo da Aosta - Studentville

Vita e filosofia di Anselmo da Aosta

Vita e pensiero del filosofo Anselmo da Aosta.

Introduzione al pensiero Difensore di una ricerca tenente conto della fede, ma non per questo sbarazzantesi della ragione, Anselmo (nato ad Aosta nel 1033) entrò nell’abbazia benedettina di Bec in Normandia, dove era abate Lanfranco di Pavia, e nel 1066 divenne monaco. Successe poi a Lanfranco dapprima nella carica di abate, nel 1078, e, nel 1093, in quella di arcivescovo di Canterbury. Qui si trovò a dover difendere le prerogative e l’ autonomia della Chiesa contro i sovrani normanni d’ Inghilterra, sino alla sua morte avvenuta nel 1109. Verso il 1076 compose il Monologio, cioò soliloquio, da lui considerato “un esempio di meditazione” sulle ragioni della fede. Nei due anni successivi scrisse il Proslogio, cioò colloquio, intitolato anche (con espressione agostiniana) “Fides quaerens intellectum” (la fede alla ricerca di intendimento): ò importante il fatto che Anselmo parli di intelletto e non di ragione, poichè il primo ò uno strumento intuitivo, mentre la seconda ò, piuttosto, un’arma discorsiva. Dopo che il monaco dell’ abbazia di Marmoutier, Gaunilone, intervenne nella discussione sul problema dell’ esistenza di Dio, affrontato da Anselmo nel Proslogio, con un “Libro in difesa dell’insipiente”, Anselmo compose un “Libro apologetico contro Gaunilone”. Altri scritti di epoca probabilmente successiva sono: “Sulla verità “, “Sulla libertà  di arbitrio”, “Sul grammatico”, “Sulla concordia della scienza e della predestinazione”. Verso la fine della sua vita Anselmo compose il “Perchò Dio si è fatto uomo”. Anselmo ò uno dei pochi pensatori dell’età  medioevale che lasci note personali alle proprie opere, alle quali era legato da un attaccamento quasi museale (addirittura suddivide egli stesso i suoi scritti in capitoli). E’ originario di Aosta, ma ben presto si spinge fino in Borgogna, dove riceve notizie dell’abate del Bec (piccolo paese nell’attuale Normandia), Lanfranco di Pavia (anch’egli italiano), e decide di trasferirsi colà . Improvvisamente Lanfranco ò richiamato da Guglielmo il conquistatore, che lo vuole vescovo di Canterbury: sarà  Anselmo a prendere il suo posto una volta che Lanfranco morirà , rivelando però (a differenza di Lanfranco) una personalità  schiva e avversa ai compromessi e, in forza di ciò, entrerà  in conflitto col re d’ Inghilterra, che arriverà  ad esiliarlo (il papa interverrà  in merito solo tiepidamente). L’intera produzione anselmiana risale tuttavia al suo soggiorno nel Bec, quando il filosofo aostano era immerso nella quiete del monastero. Gli interessi di Anselmo orbitano soprattutto (ma non solo) intorno alla questione dell’esistenza di Dio, ch’egli prova a dimostrare percorrendo due diverse vie: la prima – intrapresa nel Monologion – ò quella che sarà  detta “a posteriori”, poichè parte dagli effetti, ossia dagli enti che popolano il mondo sensibile e cadono continuamente sotto i nostri sensi, per risalire a ciò che li ha causati (Dio). Nel Proslogion, invece, egli imbocca una strada alternativa, radicalmente nuova rispetto a tutta la tradizione occidentale: si tratta della celebre “prova ontologica”, con la quale Anselmo dimostra l’esistenza di Dio lavorando esclusivamente sul concetto stesso di Dio. Pur dichiarando egli di partire da null’altro all’infuori della ragione, il punto di partenza di Anselmo è la fede nella verità  rivelata da Dio e contenuta nelle Sacre Scritture: ad esse, che costituiscono l’auctoritas per eccellenza, si affiancano gli insegnamenti dei Padri della Chiesa. Il programma di Anselmo è compendiabile nel detto credo ut intelligam (“credo per comprendere”), il suo intento è di approfondire le ragioni (intelligere) che sono presenti nei contenuti della fede, nella misura in cui ciò è possibile nella condizione terrena. La comprensione, però, non è veramente possibile se non si ha la fede; ragione e fede non sono dunque due ambiti separati o addirittura contrastanti, nò esiste una distinzione fra teologia e filosofia. Nel Monologio, Anselmo dice di scrivere su richiesta dei suoi confratelli quanto egli aveva esposto oralmente sull’ esistenza di Dio, allo scopo di offrirlo come esempio alla loro meditazione. Egli non intende però avvalersi di un procedimento che faccia ricorso all’ autorità  delle Scritture e dei Padri; vuole invece convincere mediante argomenti razionali, accessibili a tutti. O meglio, egli intende mostrare come può arrivare a Dio anche chi ancora ignora, o perchò non ascolta la parola di Dio o perchò non crede. Scrive dunque un monologo, fatto di argomenti cogenti, come preliminare alla meditazione. L’ obiettivo del Monologio è, infatti, quello di mostrare che esiste una natura somma, più alta di tutte le cose esistenti, eternamente beata e autosufficiente, la quale dà  l’ essere a tutte le altre cose, rendendole buone in virtù della propria bontà . A tale scopo, Anselmo ricorre ad alcune argomentazioni, che hanno in comune il fatto dalla considerazione delle cose del mondo. Questo tipo di dimostrazioni saranno poi dette ” a posteriori “, in quanto procedono dagli effetti che vengono dopo ( le cose sensibili create ) per risalire alla loro causa ( Dio ). Il nocciolo di esse è che il mondo sensibile costituisce un ordine gerarchico di beni e di perfezioni, ma questi beni e perfezioni sono tali in virtù di un bene e di una perfezione, che non dipende a sua volta da altro: esso è il sommo bene e la somma perfezione. Il presupposto di questi ragionamenti è platonico: tutte le cose buone sono tali in quanto partecipano del bene e a causa del bene. Con la ragione si è dunque arrivati a dimostrare che esiste una natura superiore a tutte le altre, la quale non ha nulla sopra di sè: questa natura somma ha nome ” Dio “. Si è così propriamente dimostrato non tanto che Dio esiste, quanto che esiste una natura somma, alla quale si può dare il nome ” Dio “. La nozione di Dio non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo: è il predicato che, a conclusione, viene attribuito al soggetto, che è la natura somma o sommo bene, per dirla alla Platone. Nel Proslogio Anselmo si chiede se sia possibile trovare un unico argomento, capace di dimostrare da solo che Dio esiste ed è il Sommo Bene. Diversamente dal Monologio, ora Dio è all’ inizio dell’ indagine il cui punto di partenza è la nozione di Dio che si ha grazie alla fede. L’ obiettivo diventa ora propriamente ” comprendere ciò che Dio crede “, ossia fides quarens intellectum. Il discorso assume la forma di un dialogo con lo stolto ( insipiens ), di cui si parla in uno dei Salmi e che in cuor suo dice che Dio non esiste. Insipiente qui significa stolto in quanto nega l’ esistenza di Dio, non in quanto non intende la parole o non coglie il significato delle definizioni o la cogenza di un’ argomentazione. Ma prima di procedere nel colloquio con l’ insipiente, Anselmo assume un punto di partenza di chiara impronta agostiniana: la preghiera a Dio per ottenere il suo aiuto e la sua illuminazione e poter comprendere che egli esiste. E’ la fede infatti che fa credere che Dio, a cui Anselmo rivolge la sua preghiera, è ” qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore “. Anche l’ insipiente, che dice dentro di sò che Dio non esiste, comprende ciò che sente, ossia questa definizione o questo appellativo di Dio; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli comprende che esiste anche nella realtà . Anche l’ insipiente dunque è convinto che almeno nell’ intelletto esiste il concetto di qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore. Ma ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può esistere solo nell’ intelletto. Prende di qui avvio la confutazione dell’ insipiente, ossia quella che sarà  detta in seguito prova ontologica dell’ esistenza di Dio (e che sarà  smontata in età  illuministica da Kant, per poi essere ripresa come valida da Hegel). La sua caratteristica è di partire non dalla considerazione delle cose del mondo, bensì dalla sola nozione di Dio; in questo senso sarà  anche detta a priori. Essa procede per via indiretta, ossia assumendo per vera la tesi dell’ avversario. Ammettiamo, come fa l’ insipiente, che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista solo nell’ intelletto. Sempre rimanendo all’ interno dell’ intelletto, è possibile pensare che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista anche nella realtà , oltre che nell’ intelletto, e che pertanto esso, esistendo anche nella realtà , sia maggiore di ciò che esiste solamente nell’ intelletto. Ma è contraddittorio che di una stessa cosa si possa pensare qualcosa di maggiore e, al tempo stesso, nulla di maggiore: tale è appunto la nozione dell’ insipiente che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esiste solo nell’ intelletto; di essa infatti si è potuto pensare qualcosa di maggiore. Se non si vuole cadere in questa contraddizione, occorre allora riconoscere che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esiste, oltre che nell’ intelletto, anche nella realtà . La dimostrazione di Anselmo assume implicitamente, senza dimostrarle, alcune premesse come evidenti di per sò. In primo luogo, assume che l’ insipiente che nega l’ esistenza di Dio sia in grado di comprendere la nozione di qualcosa di cui non si può pensare nulla di maggiore; altra assunzione è che ciò che si comprende esiste nell’ intelletto; e infine che ciò che esiste nell’ intelletto e nella realtà  è maggiore di ciò che esiste solo nell’ intelletto. In una certa misura, quest’ ultima assunzione si collega alla dottrina dei gradi di perfezione, già  utilizzata nel Monologio. La prova di Anselmo sarà  sovente discussa, accettata o criticata nella storia della filosofia, ma il primo a tentare di confutarla fu il monaco Gaunilone nel suo Libro in difesa dell’ insipiente. Secondo Gaunilone non è detto che l’ insipiente, per il solo fatto di udire la parola di Dio, ne abbia anche la nozione o ne comprenda il significato: infatti per intendere il significato di una parola o di una definizione occorre aver percepito l’ oggetto indicato da esse, ma questo non è il caso della parola di Dio, visto che l’ insipiente non ha avuto l’ esperienza diretta di Dio. Per lui la parola di Dio potrebbe essere solo un suono. Inoltre, è possibile avere nell’ intelletto una nozione, per esempio quella di isola, e attribuire ad essa ogni perfezione, ma ciò non autorizza a concludere che perciò quest’ isola esiste anche nella realtà . A ciò Anselmo risponde che non si deve confondere il concetto di ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore con il concetto di ciò che è maggiore di altro. Di quest’ ultima tipo è il concetto di isola perfettissima: essa è tale rispetto a tutte le altre isole, ma non è ciò di cui non è possibile pensare nulla di maggiore. Il confronto con Gaunilone consente di chiarire la prospettiva di Anselmo. Per Gaunilone l’ ascolto della parola non dà  luogo nell’ intelletto ad un concetto corrispondente a ciò che si è udito: chi dice che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore sia l’ idea di Dio? Inoltre dall’ esistenza di una nozione nell’ intelletto non si può inferire l’ esistenza di ciò che è indicato da essa. Nel discorso di Gaunilone s’ interrompe il legame di continuità  tra parola, concetto e realtà ; egli pertanto isola l’ argomentazione di Anselmo dal contesto nel quale è inserita. L’ insipiente di cui parla Gaunilone si arresta alla parola ” Dio ” e non comprende che cosa essa significhi e, dunque, nega l’ esistenza di Dio: è fuori dalla sua prospettiva la considerazione della parola come rivelazione divina. Anselmo, infatti, controbatte: come fai tu, un cristiano, a obiettare ciò? Anche lo stolto che dice che Dio non esiste, deve dare un senso alla parola Dio. Infatti si usano parole, secondo Anselmo, solo se hanno un significato; in caso contrario l’ insipiente non dice nulla. Nello scritto Sulla verità , Anselmo interpreta la verità  come corrispondenza ( rectitudo ) tra le proposizioni e lo stato delle cose che esse enunciano. La proposizione che dice le cose come sono manifesta la verità , cioò la conformità  con le cose che essa dice, ma, come dice Anselmo in un altro scritto, Sul grammatico, ” le cose stanno come le ha pensate e dette, in principio, il Logos, nella somma verità  “. A fondamento della conoscenza e del linguaggio umana vi è dunque la parola creatrice di Dio. Dio è verità  assoluta, fondamento di ogni verità . Dire la verità  da parte dell’ uomo è quindi al tempo stesso conformarsi alla parola di Dio e dire le cose come devono essere dette. Nell’ impostazione di Anselmo conoscenza, atteggiamento morale e fede si saldano inscindibilmente. La fede consiste così nell’ aderire con amore alla parola di Dio. Nella mente umana, come già  aveva indicato Agostino, si manifesta un’ immagine della Trinità . Credere in Dio comporta un coinvolgimento non solo dell’ intelligenza, ma anche dell’ amore e della volontà , che spingono alla ricerca della visione diretta di Dio, ma al tempo stesso si avverte che Dio è inattingibile e che solo per iniziativa di Dio stesso se ne può avere una qualche visione parziale. Anselmo è convinto che i più alti misteri della fede sono incomprensibili, ma ciò suscita un impegno ancor maggiore da parte della ragione. Il cristiano sa per fede che Dio si è incarnato, ma deve anche cercare una risposta alla domanda, che fa da titolo a un altro suo scritto: Perchò Dio si è fatto uomo? La spiegazione di Anselmo è che Dio ha creato l’ uomo allo scopo di consentirgli di essere beato, ma il peccato originale ha prodotto una colpa nei confronti di Dio, per riparare la quale non basta l’ obbedienza prestata a Dio stesso. Sembrerebbe, dunque, che il peccato abbia annullato lo scopo perseguito da Dio nel creare l’ uomo, ma ciò sarebbe assurdo, perchò qualsiasi scopo perseguito da Dio non può non realizzarsi Occorre allora che la grave colpa commessa nei confronti di Dio riceva una riparazione adeguata ad essa, e questa può essere data solamente da un Dio che è anche uomo e sconta la pena del peccato originale. In tal modo Anselmo mostra che l’ Incarnazione presenta una sua razionalità , è cioò spiegabile mediante ragione. Sullo sfondo di questa argomentazione e, in generale, della concezione di Dio di Anselmo, si è anche ravvisata l’ immagine di un sovrano feudale, che comanda ai suoi vassalli e a tutti richiede il servizio e le riparazioni dovute. Ma si tratta anche di un Dio che non impone una costrizione alla libertà  umana. Questo tema è affrontato da Anselmo in 2 opere, Sulla libertà  di arbitrio e Sulla concordia della prescienza e della predestinazione nonchò della grazia di Dio con il libero arbitrio, quest’ ultima composta nel 1109. In entrambe, come in generale nell’intera produzione di Anselmo, è evidente l’ influenza della riflessione di Agostino, anche se ne sono smussate alcune punte pessimistiche. Secondo Anselmo, la libertà , per essere tale, non può essere costretta nò da necessità  esterne nò da una necessità  interna, come per esempio l’ istinto. Tuttavia la libertà  non è possibilità  di scelta tra peccato e non peccato, perchò, se così fosse, nò Dio nò gli angeli sarebbero liberi, dal momento che essi non possono peccare. In realtà  la capacità  di peccare diminuisce la libertà , che consiste invece nella capacità  di conservare la ” rettitudine della volontà  “. Questa è volere ciò che Dio vuole che si voglia e può essere persa solo per un atto della volontà  umana. Solo la grazia divina quindi può restituire all’ uomo la rettitudine della volontà , e la libertà  diventa allora capacità  di conservare questa rettitudine, quando essa è ridata all’ uomo da Dio. La libertà  umana non è limitata neppure dalla prescienza e dalla predestinazione divina: Dio prevede tutte le azioni future, ma le prevede libere. Così anche nella predestinazione degli eletti alla salvezza Dio non impone alcuna necessità : sono salvati quelli di cui Dio conosce anticipatamente la rettitudine della volontà . Testimonianza della grande fortuna che arrise ad Anselmo ò il fatto che Dante lo collochi nel “Paradiso” (Paradiso, XIII, 130-138): Illuminato ed Agositin son quici, Che fur de’primi scalzi poverelli, Che nel capestro a Dio si fàªro amici. Ugo da Sanvittore ò qui con elli, E Pietro Mangiadore, e Pietro Ispano, Lo qual giù luce in dodici libelli; Natan Profeta, e’l metropolitano Crisostomo ed Anselmo e quel Donato, Ch’alla prim’arte degnò por la mano. Monologion Nel proemio del Monologion scrive Anselmo: “alcuni confratelli mi pregarono ripetutamente di scrivere per loro come esempio di meditazione le cose che avevo loro esposto circa Dio con linguaggio ordinario”. L’opera ò dunque una rielaborazione di discorsi tenuti da Anselmo coi suoi confratelli del monastero e, leggendola, si nota come egli non lasci alcuna questione in sospeso, ma risponda a tutte le possibili obiezioni degli interlocutori. Egli si propone di non ricorrere all’ausilio delle attestazioni della rivelazione, ma di limitarsi all’uso della ragione, arrivando in tal senso a trovare in essa una luce in grado di rischiarare gli atti di fede e le Verità  rivelate, “e tutto ciò con stile piano e argomenti accessibili a tutti”, senza trascurare anche le più semplici e sciocche obiezioni. Come Anselmo stesso racconta nel proemio, in un primo momento rifiutò di comporre l’opera, nonostante le assillanti richieste dei suoi confratelli, adducendo anche futili scuse (quali quella di non essere all’altezza del lavoro), ma alla fine, seppur controvoglia per via della difficoltà  dell’argomento e – a suo dire – della debolezza del suo ingegno, accetta l’impresa, convinto che lo scritto sarebbe circolato esclusivamente all’interno del monastero, senza prevedere che in realtà  ben preso si sarebbe diffuso per l’intera Europa, con un successo editoriale straordinario (addirittura c’era gente che lo imparava a memoria). Rileggendo lo scritto, Anselmo nota l’impressionante vicinanza del suo pensiero con quello di Agostino, e quando Lanfranco lo accusa per via epistolare di aver fatto troppo affidamento sulla ragione, egli ribatte che si ò limitato a reinterpretare il “De Trinitate” agostiniano in chiave razionale, arrivando con l’uso della ragione alle stesse Verità  attestate dalla Rivelazione; in particolare, egli noterà  come la Trinità , da lui intesa nello scritto come “tre sostanze” (e non “tre persone”, secondo la Rivelazione), ò concepita in piena sintonia con gli insegnamenti dei Padri greci, ad avviso dei quali sostanza ò effettivamente sinonimo di persona (viene così scongiurato ogni possibile equivoco). Come abbiamo detto, nel “Monologion” ci imbattiamo in una dimostrazione “a posteriori” dell’esistenza di Dio, un’argomentazione che si articola in tre punti ben distinti: il punto di partenza da cui Anselmo muove ò il mondo sensibile, nella sua datità  e nella sua inevitabile inspiegabilità ; l’unica strategia per render conto di esso ò far riferimento ad un ente (Dio appunto) che, con una creazione “ex nihilo”, l’abbia creato; anche se il termine “ex nihilo” desta non pochi problemi, sui quali Anselmo si sofferma minuziosamente, nel tentativo di dissiparli. Dopo questo avvio, egli giunge, a poco a poco, a parlare della Trinità  e così, dopo aver seguito i sentieri tracciati dalla ragione, può finalmente dare libero sfogo alla sua fede. Nel capitolo I dell’opera egli scrive – in toni fortemente platonico/agostiniani -, a conclusione del suo argomentare: “vi ò un ente ottimo e massimo e più alto di tutto quel che esiste”. Il punto d’arrivo della prima delle tre prove dispiegate ò dunque la dimostrazione dell’ esistenza di un ente ottimo e massimo, partendo dalla nozione stessa di bontà , insita nelle nostre menti. Facciamo esperienza di tale nozione – nota Anselmo – nella misura in cui, nella vita di tutti i giorni, abbiamo a che fare con cose buone, sicchò riscontriamo tale concetto nelle entità  empiriche. Come si può spiegare l’esistenza di quelle cose buone a cui tutti, per natura, tendiamo? Non si dovrà  forse ammettere l’esistenza di qualcosa in virtù di cui esse sono buone? Come ò facile capire, il procedere anselmiano ò assolutamente razionale, a tal punto che anche chi ignora l’esistenza di Dio può arrivare a comprenderla avvalendosi della sola ragione, e se non riesce a capirlo, ciò significa che non ò un uomo, ma una bestia sprovvista di ragione. Anselmo, per sua stessa ammissione, sostiene di non poter dimostrare la necessità  di Dio (e in merito al concetto di “necessità ” egli aveva letto alcuni scritti logici di Aristotele), ma si accontenta che ciò abbia una probabilità , ovvero che sia ragionevole ritenere che Dio esista. Tuttavia, egli muove obiezioni e critiche alla sua stessa argomentazione: preso atto dell’esistenza di “cose” buone, ne deriva che dovrà  sussistere un’entità  in forza della quale tali cose sono, appunto, buone; ma che cosa mi vieta di pensare che non si tratti di un’entità , ma di una pluralità  di entità ? Chi mi vieta di pensare che a render buone le cose sia non un ente unico, ma più enti, dei quali qualcuno rende buone certe cose, qualcun altro ne rende buone altre? Tuttavia – risponde Anselmo – quando istituiamo una gerarchia, ò chiaro che lo facciamo sempre in base ad un’unica pietra di paragone, ovvero facendo riferimento ad una sola realtà  in base alla quale diciamo che le cose sono giuste, buone, belle: ad esempio, le cose giuste sono dette tali in base ad un unico metro di misura, la giustizia. Facendo ricorso al linguaggio ordinario (proprio come era solito fare Agostino), Anselmo arriva significativamente a chiedersi: perchè diciamo che un cavallo ò buono quando ò forte e veloce (ossia quando ci ò utile), ma non diciamo altrettanto di un ladro forte e veloce? Quel qualcosa ò buono intrinsecamente o solo per l’utilità  che noi ne traiamo? Il pensatore di Aosta risponde che le cose sono buone poichè sussiste un’entità  che le rende tali, ed ò anzi facendo costante riferimento a tale entità  che predichiamo la bontà  di quelle cose. Similmente, Tommaso d’Aquino, con la sua quarta prova argomentativa in favore di Dio (una prova di sapore platonico/avicenniano), dirà  che se c’ò una scala di valori, allora dovrà  esserci il minimo e il massimo di tale scala, il che implica l’esistenza di Dio come vertice della gerarchia. Ma, in fin dei conti, la prova può essere in questo modo se non distrutta, almeno fatta scricchiolare: se c’ò una gradualità , allora c’ò un’unità  di misura, ma non necessariamente un massimo e un minimo. Dopo aver trattato nel capitolo II lo stesso argomento del capitolo I come corollario, nelle due parti successive Anselmo parla della “natura”, intesa non aristotelicamente, ma nel mero significato di “essenza”. Se esiste una natura – argomenta Anselmo -, allora dovrà  per forza sussistere un ente incausato da cui essa deriva: “tutto ciò che ò, esiste in virtù di un unico ente”; le cose, infatti, o esistono in forza di qualcosa o in forza del nulla, il che però ò evidentemente assurdo e contraddittorio. Ne consegue, allora, che le cose derivano da qualcosa (e non dal nulla): ma questo qualcosa ò un ente singolo o, piuttosto, una molteplicità  di enti? Nel caso in cui fosse un ente molteplice, occorrerebbe spiegare se ciascuno di tali enti sussista autonomamente o invece se alcuni siano causati da altri; ma in questo secondo caso, essendo alcuni enti causati da altri, si ritornerebbe al punto di partenza, a dover ammettere un ente da cui tutti gli altri derivano. Se invece ciascun ente esiste indipendentemente dagli altri, ciò avviene necessariamente grazie ad una forza che lo consenta. Ma tale forza, allora, sarà  la stessa in tutti gli enti, e dunque sarà  essa il principio unico da cui tutto deriva. In ogni caso, pertanto, si ò condannati allo scacco: l’ente da cui la natura deriva ò unitario, e corrisponde a Dio. Sarebbe inutile, in questa prospettiva, tentare di spiegare le cose ipotizzando una loro azione reciproca e circolare, così come invece può spiegarsi il rapporto tra servo e padrone: al contrario, poichè esiste un ente che fa sì che esistano tutte le altre cose nella loro indefinita molteplicità  (e tale ente ò Dio), esso sussiste autonomamente, senza però essere “causa sui”, perchè altrimenti – nota Anselmo con straordinaria acutezza – in Dio vi sarebbe distinzione interna tra causa ed effetto, cosicchò ci si troverebbe assurdamente costretti ad ammettere la molteplicità  di Dio. La terza prova addotta da Anselmo in difesa dell’ esistenza di Dio poggia sui valori delle cose: se osserviamo la natura, ci accorgiamo facilmente di come essa sia popolata da cose non equiparabili, ma poste su piani differenti; così il cavallo ò superiore rispetto alla pietra, e l’uomo lo ò rispetto al cavallo, e così via. Chi non si accorgesse di ciò, sostiene Anselmo, sarebbe indegno di esser detto uomo, poichè rivelerebbe una totale assenza della ragione, che ò appunto – aristotelicamente – ciò che qualifica la nostra essenza di esseri umani. Ora, ammettendo tale scala di valori (in base alla quale l’uomo sta sopra il cavallo, il quale a sua volta sta sopra la pietra), si andrebbe avanti all’infinito se non si ammettesse come vertice una natura eccelsa, a cui nulla sia superiore: ma una tale natura potrebbe essere unitaria o molteplice, e per dimostrare la sua unitarietà  Anselmo fa ricorso alle argomentazioni dispiegate in precedenza. Tale natura eccelsa e unitaria corrisponde a Dio. Ed ò importante notare come Anselmo, profondamente “realista” nelle sue convinzioni logiche (pensiamo alla disputa medioevale sui nomi), arriverà  a dire che perfino lo stolto che nega l’esistenza di Dio deve necessariamente avere nella sua mente l’idea di Dio, e alle idee corrisponde sempre (o quasi) qualcosa di reale. Ritorna, in questo senso, la centralità  dell’intelletto, di quella luce soffusa che ci fa riconoscere la Verità . Proslogion In quest’opera, Anselmo parte dalla pura concettualità  per risalire all’ esistenza: muovendo dalla mera nozione di Dio che ciascuno di noi ha nella sua mente, egli mostra come a ciò debba necessariamente corrispondere qualcosa di reale. Del resto, l’esigenza di dimostrare in modo certo e innovativo l’esistenza di Dio era per Anselmo diventata una vera ossessione che non gli dava pace e che non gli permetteva di pensare più a null’altro. Stando a quanto racconta il suo biografo, dopo un lungo arrovellarsi Anselmo ebbe finalmente – nel cuore della notte – un’ illuminazione divina che gli fece balzare alla mente quella che dai suoi successori (parecchi secoli dopo) sarà  detta “prova ontologica dell’esistenza di Dio”; ed ò in seguito a tale illuminazione divina che egli decise di impugnare la penna e di comporre il “Proslogion”, nel cui proemio rivela che già  parecchio tempo addietro “cominciai a chiedermi se non si potesse trovare un unico argomento possibile” per dimostrare che Dio ò, e che di conseguenza ò buono e dotato di tutte le altre qualità  che gli sono proprie. A differenza che nel “Monologion” (dove il punto di partenza era la ragione indagatrice sul mondo empirico), ora Anselmo parte dalla fede e dalle sue verità , e si propone di “capire ciò che crede”; dal punto di vista della fede, egli non ha alcun dubbio, giacchò le verità  di cui essa ò portavoce sono indubitabili; si tratta, però, di impiegare l’ intelletto per arrivare ad una comprensione razionale di tali verità , ed ò per questo che Anselmo parla esplicitamente – sulle orme di Agostino – di “fides quaerens intellectum”, quasi convinto che, una volta risolto il problema dell’esistenza di Dio, ne derivino a cascata tutte le altre verità . Se il “Monologion” era un soliloquio, ovvero un dialogo con se stesso, alla maniera agostiniana dei “Soliloqui”, il “Proslogion” si configura invece come “colloquio” con Dio e con la propria anima, quasi come se Anselmo avesse avuto un’esperienza mistica (ed ò questa la lettura che del “Proslogion” diede Karl Barth). Nei “Soliloqui” Agostino si rivolgeva alla propria anima, confidandole di voler conoscere lei e Dio stesso: Anselmo, invece, parte da una considerazione sull’affanno della situazione umana, immersa in una incessante corsa e nelle prime pagine dell’opera scrive: “orsù, omiciattolo, fuggi per un poco dalle tue occupazioni […], dedicati per un poco a Dio e riposati in Lui”. Pur muovendo dalla constatazione dell’affannosità  della vita umana, Anselmo non si abbandona a quel “contemptus mundi” (il “disprezzo del mondo”) che invece ritroviamo in molti altri Medievali. La prova ontologica viene sviluppata a partire dal libro II, il cui titolo suona “Dio esiste veramente”: il punto di partenza ò – come abbiamo detto – il contenuto della fede, ed in particolare la definizione – a tutti evidente – che essa fornisce di Dio come “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore” (“id, quo maius cogitari nequit”). Perfino lo stolto di cui parla la Bibbia dice sì in cuor suo che Dio non esiste, ma ne condivide la definizione con il credente: anche per lui Dio ò “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore”. Si può dunque dire che il concetto di Dio ò presente nel suo intelletto, anche se egli ò convinto che quel qualcosa non esista nella realtà . Si tratterà  dunque – nota Anselmo – di passare dall’esistenza mentale (concettuosa) a quella reale: e per meglio compiere questo salto, il pensatore di Aosta ricorre all’esempio del pittore che, ancor prima di iniziare il quadro, ce l’ha già  impresso nella propria mente (il monaco benedettino Gaunilone tuonerà  contro Anselmo notando come siano fuori luoghi questi esempi: come possiamo accostare Dio ad un quadro? E poi: un quadro cade sotto i nostri sensi, mentre di Dio non possiamo mai fare esperienza). Anche lo stolto dovrà  convincersi che nella sua mente ò presente la nozione di Dio come “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore”: ma Dio non può esistere esclusivamente come nozione, altrimenti sarebbe possibile pensare un’altra cosa “di cui nulla si può pensare di maggiore” ma che – a differenza di Dio come lo intende l’insipiente – esiste effettivamente nella realtà : in tal caso, questa cosa (che esiste oltre ad essere “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore”) sarebbe maggiore rispetto a Dio (che esiste solo come nozione), e dunque si potrebbe pensare qualcosa di maggiore rispetto a “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore”: il che ò naturalmente contraddittorio. Infatti, ritenere che “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore” non esista nella realtà  significa privarlo di quel sommo grado dell’essere che ò l’esistenza, ovvero vuol dire che non può essere “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore”: “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore”, infatti, per essere davvero tale, deve avere, oltrechò ad un’essenza, anche l’esistenza. In età  illuministica, Kant (fiero sostenitore dell’indimostrabilità  dell’esistenza di Dio) dirà  che non si può in alcun caso far derivare l’esistenza dall’essenza, adducendo l’esempio dei cento talleri pensati e dei cento talleri esistenti: Hegel biasimerà  Kant rinfacciandogli che il suo ò un ragionare barbarico, poichè non si può accostare Dio a cento talleri. Questa vivace diatriba sorta in età  moderna intorno alla validità  della prova ontologica, ai tempi di Anselmo era pressochò assente. Anzi, dopo che egli ebbe composto il “Proslogion” calò il silenzio nella cultura a lui contemporanea: solo nel XIII secolo a. C. si comincerà  a discutere sulla prova ontologica; il caso del monaco Gaunilone, che non appena esce il “Proslogion”, lo attacca duramente, ò un caso più unico che raro. Nel capitolo III del suo scritto, Anselmo chiarisce ulteriormente – ma senza apportare in realtà  grandi innovazioni – perchè Dio non possa non esistere, mentre nel IV spiega perchè l’insipiente ha potuto credere che Dio non esistesse: qualunque cosa noi pronunciamo dentro di noi ò pensiero, ma (stando agli insegnamenti del “De magistro” di Agostino) possiamo fermarci al puro segno (alla parola cui non corrisponde nulla di reale) o invece spingerci alla parola significante qualche cosa (così il termine “sedia” ò un “signum” che significa qualche cosa di reale), con la conseguenza che secondo la prima modalità  (che ò propria dell’insipiente) si può dire che Dio non esista, ma attenendosi alla seconda ciò non ò possibile. Alla prova ontologica anselmiana resteranno fedeli (oltre a Hegel) Bonaventura, Cartesio, Leibniz e – pare – perfino Bertrand Russell, il quale – uscito per comprare del tabacco – si arrovellava sull’argomento anselmiano fino a che, bloccatosi al centro della strada, non arrivò all’illuminazione che era una prova valida. Ma una lunga tradizione che parte da Gaunilone e giunge sino a Kant nega la validità  della prova anselmiana: in particolare Gaunilone scrive un celebre “Liber pro insipiente” in cui si schiera al fianco dell’insipiente e contro Anselmo; in realtà  il monaco benedettino ha una certa tendenza a strumentalizzare il pensiero anselmiano, come quando riferisce che, secondo Anselmo, qualsiasi cosa reale ò maggiore di Dio come semplice concetto. Gaunilone (che ò cristiano, e dunque saldamente convinto che Dio esista: critica la prova anselmiana, non l’esistenza di Dio in quanto tale) obietta al suo rivale che se ogni cosa pensata ha una sua corrispondenza nel reale, allora anche la chimera o il cavallo alato dovranno trovarvi posto. Se poi Dio ò così evidente come Anselmo lo predica, che necessità  c’era di costruire quel laborioso edificio che ò la prova ontologica? Ma non solo: l’equazione anselmiana secondo cui il pensato ò esistente deve essere argomentata, cosa che Anselmo non si preoccupa affatto di fare, ma dà  per scontata. Ancora: come si può proclamare con tanta certezza che esista nella realtà  quella cosa pensata che ò Dio se non se ne ò mai avuta esperienza? Oltre a queste riflessioni – nel loro insieme piuttosto acute – Gaunilone ne fa una che si rivela il suo grande passo falso, a tal punto che Anselmo – quando gli risponderà  â€“ farà  leva quasi esclusivamente su di essa: se “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore” deve per forza esistere, allora anche l’isola perfetta – e così il perfetto per ogni categoria (il cavallo perfetto, l’uomo perfetto, ecc) – dovrà  necessariamente esistere. Anselmo compone un libro di risposta alle critiche gauniloniane (“Liber apologeticus”), in cui, giustamente, critica duramente il suo avversario per aver paragonato Dio ad un’isola. E, poichè si tratta di rispondere al cattolico Gaunilone e non all’insipiente ateo, Anselmo fa costante riferimento all’idea di Dio (e alle sue conseguenze) derivata dalla fede: dicendo che non vale l’argomentazione secondo cui “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore” deve per forza esistere, si va contro la fede, il che ò inammissibile. A Parigi, nel XIII secolo, fiorisce un dinamico dibattito intorno alla prova anselmiana: Alessandro di Hales non esita a condividerla, e pure Tommaso d’Aquino ne fa esplicita menzione, pur senza citare Anselmo. L’Aquinate, ne “La somma teologica”, sviluppa la sua analisi in tre punti essenziali: a) come nota Damasceno, “omnibus cognitio existendi Deum naturaliter est inserta” (“la conoscenza dell’esistenza di Dio ò in tutti naturalmente insita”); b) inteso che cosa significa Dio, si capisce all’istante ch’Egli esiste, perchè, essendo “ciò di cui nulla si può pensare di maggiore” (e qui vi ò un’eco anselmiana), deve esistere sia come concetto sia come ente reale; c) ò evidente che la verità  esista, poichè anche chi la nega incappa in una Verità  (la verità  che non ci sono verità ): ma la verità  esiste solo se c’ò una Verità , e tale ò Dio secondo i Testi Sacri. Alcuni brani tratti dal “Proslogion”: a) Necessità  di una purificazione interiore e di un forte impegno personale (Proslogion, 1) Orsàº, omuncolo, fuggi per un poco le tue preoccupazioni, sottraiti un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Liberati ora dalle pesanti cure, e lascia da parte le tue laboriose distrazioni. Dedicati un pochino a Dio e riposati in Lui. “Entra nella stanza” del tuo spirito, cacciane fuori tutto all’infuori di Dio e di ciò che ti aiuta a cercarlo, e, “dopo aver chiuso l’uscio”, cerca Lui. Di’ ora, o mio cuore, tutto intero, di’ a Dio: “Io cerco il tuo volto, ricerco il tuo volto, o Signore” (Ps., 26, 8). b) Credo ut intelligam (Proslogion, 1) Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine, affinchè, memore, ti pensi e ti ami. Ma l’immagine ò cosà­ cancellata dall’attrito dei vizi, ò cosà­ offuscata dal fumo dei peccati, che non può fare ciò che dovrebbe, se tu non la rinnovi e la riformi. Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità  poichè in nessun modo posso metterle a pari il mio intelletto; ma desidero comprendere in qualche modo la tua verità , che il mio cuore crede ed ama. Non cerco infatti di comprendere per credere, ma credo per comprendere. Poichè credo anche questo: che “se non avrò creduto non potrò comprendere” (Is., 7, 9). c) La prova ontologica (Proslogion, 2-3) L’argomento a priori: l’idea di ciò di cui non si può pensare nulla di piຠgrande, presente nella mente dell’uomo, comporta la necessità  logica dell’ esistenza di un Essere che corrisponda a questa idea. 1 Ora crediamo che tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi piຠgrande. O che forse non esiste una tale natura, poichè “lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste”? (Ps., 13, 1 e 52, 1). Ma certo, quel medesimo stolto, quando sente ciò che io dico, e cioò la frase “qualcosa di cui nulla può pensarsi piຠgrande”, capisce quello che ode; e ciò che egli capisce ò nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti ò che una cosa sia nell’intelletto, altro intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà  dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista quell’opera che egli non ha ancor fatto. Quando invece l’ha già  dipinta, non solo l’ha nell’intelletto, ma intende che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi ò almeno nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi piຠgrande, poichè egli capisce questa frase quando la ode, e tutto ciò che si capisce ò nell’intelletto. 2 Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà , e questo sarebbe piຠgrande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’ intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore ò ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che ò contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà . 3 E questo ente esiste in modo cosà­ vero che non può neppure essere pensato non esistente. Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo ò maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Perciò, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà  piຠciò di cui non si può pensare il maggiore, il che ò contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste in modo cosà­ vero, che non può neppure essere pensato non esistente. 4 E questo sei tu, o Signore Dio nostro.

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