Dal diario di Erika: Il volo dal grattacielo - Studentville

Dal diario di Erika: Il volo dal grattacielo

Me ne resi conto con forza una sera, quando venne fuori la storia del volo dal grattacielo...

Me ne resi conto con forza una sera, quando venne fuori la storia del volo dal grattacielo.
Si trattava di una notizia che avevo sentito al telegiornale e dalla quale ero rimasta letteralmente stregata.  Sullo schermo della televisione era improvvisamente apparsa l’immagine disgustosa di un volto tumefatto, appartenente ad un bizzarro signore che si era gettato giù dalla finestra del suo appartamento. Per quanto assurdo fosse quel gesto, un folle aveva davvero deciso di indossare un bel paracadute e in men che non si dica si era tuffato dalla finestra, così, senza ragione apparente, solo per provare l’ebbrezza di un’esperienza nuova. Quello in cui abitava non era però un grattacielo vero e proprio: l’edificio aveva, ad occhio e croce, non più di cinque o sei piani, sicché lo spazio tra l’appartamento incriminato e la strada non era sufficiente per l’apertura completa del paracadute.
E lo vedevi, questo giovane scalpitante nell’aria, rimanevi affascinato dall’audacia con cui si era lanciato di sotto, dalla sicurezza con cui muoveva, senza grazia, le gambe. Era uno spettacolo. Sembrava che tutto si svolgesse in apnea, trattenendo il fiato, senza udire suono o rumore alcuno. Sembrava…non so, un mimo. Un film del cinema muto. O una di quelle scene cinematografiche in cui la telecamera riprende ciò che avviene sotto la superficie dell’acqua, e registra azioni e soggetti in maniera rallentata, attutita, come se i appartenessero ad un’altra dimensione dell’esistenza. Quell’omino col paracadute flaccido sulle spalle pareva un oggetto lanciato fuori da un astronave, e risucchiato senza un lamento dall’inchiostro scuro dello spazio.E d’improvviso…vruuum!
Ci fu un colpo di vento, e il ragazzo andò a sbattere contro il muro di una casa, lui e il suo bel paracadute, riducendo senza pietà il volto ad un intrico di sudore e sangue.
Ero lì che osservavo con stupore questa assurda avventura, che le telecamere del TG, chissà come, avevano registrato. “Certo che ce ne sono di pirla al mondo. Guarda te se uno deve conciarsi la faccia a quel modo” commentò intanto mio padre, comodamente stravaccato sul divano. Il suo tono era di quelli che non ammettono repliche.

Ma io, ecco, io non riuscivo a smettere di guardare. Davanti ai miei occhi stavano scorrendo le immagini del sublime, quell’incrocio di pericolo, estasi e meraviglia che incanta e al tempo stesso spaventa. In tutta onestà non era che un ragazzetto esaltato che si era scagliato contro un muro, nella sterile ricerca di un briciolo di notorietà. Punto. Ma c’era qualcosa in quell’ombra esile che si librava nel vuoto, qualcosa di immortale, di perforante, di intenso, un segno ecco, un messaggio forse, come se tra l’aprirsi del paracadute e lo schianto umido sulla parete si svelasse l’intero mistero della vita.

Silenzio/ paracadute che si apre/ paracadute che si affloscia dolcemente/ accelerazione/ silenzio.

Una successione così fluida, così regolare

1              2                               3                4
     5            6              7

un’armoniosa sequenza di passaggi.
Era… una danza.
Una danza che comunicava un sacco di cose, su quel volo dalla finestra.
Per esempio che, pur essendo senza senso, quel gesto valeva più di mille azioni ragionate. Che il suo fine era ribellarsi all’irrinunciabile pretesa umana di spiegare ogni cosa. Che urlava con quanto fiato aveva in gola che il salto dal grattacielo era solo la goccia per far traboccare il vaso, e che l’assurdità stava non tanto in quel tuffo ma nella miriade di abitudini quotidiane, banali, scontate, così inverosimili nella loro smania di sembrar normali.
Una danza.
Erano circa tre mesi dall’ultima volta che avevo visto Lucas, e non avevo trascorso un giorno senza pensare a lui. Avevo tentato di impegnarmi in tutte quelle abitudini quotidiane che avrebbero fatto di me il modello della brava ragazza: studiare, parlar bene, tornare a casa ad orari decenti. Ma non era servito niente.
La mattina dopo ero già in aereo. Destinazione: Germania.

Erika

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