Giacomo Leopardi, l'illustre poeta di Recanati, scrisse una poco conosciuta opera giovanile: il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Scritto nel 1815, questo Saggio, che si articola in diciassette capi, analizza le "opinioni errate" che hanno impedito agli uomini del passato di giungere alla conoscenza del "vero"; si tratta di un'opera assai erudita, davvero sorprendente per la quantità di autori e libri che vi vengono citati.
Senza dubbio molti "errori degli antichi" riguardarono la conoscenza del cielo, e in effetti Leopardi, che tra l'altro un paio d'anni prima aveva scritto una Storia dell'astronomia, non manca di metterli in luce: ben quattro capi, dal nono al dodicesimo, sono dedicati alle false convinzioni degli uomini antichi riguardo al Sole, agli astri e alla forma della Terra. In particolare, vorrei qui proporre alcuni brani tratti dal capo undicesimo, intitolato "Dell'astrologia, delle ecclissi, delle comete".
Il capitolo si apre con una sommaria descrizione della nascita dell'astrologia, la "scienza del futuro", grazie alla quale l'uomo sarebbe capace "di evitar mille pericoli, e di ottener grandi vantaggi". Si cominciò con l'osservare che le stagioni e lo sviluppo dei prodotti della terra dipendono dalla posizione e dal movimento del Sole: quindi "si estese l'influenza, che il sole esercita sopra il nostro globo, alla luna, ai pianeti, alle stelle tutte; gli astri furon creduti gli arbitri delle cose terrene; la scienza dei loro movimenti fu riputata la scienza del futuro. Ecco l'origine naturale dell'astrologia".
Vero è, nota ancora Leopardi, che gli studi degli astronomi dimostrarono poi la vanità della "scienza astrologica", ma ormai era troppo tardi, poiché le false credenze avevano avuto il tempo di mettere profonde radici negli uomini: "non era più tempo di spogliare gli astrologi del loro credito e i popoli dei loro pregiudizi. Questi e quello si mantennero a dispetto della ragione e della esperienza, e la pretesa scienza dell'avvenire acquistò sempre nuovi amatori, e si propagò sotto varie forme".
L'attenzione di Leopardi si sposta quindi a considerare il fenomeno delle eclissi, fenomeno che, obiettivamente, è davvero tremendo per un "intelletto non istruito", giacché per quest'ultimo è naturale aver paura che il Sole o la Luna corrano il pericolo di spegnersi: ma tale timore è stato ben presto fugato dalla scienza. Una volta spiegato il meccanismo delle eclissi, però, la cosa sorprendente è che "si cessò di temere per il sole o per la luna, ma si continuò a tremare per la terra": il verificarsi di eclissi, infatti, venne considerato come un segno assolutamente sfavorevole per le vicende umane.
Per esemplificare questo aspetto, Leopardi riferisce, con una certa dose di ironia, un aneddoto riguardante la spedizione di Atene in Sicilia (415-413 a.C.), comandata da Nicia. "Questo generale ateniese assediava con poco felice esito Siracusa. Per salvar la sua armata risolvé di scioglier l'assedio e di abbandonare la Sicilia. A mezza notte, mentre si è sul punto di far vela, la luna si ecclissa totalmente. Nicia, così superiore ai pregiudizi come fortunato, si spaventa, si confonde, consulta gl'indovini. Questi decidono che fa duopo differir la partenza di tre giorni […]. Si ubbidisce all'autorevole decisione: ma i nemici mostrano ben tosto che quei lunatici interpreti hanno errato nel loro calcolo. La sventura presagita dalla ecclissi arriva prima del tempo destinato alla partenza: i nemici escono dalla città, attaccano gli Ateniesi, li sconfiggono, fanno prigionieri i loro due generali, Nicia e Demostene, e li condannano a morte dopo aver distrutto tutto il loro esercito".
Dopo qualche altro aneddoto in tema di eclissi, Leopardi passa a considerare le comete, indugiando anche qui su numerose citazioni di poeti e filosofi antichi. L'ultimo di questi ad essere ricordato è Lucio Anneo Seneca, del quale Leopardi riporta in traduzione alcuni passi delle Naturales Quaestiones: "qual meraviglia, dice [Seneca], che non si conoscano ancora le leggi certe del moto delle comete sì rare a vedersi, e che siano ignoti il principio e il fine della rivoluzione di quegli astri che non ritornano se non dopo lunghissimo tempo? […] Verrà un'epoca, in cui il maggior numero dei secoli che saran passati e la maggior diligenza che si sarà impiegata nell'esame delle cose, faranno conoscere ciò che ora s'ignora. […] Certamente molte cose, che noi non sappiamo, saranno note ai popoli che verranno". E Leopardi non nasconde la propria ammirazione per questo filosofo del primo secolo dopo Cristo, capace di scrivere parole tanto lucide e razionali, in un'epoca in cui le comete erano ritenute essere dei fenomeni atmosferici forieri di sciagure.
Il capo undicesimo del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi si chiude con una straordinaria quanto implacabile invettiva contro coloro che si dedicano ancor oggi all'arte falsa e menzognera degli oroscopi. "Quanti vili, che si danno il nome di astrologi, che hanno per patrimonio l'ignoranza commune, e che in un tempo di luce contribuiscono grandemente a mantenere le tenebre nelle menti volgari, spargendo di ridicoli presagi i loro miserabili almanacchi, avendo cura di indicare diligentemente tutte le lunazioni, profittando, per fare un sordido guadagno, dei pregiudizi che ogni uomo illuminato dovrebbe cercar di distruggere, e non arrossendo di pubblicare con le stampe cose affatto chimeriche e pazze, colla sola mira di gabbare il volgo e di trarne danaio".
L'astronomia nella poesia
Nelle poesie di Leopardi è spesso presente se non il tema, lo sfondo a carattere astronomico: è infatti tipico del Leopardi romantico quell'elemento del vago e dell'indefinito, elemento che l'astronomia, il cosmo e gli eventi celesti riescono ad incarnare perfettamente, grazie anche al motivo del mistero e del mistico che ancora regnava agli inizi dell'800.
Le poesie di Leopardi che meglio rappresentano questo concetto sono "Alla Luna" (Idilli 1819), "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" (Canti 1831); importante è poi la frase posta all'inizio de "La Ginestra o il fiore del deserto" tratta dal vangelo GIOVANNI, III, 19. che così recita: E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Questo probabilmente sta ad indicare la passione di Leopardi per il, buio la notte, il vago, l'indefinito, e di conseguenza ciò che è ad esso legato, come appunto i fenomeni astronomici.
Un semplice parallelismo può essere quello di Pascoli che ne "L'assiuolo" cerca la Luna fra le nubi, e si ingegna invano di scovare qualche costellazione, in quanto "le stelle lucevano rare tra mezzo la nebbia di latte" e non vuole essere qui indicata la Via lattea, anche se è presente una certa allusione, bensì la nostalgia per la Luna e le stelle nascoste dal velo del maltempo.
Nonostante ciò in Pascoli l'elemento astronomico è un semplice "contorno" volto all' "estetizzazione" estrema della poesia, a quella ricerca del suggestivo, tipica del suo periodo.
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