L’opera di Nietzsche è caratterizzata da una stretta compenetrazione tra riflessione filosofica ed espressione letteraria. In “Ecce homo”, egli definisce lo stile come la comunicazione di “uno stato, una tensione interna di paqos, per mezzo di segni, compreso il ritmo di questi segni”. Alla molteplicità degli stati interni da lui provati, egli attribuisce, dunque, le molte possibilità di stile manifestate nei suoi scritti. Nei primi, “La nascita della tragedia” e le “Considerazioni inattuali”, egli è ancora legato alla forma accademica del saggio, ossia alla trattazione di un tema che procede gradualmente passo dopo passo; ma, al tempo stesso, egli già cerca di evitare il tono impersonale e distaccato di questa forma letteraria, rivolgendosi direttamente ai suoi lettori per coinvolgerli nella propria esperienza di pensiero e nella condanna della miseria del proprio tempo. In un’ annotazione del 1880 egli afferma: “In tutte le opere che ho scritto, io ho messo dentro anima e corpo: non so che cosa siano problemi puramente intellettuali”. A partire da “Umano, troppo umano” viene meno in Nietzsche la fiducia in una filosofia concepita come costruzione di trattazioni globali e sistematiche e il suo stile assume, invece, anche per influenza della scrittura propria dei moralisti e degli illuministi francesi, la forma dell’ aforisma, ossia dell’esposizione concisa, essenziale e folgorante di punti cruciali, attraverso stringate argomentazioni e rapide illuminazioni: “L’aforisma, la sentenza, sono le forme dell’eternità ; la mia ambizione ò dire in dieci frasi quello che chiunque altro dice in un libro, quello che chiunque altro non dice in un libro. ” L’aforisma è paragonato da Nietzsche alle figure in rilievo, che, essendo incomplete, richiedono all’osservatore di completare “col pensiero ciò che si staglia davanti”. Rispetto a un trattato, un libro composto di aforismi richiede, dunque, un tipo diverso di lettura: una lettura discontinua, per lascia tempo alla riflessione e all’interpretazione, ossia ad una pratica che i moderni hanno disimparato e che Nietzsche chiama “ruminare”. Questo non significa che gli aforismi siano accostati alla rinfusa; anzi, essi sono inseriti in sapienti costruzioni architettoniche, non di rado aperte e concluse da poesie, al fine di allentare tensioni e pesantezze, introducendo brio e leggerezza, conformemente alla nuova concezione di una “gaia scienza”. Rispetto a questa forma stilistica, dominante nel periodo centrale dell’attività di Nietzsche, la maggior novità è costituita da “Così parlò Zarathustra”: qui il modello è fornito dalla scrittura in versetti, propria dei Vangeli, una sorta di poesia in prosa, più conforme al tono rivelativo, intriso di paqos e di simboli, e alieno da sviluppi troppo argomentativi, il Vangelo di un ateo. Esso si adatta maggiormente al senso della propria missione, che segna l’inizio di una nuova epoca storica, dopo il tramonto del cristianesimo, e della morale occidentale. Ciò si accompagna ad una crescente preoccupazione per l’efficacia storica dei propri scritti, alla quale fa riscontro, negativamente, l’incomprensione dei contemporanei. Vengono così ad attenuarsi, nelle sue ultime opere, la componente autobiografica e i toni aggressivi e polemici: l’inattualità da lui sempre perseguita sembra ora diventare un peso, che egli non può più sostenere e che lo condurrà al crollo finale. Ma vale in generale, soprattutto per gli scritti del periodo centrale, la caratterizzazione che Nietzsche ha dato in “Aurora”: in essi opera un “essere sotterraneo”, che perfora, scava, scalza di sottoterra i pregiudizi e i valori dominanti nel proprio tempo. A tale caratterizzazione corrisponde la descrizione tracciata nella prefazione del 1886 alla seconda edizione di “Umano, troppo umano”: “I miei scritti sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di disprezzo; per fortuna però anche di coraggio, anzi di temerarietà “; essi sono il documento della solitudine a cui è condannata ogni “assoluta diversità di sguardo”.
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