Nascita del Capitalismo e dell’Europa Moderna - Studentville

Nascita del Capitalismo e dell’Europa Moderna

Le fasi dello sviluppo del Capitalismo e la nascita dell'Europa moderna.

La formazione delle Signorie

Il tramonto della potenza imperiale che fece seguito alla morte di Federico II, diede vigore alle tendenze espansionistiche delle più potenti città-stato, che si avviavano a estendere il loro potere su interi territori regionali. Tale processo si accompagnò col generale declino della forma di governo repubblicano-comunale, cui si sostituì il dominio personale di un signore e della sua famiglia. Questa trasformazione istituzionale fu resa inevitabile dal fatto che l’alta borghesia, pervenuta al governo delle città, non era stata capace di garantire né la giustizia sociale (poche famiglie borghesi si spartivano l’autorità, le proprietà e i profitti)), né la stabilità politica (per i contrasti tra popolo “grasso” e “minuto” e per le rivalità all’interno dello stesso ceto borghese), né la pace civile (per le rivalità intercomunali). In modo particolare il popolo minuto e gli abitanti del contado erano stati troppo a lungo sacrificati agli interessi delle città.

Condizioni determinanti che avviarono in Italia un rapido e definitivo tramonto dell’istituzione comunale, furono:

1) espansione progressiva delle più potenti città dell’Italia centro-nord, che miravano a estendere la loro sovranità su centri economici concorrenti e su importanti vie di comunicazione (ad es. Milano allarga i propri territori fino a Como, Venezia sino a Ferrara, Pisa sino ad Amalfi, ecc.);

2) tendenza delle borghesie cittadine a delegare l’esercizio del potere a un “podestà”, ritenendo così di tutelare più efficacemente la propria egemonia economica e politica;

3) consenso accordato dai ceti popolari urbani e rurali ad un esponente politico (o militare) ritenuto capace di governare in modo imparziale (ad es. il capitano del popolo).

La figura del podestà appare nella prima metà del XIII sec. E’ un magistrato unico, del ceto aristocratico, non coinvolto nelle lotte tra le fazioni cittadine perché forestiero, nominato a tempo determinato (da 6 mesi a 2 anni), è vincolato al parere e al voto degli altri organi comunali, però detiene i poteri giudiziari ed esecutivi. Al podestà i ceti subalterni oppongono la figura del capitano del popolo, anch’esso temporaneo, dotato di una propria milizia. Le misure antiaristocratiche del popolo minuto generalmente fallirono, poiché esso non giunse mai a governare.

Il passaggio dal podestà al signore avviene nella seconda metà del XIII sec., allorché la borghesia più forte decide di delegare poteri sempre più ampi al podestà o all’esponente più autorevole di una famiglia prestigiosa.
Il governo personale di un signore venne assestandosi entro ordinamenti statali unitari e accentrati (le signorie), esprimendo così, su base regionale, la generale tendenza dell’epoca (europea) verso la formazione di Stati monarchici e assoluti (come in Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra).

Questo processo di unificazione politico-amministrativa finirà con l’ottenere il riconoscimento dell’imperatore o del papa (nelle terre pontificie o feudi papali), i quali, elevando il signore al rango di “principe”, cioè conferendogli il “vicariato”, per cui il signore veniva a rappresentare nella città l’autorità dell’imperatore o del papa, ne riconosceranno ereditaria la dignità, sottraendola, di diritto, ad ogni forma d’investitura e di controllo popolare. Questo determinerà la trasformazione della Signoria in Principato. (Tra le famiglie da ricordare: Visconti a Milano, Scaligeri a Verona, Medici a Firenze, Estensi a Ferrara, Da Polenta a Ravenna, Malatesta a Rimini e Cesena).

La crisi del ‘300.

Questa trasformazione si verifica anche nel corso del XV sec. Tuttavia, già verso la metà del sec. XIV la crisi economica era netta, a causa di:

1) carestie provocate dalle distruzioni di raccolti in conseguenza soprattutto della guerra dei Cento anni (tra Francia e Inghilterra), che devasterà gran parte della Francia. Correlata a questa guerra vi è il fallimento dei maggiori mercanti-banchieri d’Italia (Firenze) che non riuscirono a farsi restituire dalla corona inglese i propri crediti.

2) Terribile ondata della peste nel 1348-56, portata in Europa dai mercanti italiani che commerciavano con il lontano oriente. Essa sterminerà circa 30 milioni di persone: 1/3 della popolazione europea. Assumerà dopo il ‘56 ritmi decennali per scomparire come malattia endemica nel sec. XVIII.

3) Carestie causate sia dall’esaurimento della fertilità del suolo, sia da una repentina variazione climatica, con inverni glaciali ed estati aride.

4) Concentrazione della ricchezza nelle mani delle classi più agiate. Peggioramento in campagna dello sfruttamento dei contadini ad opera dei grandi proprietari. L’aristocrazia trasforma le colture in allevamenti e pascoli, impone maggiori tasse, ripristina con la forza il servaggio, espelle i contadini affidando molte terre ad affittuari. A ciò vanno aggiunti i bassi salari, il rialzo dei prezzi alimentari e del costo degli affitti urbani (la domanda era molto più alta dell’offerta).

Alla crisi del ‘300 i contadini reagiranno con molte e sanguinose rivolte, soprattutto in Francia, Inghilterra e Fiandre. In Italia la maggiore è quella dei Ciompi a Firenze (operai tessili). Le rivolte saranno tutte represse con i nuovi eserciti di professione (le Compagnie di Ventura). Le compagnie di ventura erano formazioni di mercenari specializzati nel garantire l’ordine pubblico, tenuti in costante addestramento, al servizio di un condottiero (in genere piccolo nobile caduto in rovina).

Queste compagnie costituivano soprattutto un’alternativa all’esercito comunale: le oligarchie infatti temevano di affidare ai cittadini delle armi che potevano essere utilizzate, eventualmente, per rovesciare il governo in carica. I mercenari venivano reclutati tra le popolazioni contadine più povere, che vedevano nel saccheggio e nel terrore il modo più facile per arricchirsi.

In pratica nel ‘400 si viene affermando una classe sociale borghese poco numerosa, estremamente privilegiata, assai prudente nelle speculazioni (pensa soprattutto agli investimenti immobiliari: palazzi urbani e ville extraurbane, o all’usura, e tralascia gli investimenti produttivi), è disponibile al compromesso con l’aristocrazia feudale… Questa classe borghese è in sostanza quella che meglio si adegua alla realtà del Principato.

In Italia i centri economici principali diventano Firenze, Genova, Milano e Venezia, con un’attività commerciale ridotta a causa del protezionismo degli Stati europei, che intendevano favorire le proprie borghesie nazionali: di qui l’acuirsi delle rivalità regionali tra le varie signorie e principati, e l’esigenza di sfruttare di più il mercato interno. I complessi finanziari delle monarchie nazionali francesi e inglesi e degli Asburgo nel centro-Europa, saranno in forte concorrenza con le banche italiane.

In sintesi: il Principato è la creazione di una formazione politica intercittadina, che tende a configurarsi come uno Stato regionale, emarginando la comunità cittadina (fondamento della democrazia comunale) da tutte le funzioni di governo. Il principe unifica nella sua persona le signorie di più città. Agli organi elettivi si sostituisce una burocrazia di emanazione del principe. Guerre, paci e conquiste divengono fatti personali del principe e dell’oligarchia che lo appoggia. Il principe governa come un sovrano assoluto, dispone di soldati mercenari e forma alla propria Corte un corpo di diplomatici assai competenti. La lotta politica degrada a intrighi di palazzo, restando chiusa nei confini dell’oligarchia dominante.

Sulla formazione delle monarchie nazionali

Durante tutto il 1200 il declino dell’Impero e del papato (che aspiravano all’egemonia universale) si era manifestato parallelamente al rafforzamento delle monarchie accentrate e assolutistiche in Francia, Inghilterra e Spagna, mentre la situazione politica in Italia, Germania, Europa settentrionale e orientale, continuava a presentare i caratteri di una marcata frammentazione del potere. Nel XIV sec. si rafforzò la Confederazione Elvetica, affermandosi come potenza militare di tutto rispetto.

Il consolidarsi delle grandi monarchie si manifestò attraverso il ridimensionamento del potere nobiliare, l’ascesa di nuovi ceti (borghesia e piccola nobiltà), l’ampliamento della base territoriale della corona, la centralizzazione amministrativa, il potenziamento dell’organizzazione fiscale, la formazione di eserciti permanenti (non mercenari né dipendenti dalle disponibilità dei feudatari) e l’aumento delle spese militari dovuto all’impiego massiccio dell’artiglieria, la formazione infine di una lingua nazionale. Le monarchie ottennero il controllo esclusivo del diritto di battere moneta, poterono riscuotere imposte indirette (dazi doganali, tasse sui prodotti di prima necessità), introdussero anche forme d’imposizione diretta (pratica sconosciuta nel Medioevo. Si ricordi che secondo la tradizione medievale il re poteva trarre i propri mezzi finanziari solo dalle terre di sua diretta proprietà).

Francia

Dopo la deposizione di Carlo il Grosso (887) e la fine della dinastia carolingia, i maggiori signori feudali elessero re di Francia Ugo Capeto (897), il quale iniziò la nuova dinastia dei Capetingi. Ma con la fine della dinastia carolingia si fa iniziare il processo europeo di formazione dei regni nazionali, in quanto i feudatari francesi e tedeschi che deposero Carlo il Grosso, stabilirono che ogni regione avrebbe dovuto provvedere a sé con governanti propri. L’ideale del Sacro romano impero si spostò dalla Francia alla Germania, coinvolgendo in parte anche l’Italia.

La Francia si costituì in grande monarchia nazionale in seguito alla guerra dei Cento anni (1337-1453), con cui scacciò gli inglesi dal suo territorio. I re inglesi, in virtù di una politica matrimoniale, possedevano vasti territori nella Francia occidentale. La guerra scoppiò appunto perché il re inglese Edoardo III rivendicava una successione al trono francese, in seguito all’estinzione del ramo diretto della dinastia dei Capetingi (Edoardo era nipote dell’ultimo re capetingio). La guerra sarà vinta dalla monarchia francese, ma solo dopo che questa riuscì a convincere il partito borgognone di Carlo il Temerario (che mirava a costituire uno Stato indipendente nella Francia nord-orientale) a rompere l’alleanza con gli inglesi. Eroina nazionale fu Giovanna d’Arco.

Carlo VII, per abbattere poi il potere della nobiltà (Carlo il Temerario era il più potente feudatario di F.), riprese l’alleanza col Terzo Stato (borghesia), rafforzò l’esercito e la burocrazia. La monarchia francese era in grado di riscuotere una serie di imposte senza l’autorizzazione degli Stati Generali, disponeva di funzionari statali addetti alle amministrazioni finanziarie e giudiziarie, seppe imporre una coerenza più stretta fra politica ecclesiastica e interessi francesi, aveva costituito l’esercito più numeroso d’Europa, mirò a espandersi con Carlo VIII, che scese in Italia nel 1494, e a contenere la potenza asburgica (pace di Cateau-Cambresis nel 1559, con cui la Francia, pur uscendo sostanzialmente sconfitta, ottenne che l’impero di Carlo V fosse diviso tra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando).

Dopo la Riforma protestante, il 20% dei francesi divenne calvinista (specie nel Sud rurale). Dal 1562 al 1592 il Paese conobbe otto guerre di religione. Il momento più tragico fu la strage di migliaia di ugonotti (calvinisti) a Parigi nel 1572. Dopo questa strage cominciò a farsi strada l’idea che alla base della legittimità del potere regio doveva esserci non solo il diritto divino ma anche il consenso popolare, per cui non si escludeva il regicidio. Tuttavia, Enrico IV di Borbone garantì agli ugonotti con l’Editto di Nantes (1598) la libertà di culto, la possibilità di svolgere funzioni pubbliche, ecc.

Inghilterra

La storia dell’Inghilterra si può dividere in 3 periodi:

1) Normanno (1066-1135), iniziato con Guglielmo il Conquistatore;

2) Plantageneti (1154-1399), che combatterono contro la nobiltà feudale, ma senza successo. Anzi, con la Magna Charta Libertatum (1215), la nobiltà riesce ad ottenere il regime monarchico costituzionale e con le Provvisioni di Oxford (1258) ottiene il Parlamento, che si divide in Camera Alta (LORD = nobili e alto clero) e Camera Bassa (COMUNI = borghesia e piccola nobiltà);

3) Lancaster (1399-1461), che cercarono di trasformare l’Inghilterra da Stato agricolo a Stato commerciale-industriale, ma la nobiltà vi si oppose con successo.

L’Inghilterra si costituì in grande monarchia nazionale dopo la guerra delle Due Rose (BIANCA = YORK e ROSSA = LANCASTER) che rifletteva la lotta tra Corona e Parlamento (1455-85). La guerra fu causata da contese dinastiche, ma la motivazione economica principale dipese dalla rivalità tra borghesia (che appoggiava la Corona) e la nobiltà (che, rovinata dalla guerra dei Cento Anni, cercava di ottenere dalla monarchia privilegi maggiori. Il Parlamento serviva appunto alla nobiltà per controllare il re, il quale, per questa ragione, cercava di convocarlo il meno possibile).

La guerra si concluse con la vittoria dei Lancaster, che posero sul trono Enrico VII (1485-1509), fondatore della dinastia dei TUDOR. L’anno dopo, in segno di pacificazione, Enrico VII sposò Elisabetta, della casata di York. Il re tolse al Parlamento molte funzioni, confiscò alla grande nobiltà molte proprietà (vendendole alla piccola e media borghesia), fece alcune riforme amministrative appoggiandosi alla piccola nobiltà. L’Inghilterra cominciò a diventare una nazione commerciale e industriale.

Con Enrico VIII (1509-1547) la corona inglese si allontana dalla chiesa di Roma e istituisce una chiesa di stato (anglicana) con a capo lo stesso re (senza toccare i dogmi cattolici). Buona parte dei redditi degli ecclesiastici passò alla corona con la riscossione delle decime e la secolarizzazione dei latifondi. L’Inghilterra, soprattutto con Elisabetta I (1558-1603), cercherà di essere molto accorta in materia di politica religiosa, al fine di evitare inutili guerre intestine: da un lato appoggerà apertamente i protestanti, dall’altro eviterà di perseguitare i cattolici.

Spagna e Portogallo

La storia della Spagna si può dividere in due periodi:

1) dominazione araba (711-1212), che dopo il 1212 riuscì a conservare solo il regno di Granata: il resto venne riconquistato dai cristiani di Spagna;

2) dominazione cristiana (1212-1494), in cui la Spagna presenta 4 regni: Navarra, Portogallo, Castiglia e Aragona.

Dei 4 regni, il Portogallo sarà impegnato in imprese marinare sull’Atlantico: il suo obiettivo era quello di raggiungere le Indie navigando lungo le coste africane; la Castiglia-Navarra rimasero aristocratico-militari, soggette all’anarchia nobiliare; l’Aragona diventerà più borghese, interessata al Mediterraneo (voleva togliere a Genova e Venezia il monopolio del commercio con l’oriente). La monarchia aragonese infatti s’impadronì della Sicilia (inizi ‘300, dopo 20 anni di guerra contro gli angioini francesi: guerra del Vespro), Sardegna (metà ‘300) e regno di Napoli (metà ‘400), ma trascurò la politica interna, per cui, a unificazione avvenuta, l’egemonia passerà alla Castiglia.

L’evento decisivo per la formazione della monarchia nazionale spagnola fu il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia (1469). Questa monarchia riuscì a reprimere l’anarchia feudale, ottenere l’appoggio della borghesia, evitando di convocare le Cortes (Stati Generali, dove la nobiltà poteva esercitare ampi poteri), riconquistare l’ultimo territorio rimasto in mano araba (regno di Granata). Si avvalse anche dello strumento dell’Inquisizione (1478) per punire il nemico della fede cristiana e il ribelle politico. Tuttavia le persecuzioni contro gli arabi (ottimi agricoltori) e gli ebrei (attivi commercianti) finì per danneggiare l’economia spagnola. Spagna e Portogallo aprirono la strada alle conquiste coloniali oltreoceano.

La transizione dal feudalesimo al capitalismo

Nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo furono senz'altro indispensabili il perfezionamento della tecnica, la divisione del lavoro, vasti mercati, grandi manifatture, concentrazioni di capitali. Ma oltre a ciò, fu necessaria anche una buona dose di fiducia in un futuro migliore, non molto lontano, quella di credere che, emancipandosi dal servaggio o dalla coercizione corporativa, si potesse diventare più liberi senza fare alcuna rivoluzione sociale. In questo senso contadini e artigiani s'illusero pensando che, per emanciparsi veramente, fosse sufficiente partecipare con la borghesia alla rivoluzione politica antifeudale. L'illusione stava appunto in questo, nel credere che dalla rivoluzione politica potesse scaturire automaticamente anche quella sociale, cioè che una mera rivendicazione giuspolitica di diritti fosse sufficiente per la democrazia sociale.

Era giusto emanciparsi dalla condizione servile che il feudalesimo imponeva, ma nel farlo bisognava assicurarsi di non finire in una condizione sociale peggiore. In che modo? Impedendo alla borghesia di guidare da sola la rivoluzione politica o comunque di non gestirne da sola i risultati conseguiti.

L'individualismo così si è accentuato. Il benessere è aumentato solo per pochi. E' vero, in Europa occidentale il benessere, col tempo, ha riguardato sempre più persone, ma solo perché, grazie al colonialismo e all'imperialismo, la miseria e l'indigenza sono state trasferite nel Terzo Mondo. Se non ci fosse stata la conquista dell'America, dell'Africa e in parte dell'Asia, l'Europa occidentale sarebbe andata incontro a una catastrofe economica, o forse il Medioevo sarebbe stato più lungo, oppure, a fronte delle insanabili crisi del capitalismo emergente, si sarebbe passati dal feudalesimo al socialismo. L'Europa occidentale ha potuto supplire alla mancanza di una "democrazia" interna (che l'Europa ortodossa dell'est invece parzialmente aveva) grazie appunto al colonialismo.

Gli storici devono smetterla di considerare il capitalismo come un progresso rispetto al feudalesimo. Il feudalesimo poteva evolvere verso il benessere perfezionando gli strumenti produttivi, da un lato, e compiendo una riforma agraria dall'altro, tale per cui i contadini fossero veramente padroni della loro terra, così come tutti gli artigiani, associati in cooperativa, avrebbero dovuto esserlo della loro corporazione, e gli operai della loro manifattura. Non c'era alcun bisogno di sconvolgere un sistema produttivo sostanzialmente legato alla natura con un sistema produttivo così artificiale e disumano.

Il capitalismo ha provocato dei guasti d'incalcolabile portata: ha separato il lavoratore dai mezzi di produzione (rendendo tutta la vita sociale e privata profondamente alienante); ha separato il produttore dal consumatore, mettendo quest'ultimo nelle mani dell'altro; ha subordinato tutto alla logica del profitto e dell'interesse (rendendo cinici i rapporti umani); ha creato delle istituzioni statali, burocratiche e amministrative, politiche, giudiziarie e militari che tolgono agli individui qualunque forma di libertà, di sicurezza e di responsabilità; ha saccheggiato le risorse di interi Paesi, regioni e continenti senza dare nulla in cambio, se non tutte quelle cose che servono ad arricchire le metropoli occidentali; ha danneggiato l'ambiente in maniera irreparabile, nell'illusione di poter ricostruire con la scienza e la tecnica ambienti sostitutivi di quelli naturali; ha scatenato centinaia di guerre, anche mondiali, con milioni e milioni di morti. Come stupirsi se in queste condizioni vi sono state nazioni legate al feudalesimo sino al secolo scorso e che dal feudalesimo sono volute passare direttamente al socialismo?

Ovviamente non ha senso fare dei confronti con due sistemi così diversi: qui si vuole soltanto precisare che non si può "condannare" il feudalesimo in nome del capitalismo. Ogni sistema va esaminato per le proprie contraddizioni interne. E' sulla base di queste contraddizioni che bisogna cercare di capire quante possibilità c'erano di creare la transizione da un sistema all'altro.
Perché la Cina o qualche Paese arabo non sono diventati capitalisti nel XVI sec.? Se riusciremo a comprendere i motivi per cui né la Spagna né il Portogallo sono diventate nazioni capitalistiche, pur avendo inaugurato il moderno colonialismo, troveremo relativamente facile rispondere alla suddetta domanda.

La storia ha dimostrato che per entrare nella via del capitalismo non è sufficiente avere una tecnologia abbastanza sviluppata o dei commerci molto avanzati, oppure delle contraddizioni feudali molto forti: occorre anche una mentalità, una forma di cultura particolare. Questa mentalità è mancata alla penisola iberica, troppo cattolica per essere pienamente, consapevolmente capitalistica, ed è mancata alle due grandi nazioni asiatiche: Cina e India, caratterizzate da due religioni della rassegnazione: Induismo e Buddismo.

Nei tempi in cui sono nati il capitalismo e il colonialismo, l'ideologia dominante, in Europa occidentale, era quella religiosa (prima cattolica, poi protestante). E' qui che vanno ricercati i motivi sovrastrutturali che hanno permesso un fenomeno così perverso.
Con uno studio molto approfondito si dovrebbe scoprire in quali enunciati teorici della teologia e della filosofia cattolica e protestante, si possono rintracciare le motivazioni culturali che hanno spinto gli uomini (anche inconsciamente) ad accettare il capitalismo e il colonialismo, nonché quelle motivazioni che (questa volta consapevolmente) sono state usate per giustificare la nuova formazione sociale. Cioè vanno ricercate quelle motivazioni che sono servite per legittimare direttamente o indirettamente (involontariamente) il capitalismo, e quelle motivazioni che sono state usate per contrastarlo praticamente o per condannarlo solo teoricamente.

Questo significa che non è più possibile scindere lo studio della storia da quello dell'ideologia (dominante, soprattutto), sia essa di tipo filosofico, religioso o politico. La storia deve diventare anzitutto la storia dell'economia in stretta correlazione con la storia del pensiero, nel senso weberiano che l'economia va vista come riflesso del pensiero, e nel senso marxiano che il pensiero va visto come riflesso dell'economia.

Le scelte, tra una formazione sociale e l'altra, tra una modalità e l'altra all'interno di una stessa formazione, si fanno sempre in un contesto di relativa libertà, altrimenti saremmo costretti ad ammettere l'inevitabilità della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Certo, vi possono essere dei processi sociali ed economici che oggettivamente, se non intervengono delle controtendenze, possono portare al capitalismo, ma se ad un certo punto non v'è un determinato consenso sociale (di massa), questi processi non vanno avanti. Gli uomini possono dare un consenso inconsapevole a certi fenomeni, ma sino a un certo punto, poiché ogni fenomeno contiene in sé delle contraddizioni che a posteriori possono essere individuate e superate (il superamento è tanto più facile quanto più è veloce l'individuazione e decisa la volontà). E' assolutamente falso affermare che la storia è un "processo senza soggetto".
Il determinismo economico non è certo in grado di spiegare il motivo per cui il capitalismo s'è sviluppato proprio in Europa occidentale e soprattutto nell'area geografica di religione protestante. E neppure è in grado di spiegare perché i Paesi di religione cattolica sono diventati capitalisti conservando solo la "forma" della loro religione. Questo non sta forse a dimostrare che fra cattolicesimo e protestantesimo non esistono differenze sostanziali, nel senso che l'uno non è che il rovescio dell'altro?

Solo così riusciremo a capire il motivo per cui i Paesi che non hanno conosciuto né il cattolicesimo né il protestantesimo si sono adeguati più facilmente alla realtà del socialismo, e perché  i Paesi che non hanno conosciuto alcuna forma di cristianesimo, fanno molta fatica ad adeguarsi al capitalismo, volgendo piuttosto la loro attenzione verso il socialismo. Non è forse vero che il socialismo democratico vuole essere il recupero, ovviamente in forma diverse, più consapevoli, dello spirito del comunismo primitivo?

Il cristianesimo è la religione col più alto tasso di ambiguità della storia. La sua dialettica, le sue contraddizioni, soprattutto fra teoria e pratica, sono assolutamente inconcepibili per qualunque altra religione. Non è infatti immaginabile, in maniera naturale e spontanea, che si possano affermare le cose più sublimi di questo mondo e nello stesso tempo compiere le azioni più abominevoli. Occorre un livello di alienazione, di sdoppiamento della personalità, particolarmente elevato, non meno grande del livello di profondità di pensieri e di sentimenti.

Il cristianesimo ha dato all'umanità un'autoconsapevolezza prima impensabile. Ma, proprio per questo motivo, le ha dato anche una sicurezza, un coraggio, una fiducia in se stessa che nessun'altra religione ha mai saputo dare. Ora, ci si rende facilmente conto che se si vive questa sicurezza non per migliorare le cose, ma per giustificare un contesto caratterizzato da valori o da comportamenti negativi, il risultato che si ottiene col cristianesimo sarà infinitamente più disastroso. Se l'ideologia cristiana non viene vissuta in un contesto sociale comunitario (ma questo implica una revisione totale dell'interpretazione e delle modalità applicative dei vangeli), la tendenza sarà sempre quella ad usare il cristianesimo per colmare in misura irrazionale l'insopportabile scarto esistente fra metodo e contenuto.

Dal feudalesimo al capitalismo: il ruolo dell’ideologia

Nel capitalismo il diritto apparentemente è più importante della forza, ma nella realtà il diritto è in funzione della forza, cioè la forza economica del proprietario privato, per imporsi sul cittadino, ha bisogno di travestirsi coi panni del diritto. Perché questa finzione?
Nel feudalesimo la teologia serviva per consolare il servo della gleba che subiva un rapporto violento, basato sulla forza, cioè sulla cosiddetta coercizione extra-economica. Il contadino era costretto a lavorare e a produrre plusvalore perché il feudatario lo minacciava con la sua forza. E la chiesa lo consolava promettendogli d'intercedere presso il feudatario e garantendogli la fine di quel rapporto nell'aldilà. La teologia veniva usata, nello stesso tempo, per legittimare quel rapporto e per cercare di renderlo più sopportabile.

La differenza tra diritto e teologia sta nel fatto che il primo ha la pretesa di garantire la libertà sulla terra e non nel cielo. Sia il diritto che la teologia agiscono prima e dopo i fatti dell'economia, al fine di promuoverla e di legittimarla, ma il diritto vuole apparire come uno strumento di emancipazione della borghesia dalla teologia e dai rapporti feudali. Solo in questo senso la borghesia può sperare che la "nuova scienza" venga accettata dal servo della gleba, che, lottando contro il feudalesimo lotta anche contro la teocrazia.

Il diritto rappresenta un'ipocrisia maggiore proprio perché sul piano economico l'antagonismo tra proprietario e lavoratore si riproduce in forme diverse ma non meno opprimenti. Il contratto, nel lavoro salariato, offre l'illusione di una libertà superiore a quella della dipendenza personale dell'epoca feudale, ma essendo di molto aumentati gli standard vitali, ora per il contadino neo-operaio la rottura di quel contratto comporta immediatamente una situazione disperata.
L'illusione borghese è superiore perché superiore è l'alienazione. Mentre nel feudalesimo era la dipendenza personale che imponeva lo sfruttamento, nel capitalismo invece è la libertà personale (giuridica) del lavoratore che impone un diverso sfruttamento, uno sfruttamento così particolare che lo stesso lavoratore è diventato una "merce" da acquistare sul mercato del lavoro.
Il diritto ha svolto le stesse funzioni della teologia all'alba del feudalesimo. Infatti, all'origine del rapporto feudale la teologia ebbe lo scopo d'illudere lo schiavo sulla possibilità della libertà nel servaggio. Tale cultura, invece che spingere gli schiavi alla rivolta contro i padroni, li convinse ad accettare una diversa forma di rapporto di lavoro, facendo credere loro che con un proprietario cristiano il rapporto sarebbe stato meno oppressivo.

All'origine di una formazione sociale antagonistica, che segue un'altra formazione antagonistica, deve per forza esserci una cultura illusoria, che è tale anche senza saperlo, in perfetta buona fede e nella convinzione di poter modificare qualitativamente l'oppressione sociale.
E' proprio questa cultura che impedisce la transizione democratica. Ma per poterla impedire essa deve offrire l'illusione di poterla superare. Là dove c'è un antagonismo in atto, lì deve esserci un'ideologia che lo giustifica: in questo caso era il paganesimo. Oltre a ciò deve anche esserci un'ideologia che lo contesta e che cerca di superarlo: in questo caso il cristianesimo. E' stato appunto il cristianesimo che nel tentativo di superare lo schiavismo ha contribuito alla nascita del servaggio. Lo storico non deve fare altro che esaminare l'efficacia democratica delle ideologie progressiste.

Il fatto che nell'Europa orientale il feudalesimo fu più stabile di quello occidentale dipese dalla diversità delle culture: ortodossa e cattolica. Nell'est-europeo ci fu meno contestazione nei confronti del servaggio (come minore fu quella nei confronti dello schiavismo) perché meno forti erano le contraddizioni antagonistiche. Quando queste contraddizioni divennero insopportabili, si finì col rifiutare, con esse, anche la soluzione capitalistica prospettata in occidente. Ciò sta appunto a significare la superiorità della cultura est-europea.

Tuttavia, la stabilità del feudalesimo si verificò anche in Asia, cioè sotto la cultura indo-buddista. Questo fatto può essere spiegato pensando alla limitatezza di quella cultura, che non ha saputo elaborare autonomamente una critica del feudalesimo. Questa cultura sarebbe stata incapace di elaborare un'illusione così sofisticata come quella euroccidentale. La critica del feudalesimo essa l'ha acquisita dopo essere venuta a contatto con la civiltà borghese e l'ideologia socialista.
Il fatto che in Asia il capitalismo non si sia affermato come in Occidente (a parte il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Macao…), sta però a significare che il feudalesimo asiatico aveva conservato delle tracce del comunismo primitivo o comunque del modo di produzione asiatico, che è di tipo socialistico, seppure in forma autoritaria e massificante.

In tal senso è parso più naturale (soprattutto in quelle nazioni ove l'ideologia è più democratica e i rapporti sociali sono più collettivistici: si pensi alla Cina buddista) il passaggio diretto dal feudalesimo al socialismo. In Cina, Vietnam, Corea del Nord, Mongolia ecc. è avvenuta la stessa cosa che è avvenuta nell'Europa orientale, solo che qui il passaggio è stato mediato dal cristianesimo e non dal buddismo. Probabilmente è stato lo scarso peso dato all'individuo singolo che ha indotto il socialismo asiatico ad essere così burocratico e autoritario. Sarebbe interessante, in questo senso, cercare di capire se lo stalinismo è una variante del socialismo asiatico o se invece rappresenta un'anticipazione del socialismo che si affermerà in Europa occidentale.

Per una teoria del crollo del feudalesimo

Quando si parla di "crollo del feudalesimo", non si può affermare che le cause principali sono state quelle esterne al sistema, e cioè il commercio, il valore di scambio, il denaro ecc.
La causa principale del crollo di un sistema antagonistico, generalmente va cercata nell'antagonismo stesso. Ovviamente questo non significa che nella lotta delle classi, quella oppressa non possa servirsi di elementi esterni al sistema (o marginali, periferici) per influire negativamente su quelli interni, accelerandone la dissoluzione.

Quando si afferma che il feudalesimo crollò a causa del sempre crescente lusso della nobiltà, la quale, avendo bisogno di contanti, prese a sfruttare massicciamente i contadini, che fuggirono verso le città; quando cioè si afferma che la causa del crollo fu il commercio a lunga distanza, non ci si rende conto di confondere la causa con l'effetto. Lo sviluppo del commercio infatti è già una conseguenza della crisi del feudalesimo, che è interna al sistema.

Se non si accetta questa spiegazione, si deve poi attribuire al caso il crollo di un sistema antagonistico, non avendo alcuna fiducia nelle capacità di lotta delle classi oppresse.
Il secondo servaggio, cui andarono incontro alcune nazioni o alcune regioni di alcune nazioni europee, nel momento in cui in altre nazioni (o in altre regioni) s'andava sviluppando il capitalismo, dipese appunto dall'arretratezza della cultura, che non sapeva trovare un'alternativa al servaggio né in modo borghese, né in modo democratico, ma soltanto modificando il rapporto feudale, trasformando cioè la rendita in natura in rendita monetaria, ovvero il servo della gleba in un mezzadro, oppure creando una proprietà fondiaria di tipo usuraio. Questo fu possibile anche perché il commercio liquidò la classe dei piccoli contadini indipendenti.

Il capitalismo industriale delle nazioni borghesi indusse i feudatari ad adeguarsi alle circostanze, ed essi lo fecero sulla base della loro arretrata cultura. La rendita monetaria non faceva che acutizzare le contraddizioni del feudalesimo.
In Asia invece continuò a prevalere la rendita in natura e da questa rendita, attraverso la lotta di classe, si passò al socialismo.

Sulla differenza tra schiavismo, feudalesimo e capitalismo

La principale contraddizione antagonistica della nostra epoca è quella determinata dall'economia: i proprietari privati accumulano capitali per acquisire un potere politico. Quanti più ne accumulano, tanto più è grande il potere politico. Per poter realizzare tale scopo il capitalista è disposto a tutto. Nei confronti del capitale, del denaro, vi è completa soggezione.

Nell'antichità feudale e schiavista la contraddizione antagonistica prevalente non era di natura così astratta, così artificiale, così sofisticata: era di natura "fisica". Quanti più schiavi o servi della gleba si possedevano (da far lavorare come contadini e artigiani), tanto più potere politico si disponeva.
Il feudalesimo, in tal senso, è stato molto più vicino allo schiavismo che non al capitalismo. Il capitalismo ha potuto formarsi dentro il feudalesimo euroccidentale, ma ad un certo punto ha dovuto rompere con la "fisicità" di quella forma d'antagonismo per poterne creare una nuova. In un certo senso il capitalismo ha simbolizzato, materializzandolo nella forma astratta del capitale, lo sfruttamento del servo della gleba. Ha cioè dovuto trasformare una contraddizione "fisica" (la dipendenza personale del servaggio) in una contraddizione "economica" (la falsa libertà personale del lavoratore salariato).

Il capitalismo è stato costretto a questa finzione perché la resistenza del servo della gleba alla contraddizione "fisica" era ormai diventata molto grande ed essa non avrebbe permesso la riedizione, più o meno simile, di quell'antagonismo. L'antagonismo, di fronte alla consapevolezza della necessità del suo superamento, ha dovuto perfezionarsi per poter sopravvivere. In questo andrebbero analizzati tutti i movimenti contadini di protesta anteriori a quelli borghesi.
Il denaro resta un'astrazione anche quando permette di acquisire un potere politico. Esso non avrà mai la concretezza di uno schiavo o di un servo della gleba. Si possono accumulare capitali all'infinito (sempre che gli operai lo permettano), non si può sfruttare uno schiavo o un servo aldilà di un certo limite: sia perché si rischia di farlo morire (e di ciò si può non tener conto solo se gli schiavi o i servi a disposizione sono in grande quantità), sia perché l'accumulo di derrate alimentari superiori al fabbisogno del proprietario è per forza di cose limitato, specie se esse sono deperibili.

Con l'uso del denaro, inteso come scambio equivalente delle merci, tutti questi problemi sono stati superati. Allo sfruttamento "estensivo", relativo, della manodopera si è sostituito quello "intensivo", assoluto (che diventa relativo solo se la manodopera si oppone con la forza allo sfruttamento).
L'economia ha sostituito la fisicità dell'antagonismo, non solo acuendo lo sfruttamento del lavoratore, ma estendendone anche i confini geografici. Interi popoli della terra sono entrati nella storia del capitale solo come "sfruttati". Il servaggio non poteva avere un'esigenza di universalità, poiché il rapporto di dipendenza personale, per quanto gerarchizzato fosse, non conosceva la possibilità di usare il denaro come equivalente universale, cioè non aveva la capacità di servirsi di una finzione a livelli così elevati. Oggi tuttavia per la prima volta un'opposizione all'antagonismo può diventare di tipo universale.

Ci si può chiedere se in futuro non esisterà un'altra forma di antagonismo, ancora più sofisticata di quella economica, che possa permettere l'acquisizione di un potere politico. Una forma analoga a quella stalinista o maoista, basata su una sorta di potere carismatico (soggettivo) e ideologico (oggettivo) della persona. Una forma cioè che dopo essere maturata in un'esperienza collettivistica s'imponga in maniera individualistica, servendosi del collettivismo in modo burocratico. L'acquisizione del potere a partire da ideali di giustizia sociale e di libertà, e poi l'uso del potere acquisito contro questi stessi ideali: ecco la sostanza dello stalinismo. Solo delle motivazioni interiori (non legate quindi al denaro né alla proprietà di alcunché) possono determinare un rivolgimento del genere.

Nascita dell'Europa Moderna

Una questione che gli storici devono esaminare più approfonditamente è quella di sapere se l'impero bizantino avrebbe potuto affrontare meglio l'espansione islamica se non avesse dovuto subìre l'invasione latina delle crociate; oppure se Costantinopoli sarebbe ugualmente caduta in mano turca, in quanto aveva insanabili contraddizioni interne.

Ciò che infatti più stupisce dell'impero bizantino è che di esso non è rimasto niente proprio nel territorio geografico in cui è stato più presente: la Turchia (senza considerare i Paesi arabi limitrofi).
L'ideologia ortodossa dell'impero bizantino, che era allora tra le più sofisticate del mondo, venne ereditata da un Paese, la Russia, che a quel tempo era tra i più arretrati. E venne ereditata accentuando gli elementi soggettivi della fede (misticismo, ascetismo, sacrificio di sé sino al martirio) oppure gli elementi iconografici (vedi Rublev), perdendo di vista la sobria oggettività della tradizione greca. L'eccessivo soggettivismo e fatalismo russo porterà poi, di riflesso (o per reazione), a un'ipertrofia dell'apparato statale e burocratico, ovvero al dogmatismo ideologico delle classi dirigenti e alle continue eresie delle classi senza potere.

Anche nell'Europa occidentale (soprattutto in Italia) si ereditò qualcosa della cultura bizantina: il rapporto col platonismo. Incapace di confrontarsi con l'alta idealità dell'ortodossia (del grande Palamas in occidente non rifluì praticamente nulla), il cattolicesimo latino, già ampiamente laicizzato dopo la riscoperta dell'aristotelismo, preferì sviluppare il lato intellettualistico della confessione bizantina, cioè i nessi tra teologia e filosofia.

Durante l'Umanesimo l'occidente europeo stava vivendo una forte laicizzazione della fede (soprattutto in Italia): ciò non poteva comportare -come nella Russia di quel periodo- un maggiore approfondimento esistenziale della religione. Il soggettivismo religioso occidentale s'identificò immediatamente con la riscoperta filosofica del platonismo, ovvero con la rinascita del neoplatonismo (un'esperienza che sembrava essersi esaurita con Plotino e che la riscoperta accademica di Aristotele sembrava aver concluso per sempre). Invece il neoplatonismo venne cristianizzato con l'ideologia ortodossa e usato in funzione anti-aristotelica. In Russia non si sviluppò una teologia veramente originale, ma solo un'originale esperienza della fede (e dell'arte religiosa); in Italia si sviluppò una sorta di filosofia religiosa che non aveva né il rigore della classica teologia bizantina né la laicità del pensiero umanistico.

D'altra parte la religione in Italia veniva conservata per motivi esclusivamente politici (almeno da parte delle autorità), in quanto il papato era una forza politico-militare: tra gli intellettuali esso non suscitava più un vero interesse, né culturale né esperienziale.

Tuttavia, la riscoperta del platonismo non ha aiutato l'occidente a superare il limite politico e ideologico del cattolicesimo latino, e per una semplice ragione: l'umanista era un individualista che si teneva lontano dalle istanze delle masse popolari (quelle contadine soprattutto). Il neoplatonismo cristiano fu un'esperienza di pochi intellettuali, e non ebbe mai una caratteristica sovversiva. Mentre in Russia l'acquisizione soggettiva della fede era diventata un fenomeno popolare, in Italia l'acquisizione del platonismo restò sempre un fenomeno d'élite e, tutto sommato, regressivo, almeno rispetto all'approfondimento scientifico dell'aristotelismo (che avvenne anzitutto ad opera di R. Bacone). In Europa occidentale l'esperienza religiosa più significativa fu quella della Riforma, che fu in realtà un processo di emancipazione dalla religione tradizionale, e quindi un'altra forma di laicizzazione della fede.

La chiesa cattolica, infatti, dopo un primo momento favorevole alle tesi conciliariste e federative (espresse nel Concilio di Costanza del 1419), seppe riporre il proprio potere su basi monarchiche e assolutistiche (Concilio di Basilea del 1431-49). La chiesa pagò questo rigido conservatorismo, questa anacronistica centralizzazione clericale perdendo mezza Europa, e senza riuscire ad avere una forte influenza né in Francia (a causa del gallicanesimo) né successivamente in Austria (a causa del giuseppinismo). L'impero di Carlo V fu senz'altro cattolico-conservatore, ma, a parte il fatto ch'esso s'infranse subito contro la dura realtà delle cose, la chiesa cattolica non riuscì mai a servirsene come nei secoli medievali. Dopo Bonifacio VIII, la religione cattolica sarà sempre più uno strumento ideologico nelle mani delle monarchie nazionali.

La chiesa romana però riuscì ad impedire che nell'area del cattolicesimo latino si formasse un movimento di massa che s'ispirasse alle idee laiche dell'Umanesimo. Occorrerà attendere la Rivoluzione francese prima che in Europa si possa riproporre l'idea di un'alternativa laica all'ideologia e alla prassi clericale del cattolicesimo feudale (che tale si riconfermò nel Concilio di Trento).

L'Italia, che aveva promosso per prima un notevole processo di laicizzazione, si troverà, da un lato, a non poterlo proseguire per le divisioni interne (tipicamente borghesi) fra Signorie e Stati, mentre, dall'altro, si troverà a non saper neppure "riformare" la religione, come stava accadendo in molta parte d'Europa. La borghesia italiana, che già si sentiva superiore a qualunque forma di religione, sarà poi costretta a convivere -a causa della propria incapacità a realizzare la democrazia- con la confessione più arretrata d'occidente.

Qui però bisogna fare una precisazione. L'esigenza di realizzare la democrazia non deve essere vista -come fanno molti storici- come strettamente subordinata all'esigenza di realizzare l'unificazione nazionale. Effettivamente nel resto d'Europa le varie monarchie, con l'aiuto della borghesia, erano riuscite a ridimensionare di molto l'autonomia della privilegiata classe feudale, che ostacolava ogni centralizzazione politica e ogni unificazione nazionale per poter garantire i propri grandi privilegi.

Ecco, nei confronti di tale atteggiamento feudale, l'operato delle monarchie e delle borghesie fu senz'altro progressista per le sorti dei vari Paesi. Tuttavia, la centralizzazione monarchica e la stessa unificazione nazionale avvennero non con l'aiuto delle classi più povere (contadini soprattutto) ma, anzi, contro i loro stessi interessi, poiché a partire da questo momento i contadini avranno a che fare con due oppressori: il signore locale (sempre sufficientemente potente per continuare ad opprimere) e la monarchia centralizzata (bisognosa di tasse, di eserciti, di burocrazia ecc.).

Ciò sta a significare che se la borghesia avesse cercato l'appoggio delle masse contadine contro la feudalità, l'unificazione nazionale sarebbe potuto avvenire senza centralizzazione, ma in modo da rispettare l'autonomia locale, nella quale il potere del feudatario sarebbe stato notevolmente ridimensionato dall'esproprio delle terre. Il fatto che l'unificazione nazionale sia avvenuta in ogni parte d'Europa secondo il modello della centralizzazione assolutistica e monarchica non deve farci credere che quella fosse l'unica alternativa possibile: era l'unica alternativa che poteva avere una borghesia lontana dalle esigenze dei contadini.

Davvero il potere della chiesa non avrebbe potuto essere sconfitto senza l'unificazione nazionale centralizzata nella persona del re? No, non è vero, poiché il potere della chiesa avrebbe potuto essere sconfitto più lentamente e più in profondità, se solo si fosse lasciato ai contadini dello Stato della chiesa il compito di liberarsi dal giogo clerico-feudale, dopo aver visto esempi analoghi in altri territori.

Le moderne monarchie centralizzate non furono che un tentativo politico d'imporre con la forza alle classi feudali (nobili, clero e contadini) non tanto un'ideologia più progressista (ciò avverrà solo con le rivoluzioni borghesi vere e proprie), quanto un'esigenza di rinnovata prassi socioeconomica manifestata da una classe emergente, imprenditoriale, legata non solo ai commerci ma anche alle manifatture. Monarchia e borghesia nel XVI sec. si appoggiarono a vicenda, anche se in ultima istanza sarà la monarchia a giocare, ancora con clero e nobiltà, il ruolo politico prevalente.
La Francia, in questo senso, rappresenta un'anomalia nel contesto europeo di quel tempo. In quanto "nazione cattolica" avrebbe dovuto fare la fine di Spagna e Portogallo, che non riuscirono a imporsi sulle nazioni protestanti. Invece divenne una delle nazioni più forti dell'Europa: per quale ragione? Anzitutto il cattolicesimo francese ha sempre cercato di conservare una propria indipendenza da quello italiano, non è mai stato così fanatico e intollerante come quello spagnolo, né così arretrato, sul piano culturale, come quello polacco; in secondo luogo il cattolicesimo in Francia veniva più che altro considerato politicamente, come una religione della nazione e non anzitutto del popolo (la differenza non è formale: si veda, in questo senso, l'esempio di Cartesio, cattolico e scettico allo stesso tempo); in terzo luogo, proprio a motivo dell'approccio politico al fenomeno religioso, in Francia si realizzò il curioso compromesso di cattolicesimo (a livello istituzionale) e di calvinismo (a livello sociale). Nelle colonie la Francia si comportava esattamente come una nazione protestante, legata più ai profitti che all'ideologia.

In fondo se la Francia, in un primo momento, fu superata dalle capacità colonialistiche della Spagna, ciò fu dovuto anche al fatto che la Spagna soffriva di contraddizioni assai maggiori fra necessità di conservare le tradizioni ed esigenza della modernità. La Francia sentiva il bisogno di avere una religione nazionale, ma non il bisogno di crederci. La Spagna invece, pur di dimostrare la propria fede religiosa, in un momento in cui il resto d'Europa aveva tutt'altre preoccupazioni nei confronti del cattolicesimo, si servì anche del colonialismo.

La rivoluzione francese dell'89 sarà violentissima sia perché il colonialismo non era così consistente come quello ispano-portoghese, sia perché la classe borghese aveva continuato a svilupparsi nell'ambito della monarchia assoluta (cosa che in Spagna invece non avverrà), sia perché, infine, si era dovuta soffocare sul nascere la Riforma protestante, ben sapendo che tale Riforma, esistendo già la nazione, non avrebbe avuto molta difficoltà a imporsi e a consolidarsi. La monarchia cattolica cercherà un compromesso politico con il protestantesimo, garantendo a quest'ultimo la libertà del culto, ma permettendo al cattolicesimo di restare la religione istituzionale.
In tal senso, la Rivoluzione francese non sarà che una Riforma protestante senza religione (o con una religione tutta interna ai limiti della ragione). Viceversa la Riforma, per i tedeschi, non fu che una rivoluzione senza politica e senza vera laicità. La Germania si darà, come "nazione", un obiettivo politico-laico solo alla fine dell'800, vivendo, in questo senso, un'esperienza analoga a quella italiana.

Non a caso il Nazismo e il Fascismo emergono quasi contemporaneamente. Essi si assomigliano perché sono il prodotto, in Germania, di una riforma religiosa (quella protestante) avvenuta senza rivoluzione politica; in Italia, di una riforma laica (quella umanistica) avvenuta anch'essa senza rivoluzione politica (quella rivoluzione politica che avrebbe permesso alla borghesia d'imporsi come classe politicamente egemone). Quando la borghesia tedesca e italiana andarono al potere, alla fine dell'800, i ritardi politico-istituzionali accumulati rispetto alle altre borghesie europee non potevano essere colmati che adottando forme estreme di dittatura. Le borghesie degli altri Paesi europei non volevano concorrenti di sorta nella spartizione colonialistica del mondo intero e neppure ovviamente nella produzione di determinate merci capitalistiche.

Le differenze tra nazismo e fascismo non sono poche. Molte comunque sono riconducibili al fatto che essendo stata la Riforma una fenomeno di massa, e non un fenomeno elitario come l'Umanesimo italiano, il nazismo possedeva una carica ideale superiore a quella del fascismo, il quale però, proprio per questa ragione, appariva meno pericoloso (meno intollerante) sul piano politico e ideologico.

Il caso più interessante comunque resta quello inglese. La corona riuscì a fare una riforma religiosa che accontentasse sia i cattolici che i protestanti, permettendo ad entrambi di avere rilevanza istituzionale. Non solo, ma la borghesia non ha avuto bisogno di ricorrere a una sanguinosa rivoluzione politica per imporsi, in quanto la nobiltà preferì accordarsi, adattandosi con intelligenza alle nuove esigenze del capitalismo.

L'Inghilterra ha avuto la nazione centralizzata quasi subito, la Riforma anglicana al momento giusto e pochissimo spargimento di sangue (la guerra delle Due Rose fu, rispetto ad altre rivoluzioni, un gioco da ragazzi). I veri problemi l'Inghilterra dovrà affrontarli dopo la metà del XVIII sec., quando la rivoluzione industriale creerà il proletariato urbano.

Sfruttando duramente i propri contadini e poi i propri operai (e poi, ancora più duramente, il sottoproletariato coloniale: cosa che permetterà un relativo benessere al proletariato inglese), l'Inghilterra diventò facilmente una potentissima nazione, che tale rimarrà sino alla IIa guerra mondiale. Non è singolare che l'Inghilterra abbia cominciato a servirsi della possibilità di emigrare oltreoceano non tanto per motivi economici (fare fortuna) quanto per motivi politici (estradare i dissidenti)? Il "blocco storico" realizzato tra borghesia, aristocrazia e clero fu così solido che praticamente l'Inghilterra ebbe la possibilità di diventare una grande nazione anche senza l'apporto delle colonie. L'uso delle colonie fu conseguente al fallimento di tale compromesso politico, in quanto le classi marginali risultavano particolarmente oppresse.

Capitalismo e cristianesimo

Come mai la rivoluzione borghese si è verificata prima che altrove in un'area geografica dominata dalla presenza del cristianesimo? Cosa ha impedito a tutte le altre religioni di conseguire i medesimi risultati?
Il motivo è semplice: il cristianesimo è la prima religione del mondo che pone l'uomo al centro del processo storico-universale. Esso da un lato ha ereditato l'ottimismo della cultura ebraica, la fiducia nelle capacità degli uomini, organizzati collettivamente, di trasformare l'ambiente in cui vivono, superando della cultura ebraica l'aristocraticismo dell'appartenenza a un "popolo eletto", a una delle dodici tribù, alla "nazione santa" ecc. (il che comportava chiusure e settarismi); dall'altro ha ereditato il cosmopolitismo dei popoli pagani (greco-romani soprattutto), superandone l'individualismo e l'intellettualismo: limiti che portavano a credere nei concetti passivi di "destino", "fato" ecc.
Tutte le altre religioni hanno conservato un rapporto migliore con la natura, senza preoccuparsi più di tanto di "fare storia". In ciò esse possono riflettere una maniera individualistica o collettivistica di vivere i rapporti sociali: quel che è certo è che esse appaiono più "religiose" (in senso tradizionale) del cristianesimo. La religione tradizionale esprime infatti una sorta di rapporto magico con la natura, che è avvertita più potente dell'uomo. Col cristianesimo invece il rapporto si ribalta: è l'uomo a essere considerato più forte.

Sul concetto di progresso

Il concetto borghese di progresso è un controsenso, poiché da un lato induce a desiderare con tutte le forze un'identità soddisfatta di sé, dall'altro impedisce con tutti i mezzi di realizzare tale desiderio. Stimola e reprime nello stesso momento. Il capitalista infatti ha bisogno di vendere, ma vuole anche che tutti gli altri abbiano bisogno di comprare. Ma se si può solo comprare, vendendo al massimo "forza-lavoro", come si può essere soddisfatti?

Il concetto borghese di progresso rimanda al futuro la nostra emancipazione e intanto nel presente ci fa vivere come alienati, come individui frustrati. Fa pagare prezzi salatissimi e alla fine non garantisce nulla. Spingendo a desiderare sempre più (consumismo), impedisce che gli uomini s'accontentino dl minimo indispensabile per vivere dignitosamente, quel minimo che assicura la loro coscienza che nessun altro sta pagando per loro. Sarà mai possibile diventare poveri e liberi? Non è forse questo il vero progresso: vivere modestamente senza essere schiavi di nessuno, sapendo che la propria ricchezza non dipende dalla miseria degli altri?

Laddove è esistito il comunismo primitivo, il benessere consisteva nel non morire di fame e nella libertà interiore, ovvero nel non temere più di tanto il proprio futuro e quello dei propri figli, nell'avere inoltre un rapporto sano, equilibrato con la natura, con gli altri, con se stessi… Se questo comunismo non è mai esistito, bisognerebbe inventarlo. Ma se lo avvertiamo come desiderio, esso probabilmente s'è conservato nella memoria collettiva inconscia. Se il socialismo scientifico non è che un modo d'essere maggiormente conformi alla natura di questa realtà, esso non servirà a nulla, anzi non farà che aggravare le contraddizioni antagonistiche.

Il benessere vero o è per tutti o è falso. Laddove esistono ingiustizie di varia natura, lì esiste non soltanto benessere materiale per pochi e fame per molti, ma anche un diffuso malessere spirituale, che negli strati inferiori, marginali, meno consapevoli si esprime in forma di ignoranza, superstizione, fatalismo, mentre negli strati superiori si esprime in forma di cinismo e paura: cinismo per poter conservare la propria fortuna, paura quella di perderla.

Questo diffuso malessere spirituale non inquina solo la natura e i rapporti umani, ma anche la coscienza di chi vi si crede immune. Paradossalmente, ci troviamo ad essere oggi, con tutta la scienza, la tecnica, i capitali e le armi che abbiamo, molto più insicuri degli uomini primitivi, che di tutto ciò non possedevano nulla.

Ecco perché dobbiamo affermare un nuovo concetto di benessere, un nuovo senso della qualità della vita. Dobbiamo creare una società in cui ognuno consumi quel che produce (o un prodotto equivalente), in cui gli scambi commerciali siano volontari, non obbligati, e che siano equi, cioè reciprocamente vantaggiosi: una società in cui nessuno possa sfruttare il lavoro altrui, possedendo molto di più di quel che effettivamente gli occorre. Dobbiamo ricondurre tutte le merci al loro valore d'uso.

Inquadramento storico del Rinascimento

Sul piano storico la fine dell’Umanesimo può essere datata al 1494, cioè al momento in cui il re di Francia, Carlo VIII, scende in Italia per far valere i suoi diritti di successione sul regno di Napoli, ove ai francesi-Angioini (chiamati dalla chiesa alla fine del XIII sec. in funzione anti-normanna) erano subentrati con la forza, nel 1442, gli Aragonesi di Spagna.

Carlo VIII fu chiamato dal duca di Milano Ludovica Sforza (detto il Moro), che aveva usurpato il potere della città al nipote Gian Galeazzo Sforza. Il quale, essendo sposato con Isabella d’Aragona, nipote di Ferdinando I, re di Napoli, pensava, con l’aiuto di quest’ultimo, di poter cacciare l’usurpatore Lodovico. Tuttavia, non solo Milano aveva interesse a che Carlo VIII scendesse in Italia. Venezia sperava che con la distruzione del regno di Napoli finisse la concorrenza dei porti pugliesi nel mar Ionio e Mediterraneo; a Firenze le correnti politiche guidate dal frate domenicano Savonarola, speravano di abbattere la signorìa (o monarchia) dei Medici e di ripristinare la repubblica; nel Napoletano non pochi baroni e sudditi erano contrari al regime aragonese.
Scendendo in Italia, Carlo VIII garantì a Ludovico il Moro il ducato di Milano; a Firenze aiutò a cacciare i Medici; col Papato trovò un accordo; a Napoli aiutò a cacciare gli Aragonesi. Senonché, appena egli si insediò nell’Italia meridionale, si formò una coalizione anti-francese, composta da Milano, Venezia e Roma, che con l’aiuto della Spagna e dell’Impero asburgico di Massimiliano I (che univa Austria, Ungheria, Boemia, Belgio, Olanda e che con la sua politica matrimoniale riuscirà in seguito a unire strettamente le Case d’Austria e di Spagna), cacciò i francesi dall’Italia.
E così gli Aragonesi poterono riprendersi il trono di Napoli, ma il successore di Carlo VIII, Luigi XII, s’impadronisce con la forza del ducato di Milano, costringendo gli Aragonesi a non intervenire.
In quel difficile periodo avvennero molte altre guerre in Italia. Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, combattè le piccole signorìe anti-papali della Romagna e delle Marche, impadronendosi dei loro territori e cercando di estenderli verso Bologna e la Toscana, ma il tentativo fallì. Venezia approfittò della situazione occupando alcuni territori della Romagna. Il Papato rispose dichiarando guerra a Venezia con l’aiuto di Francia, Spagna, Ducati di Ferrara e Mantova. Venezia fu costretta a ritirarsi. Poi il Papato organizza una Lega Santa contro i francesi di Milano, vedendo che questi avevano intenzione di estendere i loro territori verso le Romagne. La Lega riuscì ad assegnare Milano agli Sforza e Firenze (che nella guerra aveva parteggiato per i francesi) ai Medici. Ma la Francia non si rassegnò alla perdita della Lombardia e con Francesco I la riconquista.

La guerra tra Francia e Spagna riprende quando il nuovo re di Spagna, Carlo I d’Asburgo, in virtù di una precedente politica matrimoniale, riceve in eredità, oltre ai possessi spagnoli in Italia: regno di Napoli, Sardegna e Sicilia, nonché alcuni possessi spagnoli in America, anche tutti i territori della corona imperiale (Austria, Boemia, Ungheria, Paesi Bassi). Egli assunse il titolo di Imperatore e il nome di Carlo.

La Francia si oppose a questa eredità e rivendicò la propria candidatura al trono dell’Impero (in linea di diritto, infatti, la corona era elettiva, anche se per consuetudine veniva trasmessa secondo i legami di parentela). Non avendo ottenuto nulla e temendo l’accerchiamento, la Francia scatena contro la Spagna 4 guerre, che si concludono con la pace di Cateau-Cambrésis (1559), che per quasi un secolo segnerà le linee fondamentali dell’assetto europeo.

Con questa pace:

1. la Francia ottiene la rottura dell’accerchiamento, in quanto, Carlo V, alla sua morte, divide il proprio impero nei due rami di Austria e di Spagna;

2. la Francia però deve rinunciare a ogni pretesa su Milano e Napoli (che restano in mano spagnola) e deve restituire il Piemonte ai duchi di Savoia, anche se ottiene il riconoscimento della sua espansione verso il Reno;

3. il grande disegno di Carlo V, di restaurare l’unità politico-universale e religiosa (cattolica) dell’Europa contro i protestanti e i musulmani, fallisce completamente (francesi e turchi si erano alleati, i turchi arriveranno quasi fino a Vienna, inoltre con la pace di Augusta del 1555 si concede ai principi e re di decidere se la religione dei loro Stati sarà cattolica o protestante, mentre i sudditi dovranno rassegnarsi a seguire la religione dei rispettivi sovrani: cuius regio eius religio). Nella Germania del nord, nei Paesi Scandinavi, in Inghilterra, nei Paesi Bassi si affermano le confessioni protestanti.

4. Inghilterra, Olanda e Francia si affermano come moderne monarchie centralizzate, legate, sul piano economico, allo sviluppo della borghesia.

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