Viaggi finiti male: il mio sciagurato Uzbekistan - Studentville

Viaggi finiti male: il mio sciagurato Uzbekistan

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Oggi inauguriamo una nuova rubrica: quella dei viaggi finiti male. Malissimo: quelli dove la sfiga si è accanita su di voi come una nuvoletta fantozziana. Quelli in cui non vedevate l’ora di tornare a casa. Quelli dove tutto quello che poteva andare male, bé, è andato peggio. Quelli di cui ti vergogni all’inizio: poi ci ridi sopra.

Se anche voi avete delle esperienze di viaggio atroci da condividere, o se volete semplicemente espiarle sulla pubblica piazza di Travelblog, scriveteci alla mail dei suggerimenti . Non vediamo l’ora di leggere i vostri racconti. Intanto però, devo dare io l’esempio e raccontarvi del mio Uzbekistan, ridicolizzandomi davanti a voi.

Circa tre anni fa oltre a scrivere per Blogo, iniziai a lavorare nella redazione di un periodico maschile. Era una bella soddisfazione, passavo dalla barricata dei collaboratori a quella degli interni. Tenete conto che tutto quanto leggerete accadeva in un periodo “via di mezzo”, in cui mi venne la stolta idea di proporre al direttore…

“Potrei andare in Uzbekistan, sul Lago d’Aral. Ci tiriamo fuori cinque sei pagine di reportage, lì è deserto adesso, ci sono quei porti incredibili con le navi spiaggiate nella sabbia”

Idea ovviamente approvata: chi si farebbe scappare un collaboratore che propone qualcosa del genere? Iniziamo a farlo andare – ovviamente a sue spese – poi vediamo se porta a casa qualcosa. La mia idea era di piazzare il servizio sul mensile, e poi girarlo altrove. Fatti due calcoli, avrei coperto le spese.

Ma poi che importa, pensavo “È come una specie di vacanza in un luogo pazzesco” anche essere in perdita non mi avrebbe preoccupato. Dio mi guardava e ridacchiava già. Mi metto all’opera e mi organizzo. Per prima cosa, la burocrazia! Il passaporto, fondamentale, mica ci arrivi in Uzbekistan senza passaporto.

Viaggiando abbastanza spesso, ero abituato – oltre a cercare informazioni sul web, o con qualche telefonata in ambasciata – a fare sempre un salto in commissariato e chiedere se servissero visti o particolari autorizzazioni per raggiungere un certo Paese. Quella volta, no. Vado solo al commissariato, entro, attendo.

Chiedo a quello che chiameremo ispettore X. “Buongiorno ispettore X, sono qui per il passaporto: volevo sapere se serve qualche visto per l’Uzbekistan”.

L’ispettore X è lapidario “No, non serve il visto: basta il passaporto”. Spunto mentalmente le formalità burocratiche, anzi, la formalità burocratica. Proseguo a organizzare il resto del viaggio: acquisto voli, contatto autonoleggi usbechi, consulto mappe, studio cosa aveva fatto chi aveva avuto la stessa idea prima di me.

Finché non arriva il giorno della partenza, all’alba. Il primo volo è da Malpensa a Istanbul. Tutto tranquillo, rilassato. Molto più divertente sarà il prosieguo. Sbarcato a Istanbul, al controllo passaporti per l’imbarco del volo Istanbul – Tashkent, noto una strana espressione dipingersi sul volto dell’impiegata turca. Come dire…

…l’espressione che fa qualcuno che vede un documento che non va bene. A cui manca qualcosa. In inglese mi fa notare che manca il visto.

Sbianco. Come il visto? Ma l’ispettore X, ma la spunta che avevo messo sul cervello, ma il problema che non mi ero mai posto? Ta-dah: non era come credevi.

In ogni caso è comprensiva. Malgrado la mia situazione sia borderline, lascia che mi imbarchi anche senza visto. Tra le righe mi fa intuire che le autorità aeroportuali a Tashkent potrebbero lasciarsi corrompere. Non subendo il brivido della corruzione internazionale salgo a bordo con un’angoscia senza fine.

Il volo Istanbul – Tashkent è popolato solo da usbechi. Dormo per non pensare. Atterriamo dopo qualche ora. L’aeroporto è tremendo, o mi sembra tale. È notte fonda, saranno le tre del mattino. Al controllo passaporti non sono neanche l’unico italiano, direi che sono direttamente l’unico non usbeco.

Arriva quindi rapidamente il mio turno. Passo fiducioso all’impiegato il mio passaporto, cui lo so già, manca qualcosa. Ma spero in una sua amnesia, spero che si dimentichi, spero che abbia un malore e nel mentre, con l’ultimo rantolo vitale, metta un timbro che sancisca il mio ingresso nel suo Paese.

Ovviamente non va così. In inglese mi spiega che manca il visto. Ed è vero. Risfoglia il passaporto fino all’ultima pagina, dove trova dentro cinquanta euro. Non li interpreta come un segnale positivo, e manda a chiamare una guardia armata, un militare. Tutti gentilissimi, eh.

Mi spiega gentilmente che ci sono due possibilità: restare a dormire tre giorni in aeroporto mentre la burocrazia svolge i suoi accertamenti, oppure venire espulso istantaneamente dall’Uzbekistan in direzione Turchia. Stordito da una quantità di jella degna del Titanic abbozzo, e accetto il “rimpatrio”.

Penso “Va bé, farò qualcosa a Istanbul”, infatti lì mi fermai qualche giorno e la situazione si salvò. Ma prima che si salvasse dovevo ancora essere rimpatriato. “Rimpatrio” significava prendere, scortato dal solerte militare armato, il primo volo per la Turchia. Diligente, il soldatino mi segue in ogni movimento.

Il vantaggio di avere una scorta del genere è che non si fanno code, mai. Dormo dalla disperazione in aereo tutto il tempo, mentre gli sguardi dei cittadini usbechi mi coprono di disapprovazione “Guarda te, i clandestini che cercano di entrare nel nostro Paese”.

Atterrati a Istanbul faccio per salutare il mio nuovo amico in mimetica – che non parla mezza parola di inglese, ma solo usbeco stretto – ma lui deve avere altre indicazioni. Mi lascia in consegna alla polizia turca, che perderà altre mezzore a capire la situazione (mentre immagino già scenari alla Midnight Express).

Deve essere abbastanza raro che gli diano in consegna uno così pirla da andare in Uzbekistan senza visto.

Foto | publicdomain@Wikipedia

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