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Mito e religione: le dimensioni del divino

Il mito e la religione nella letteratura.

Il mito è la rappresentazione di una vicenda esemplare ed idealizzata che narra le vicende di dei, semidei ed eroi. Esso ha valore universale e si proietta su tutte le età della storia, in quanto incarna verità profonde della natura umana. Alla base del mito c'è una sorta di spontanea credenza nel divino (politeismo) come forza superiore all'uomo, che si manifesta straordinariamente in mille interventi. E' la poesia che ha il compito di trasmettere le profonde verità del mito.

I personaggi mitologici sono dotati di grande perfezione, oppure toccati in modo decisivo dal potere degli dei – magari per sanzionare con una punizione le loro terribili colpe. Le storie vivono comunque di una grandezza straordinaria, irraggiungibile da parte dell'uomo qualunque. Le loro avventure sono iperboliche e proiettate verso una dimensione assoluta e sovrannaturale.

Il mito è caratteristico dell'età classica (greca e latina) e del mondo pagano e viene ripreso nell'arte neoclassica dalla poesia di Vincenzo Monti e di Ugo Foscolo. Esso realizza forme di celebrazioni metastoriche, che cioè trovano modo di attualizzarsi in  epoche ed in forme diverse attraverso allegorie, personificazioni, vicende emblematiche ).

La religiosità cristiana invece nasce dalla rivelazione dei testi sacri (Bibbia e Vangeli) e introduce una prospettiva finalistica nella vita dell'uomo e della natura (escatologia). L'avvento del regno di Dio sulla terra, la legge provvidenziale della storia, che guida al trionfo del bene o comunque consola con la speranza del premio eterno dell'aldilà, la rivalutazione del dolore e del sacrificio, della povertà e dello spirito di carità, come virtù umane e forme di offerta di sè a Dio, caratterizzano la nuova forma di religiosità.

Il mito

Divino: pagano / cristiano

La letteratura del XIX e XX secolo si impadronisce in modo originale di questi due modelli interpretativi del divino. Alcuni autori – come Ugo Foscolo –  attualizzano il mito greco, sentendo in esso una forte vitalità e soprattutto reinterpretandolo come fascinosa evocazione di grandi virtù ideali, che il mondo presente tende a misconoscere ed a negare. Non c'è virtù (il coraggio militare, il rispetto per i defunti, l'arte poetica, l'ospitalità, la pietà verso gli sconfitti, la luminosa percezione della bellezza naturale….) che non possa essere  incarnata e rappresentata da un antico mito. Venere, Omero, Ettore, le Grazie….. personificano altrettante esperienze straordinarie che trascendono la limitatezza della natura umana.

La sensibilità religiosa di Alessandro Manzoni (cristianesimo di stampo giansenista)  ripropone invece una interpretazione meno idealizzata dell'uomo, bisognoso obbligatoriamente dell'aiuto divino per affrontare gli ostacoli che la vita e la storia gli parano innanzi. I grandi personaggi come Napoleone, Adelchi, Ermengarda così come gli umili attori del quotidiano devono per forza misurarsi con l'angoscioso momento della sofferenza e della morte. L'atteggiamento giusto è quello della fede, che umilmente si inchina di fronte a Dio in cerca di quella pace e di quella serenità che solo l'aldilà cristiano può donare. La sofferenza – in quest'ottica – è come un dono che l'uomo offre all'Onnipotente.

Ancora diversa la posizione di Giacomo Leopardi che intuisce all'interno della natura una dimensione più alta, sfuggente, suggestiva e lontana dall'abituale percezione dei sensi. Ad essa dà il nome di infinito, categoria vicina all'intuizione del divino nella natura o meglio al di là della forma concreta delle cose. Se autentica intuizione del divino c'è essa si confonde con un che di misterioso, di stimolante e di pacificante nello stesso tempo. Questa sensazione – vaga e indistinta – è tipicamente romantica e tende a cogliere la vasta presenza di forze che anima la natura.  In altre composizioni (come La Ginestra) invece Leopardi nega la positività del cattolicesimo progressista del suo secolo, attaccando il suo facile ottimismo provvidenziale nei confronti dell'uomo.

Un'autentica adesione a modelli pagani o cristiani di religiosità manca nella letteratura della seconda metà del secolo. Il Decadentismo propone suggestioni ambigue e contraddittorie: il male, il demoniaco, la bassezza della realtà urbana con le sue miserie morali si impongono come affascinanti stimoli artistici, come campi di meditazione sulla natura umana e sull'arte che nulla deve tacere ed anzi indagare. Bene e male, stimoli ideali alla bellezza ed alla bontà e noia del mondo, attrazione per le sue perversioni….si alternano nell'animo dell'artista, che coglie così la complementarietà dei due piani dell'esperienza umana. Nessun modello codificato vale ormai più. In Fogazzaro anche l'anelito religioso si mescola con la conturbante presenza della follia
(Malombra) e con  la dolorosa negazione delle passioni (Piccolo mondo moderno, Daniele Cortis) mentre l'attrazione ambigua della bellezza femminile si affianca alla polemica dottrinale del modernismo  (Il santo).

Nell'opera di D'Annunzio si sperimenta tutta l'ambivalenza di una religiosità non profonda sul piano morale,  riproposta solo come ulteriore elemento di ispirazione estetizzante. Nella "Sera fiesolana" il ripiegamento su alcuni stilemi della religiosità francescana (la lode alla sera) si alternano alla personificazione panica della stessa, tanto da ricreare l'immagine di una divinità pagana, che nutre una sensualità intensa prima che ogni forma di spiritualizzazione.

Pascoli intuisce – con i suoi concetti di bontà e di fratellanza naturale tra gli uomini – (il fanciullino che è in noi tutti e che il poeta contribuisce a far rivivere) uno degli elementi portanti della morale cristiana. Ma poi non riesce a padroneggiare totalmente queste certezze; verifica la presenza del male inspiegabile e della morte sulla terra (l'atomo opaco del male del X agosto) e si impegna in una ricerca vana e insaziata di certezze metafisiche (la vertigine).

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