“Aurora” è l’opera con cui Nietzsche si avvia verso quella “guarigione”, che viene a coincidere con la sua perfetta maturità , ed è anche l’opera in cui diventa centrale la “passione della conoscenza”, a cui Nietzsche si abbandonerà fino all’ultimo. Lo stile aforistico raggiunge qui uno dei suoi apici: con le sue antenne ipersensibili Nietzsche si avvicina ai temi più vari: dal Cristianesimo ai valori morali moderni, dalla dòcadence alla “cattiva coscienza”, dalla civiltà greca al romanticismo tedesco. E ce li presenta col gesto più fermo e insieme delicato, in un libro dove -egli stesso ci consiglia- si può “metter la testa dentro e sempre di nuovo fuori, senza trovare intorno a sò nulla di consueto”. L’opera fu composta nel 1881 e dimostra il desiderio di Nietzsche di scavare nei presupposti della morale, che vengono ricondotti principalmente alla pressione della paura e del conformismo sociale ( “spirito del gregge” ). D’altro canto in tutte le forme della morale, anche quelle del sacrificio e dell’ascetismo proprie del Cristianesimo, si cerca di soddisfare comunque il senso della potenza, che è il connotato di ogni agire umano. ” Con questo libro comincia la mia campagna contro la morale “, dirà Nietzsche stesso, nell’anelito di conservare la vivezza delle intuizioni primitive. La ricerca dell’essenza della morale si sviluppa attraverso la critica di quelli che sono stati posti come i suoi fondamenti tradizionali: il dovere (Kant), l’utile (Spencer), la compassione (Shopenhauer). A sostituirli sembra intervenire il concetto di paura. Lo stretto condizionarsi reciproco degli uomini nella società (per cui il valore di un uomo risiede completamente nel giudizio che il prossimo si forma su di lui) anticipa il futuro concetto di “gregge” e costituisce il terreno da cui sorge il concetto stesso di morale; in contrapposizione a ciò va delineandosi ora, per la prima volta, il concetto di “individuo”, che sintetizza ciò che gli uomini intendono per immorale. La critica della società moderna si avvia a diventare argomento predominante. “Si corrompe nel modo più sicuro un giovane, se gli si insegna a stimare chi la pensa come lui più di chi la pensa diversamente”. La bruciante sentenza eraclitea, “ho indagato me stesso”, viene qui raccontata in un libro intero: meditando su di sò, Nietzsche vi ha trovato il mondo; su tutti gli oggetti che illustra, lui ha lasciato l’impronta di sò, del conoscitore. Il lettore più ingenuo potrebbe rimanere incantato dal bel apparato artistico messo in atto da Nietzsche con “Aurora”, pensando che in realtà non voglia comunicare nulla, ma è Nietzsche stesso ad esortare alla diffidenza, ad andare oltre il significato superficiale: “Non c’è cosa che artisti, poeti e scrittori temano di più di quell’occhio che vede la loro piccola frode… quell’occhio che chiede loro conto se vollero vendere poco per molto” (af. 223). In “Umano, troppo umano” il filosofo tedesco aveva presentato una scienza fatta di intuizioni, in “La gaia scienza” fornirà ancora una scienza, la cui indicazione è di identificarsi con la poesia, qui lui dà sempre una scienza, la cui indicazione è di identificarsi con la poesia, qui lui dà sempre una scienza, i cui contenuti sono più variegati e fluttuanti, non appartengono alla sfera politica e statale, raramente si concentrano su figure di filosofi o artisti. Ed è bene citare due esempi per quale nobilissimo alibi egli usi della parola scienza in Aurora: nell’af. 76, in cui si tratta della calunnia cristiana contro l’amore e la procreazione, troviamo scritto: “Infine questa diabolizzazione di Eros ha avuto un epilogo da commedia [… ] che fin nel bel mezzo della nostra epoca, la vicenda amorosa è divenuta l’unico reale interesse comune a tutti gli ambienti- in una esagerazione inconcepibile all’antichità , esagerazione cui seguirà più tardi, quando che sia, anche uno scoppio di ilarità “. Ecco un bell’esempio di scienza, intesa come pura intuizione, basata sulla pura esperienza immediata. E’ una valutazione del presente (1800) illuminata da un giudizio del passato (visione del mondo cristiana): ed è per questo che si può parlare di vera e propria intuizione storica, in cui Nietzsche apre una prospettiva nella storia, passata, presente e futura. Ma sarebbe riduttivo intendere l’intera scienza nietzscheana come “intuizione storica”! Nietzsche, nella prefazione, non esita a definire il suo libro come “pessimista fin nel cuore della morale, fino a trascendere la fiducia nella morale”, ritenendolo così una produzione tedesca a tutti gli effetti; egli non concorda, come già ci aveva dato modo di intendere nella “Nascita della tragedia”, nel trovare a tutto una spiegazione razionale e dice esplicitamente, a proposito: “Tutte le cose che vivono a lungo, s’impregnano a poco a poco di ragione, a tal punto che la loro provenienza dall’irrazionale diventa perciò improbabile”; e del resto “com’è venuta nel mondo la ragione? Com’è giusto che arrivasse, in un modo irrazionale, attraverso il caso. ” Così Nietzsche può muover guerra al concetto di causalità ( con la quale si vedono solo le figure di cause ed effetti, senza però capire nulla di più profondo!), a quello di finalità ( non abbiamo gli occhi al fine di vedere: è il caso che ce li ha donati!) e a quello di volontà (ridiamo di chi dice “voglio che esca il sole!” e allo stesso modo dovremmo ridere di chi dice di voler ogni altra cosa!). Gli stessi matrimoni sono dettati dal caso, spiega Nietzsche per dar la prova alla tribuna dei lettori che esso impera ovunque: “Se fossi un dio, e un dio benigno, i matrimoni degli uomini mi farebbero perdere la pazienza più di ogni altra cosa. Il fatto che un individuo possa arrivare ben lontano, ai suoi 70, anzi ai suoi 30 anni, fa stupire anche gli dei! Ma se poi si osserva come abbandoni il patrimonio e il retaggio delle sue lotte e delle sue vittorie, l’alloro della sua umanità , appendendolo al primo posto che trova, dove una femminuccia lo coglie; se si osserva quanto è valente nel conquistare e incapace nel conservare, anzi come non pensi affatto che potrebbe preparare una vita ancor più ricca di vittorie mediante la procreazione, si viene a perdere, come già si è detto, la pazienza, e si dice a se stessi: dall’umanità , a lungo andare, non può venir fuori nulla; i singoli vengono sprecati, e la causalità dei matrimoni rende impossibile ogni razionalità di un grande cammino dell’umanità – cessiamo di essere gli appassionati spettatori e giullari di questa commedia senza meta!” Ed è tipicamente un pregiudizio morale dei dotti il credere di sapere ogni cosa meglio nel presente che nel passato. Ma i pregiudizi cristiani sono altrettanto forti e arrivano a porre limiti alla conoscenza umana: “Chi vorrà ribellarsi alla deduzione cui amano giungere i credenti: la scienza non può essere vera perchò nega Dio. Di conseguenza essa non deriva da Dio; di conseguenza non è vera, poichò Dio è la verità ? Non nell’inferenza, bensì nel presupposto sta l’errore: e se Dio appunto non fosse la verità , e questo appunto fosse provato? Se egli fosse la vanità , la bramosia del potere, l’impazienza, il terrore, l’estasiato ed inorridito delirio degli uomini? ” (af. 93). E d’altronde la sottomissione ad una morale, spiega Nietzsche, è qualcosa non morale! Ed ecco che poi Nietzsche analizza la società tedesca e la sua morale: lo spirito tedesco è particolarmente incline ad ubbidire agli ordini impartiti, ma, al momento giusto, sa anche acquisire la sua autonomia e la sua creatività personale: i Tedeschi sono capaci di grandissime cose, ma è improbabili che le facciano secondo Nietzsche! Ed è per questo che insito in loro vi è qualcosa di superiore, che prima o poi dovrà manifestarsi. In tutta l’opera aleggia un clima particolare, si potrebbe dire desueto alle istanze di cui Nietzsche si fa portavoce: si ha la sensazione che il pensatore tedesco non voglia lasciar trapelare dove si rivolge la sua simpatia e dove la sua antipatia. Così si preoccupa persino di non offendere troppo il Cristianesimo, come fa invece nelle altre opere, riconoscendogli, qua e là , qualche pregio. Ma c’è un punto in cui Nietzsche cade in trappola, applicando con eccessiva disinvoltura questa tecnica del rovesciamento. Ed è quando, con stupefazione, lo ascoltiamo tessere un elogio della dialettica, la sua bestia nera di sempre: nell’af. 544 leggiamo infatti: “Lo vedo bene: i nostri giovinetti [… ] pretendono oggi dalla filosofia proprio il contrario di quel che ne ricevevano i Greci. Chi non sente il continuo tripudio che pervade ogni battuta e ogni replica in un dialogo platonico, il tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale, che cosa comprende di Platone, che cosa dell’antica filosofia? Quando si praticava il gioco asciutto e rigoroso del concetto… “. Non si crede alle proprie orecchie, ma Nietzsche ribadisce: “Socrate fu colui che scoprì l’incantesimo [… ] della causa e dell’effetto, del fondamento e della conseguenza: e noi uomini moderni siamo così abituati alla necessità della logica e così educati ad essa, che essa rappresenta per la nostra lingua il sapore normale, necessariamente spiacevole agli ingordi e ai boriosi. Quel che si distacca da esso, li manda in solluchero… “. E in questo periodo Nietzsche è impegnatissimo nella vita politica, numerosissime sono le sue meditazioni su Napoleone e Paolo. Ma in Aurora questo non affiora e domina incontrastata la dichiarazione “dello Stato, il meno possibile!” (af. 179). Qui si teorizza la conoscenza come supremo valore della vita e nel far questo Nietzsche si sforza di debellare il valore contrapposto, l’azione. Dal momento che è sul metro della conoscenza che l’azione viene giudicata: “Tutte le azioni sono essenzialmente ignote” (af. 116). Ma la preminenza del conoscere sull’agire non è solo puramente speculativa, si tratta anche di una preminenza morale: “E così sarebbe forse l’impulso ad agire, nient’altro, in definitiva, che un fuggire a se stessi? ” (af. 549). Splendido è poi il finale dell’opera, in cui Nietzsche arriva a paragonare gli ingegni superiori agli uccelli che spiccano il volo, che tanto più si innalzano e tanto più sembrano piccoli a quelli che non possono volare: evidente è il significato allegorico: chi si eleva al di sopra degli altri uomini, non viene compreso, viene anzi osteggiato, si cerca di tirarlo giù per riportarlo al pari dell’ “armento”. “Quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare. Tutti questi arditi uccelli che spiccano il volo nella lontananza, nell’estrema lontananza, di sicuro, a un certo momento non potranno più andare oltre e si appollaieranno su un pennone o su un piccolo scoglio- e per di più grati di questo miserevole ricetto! Ma a chi sarebbe lecito trarne la conseguenza che non c’ò più dinanzi a loro nessuna immensa, libera via, che sono volati tanto lontano quanto ò possibile volare? Tutti i nostri grandi maestri e precursori hanno finito coll’arrestarsi; e non ò il gesto più nobile e il più leggiadro atteggiamento, quello con cui la stanchezza si arresta: sarà così anche per me e per te! Ma che importa a me e a te! Altri uccelli voleranno oltre! Questo nostro sapere e questa nostra fiducia spiccano il volo con essi e si librano in alto, salgono a picco sul nostro capo e oltre la sua impotenza, lassù in alto, e di là guardano nella lontananza, vedono stormi d’uccelli molto più possenti di quanto siamo noi, i quali agogneranno quel che agognammo noi, in quella direzione dove tutto ò ancora mare, mare, mare! E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità , che ò più forte di qualsiasi altro desiderio? Perchè proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità ? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere l’India, ma che fu il nostro destino a naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure”
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