Capitolo 5 - par 1 - 17 - Studentville

Capitolo 5 - par 1 - 17

[1] Da qui si spinge attraverso l’Arabia, tenendo l’Eufrate sulla destra: nel deserto, cinque tappe per trentacinque parasanghe. In questa zona la terra era tutta indistintamente pianeggiante, uniforme come il mare, piena di assenzio. E se anche vi nasceva vegetazione di altro genere, arbusti o canne che fossero, erano tutti profumati, come piante aromatiche. Alberi invece non ce n’erano. [2] Vi si trovavano animali d’ogni genere: moltissimi gli onagri e molti struzzi. C’erano anche otarde e gazzelle. I cavalieri, di tanto in tanto, davano loro la caccia. Gli onagri, se qualcuno li inseguiva, prendevano il largo e poi si fermavano: correvano infatti molto più rapidi dei cavalli. E poi di nuovo, quando i cavalli si avvicinavano, ripetevano la stessa cosa, e non c’era verso di catturarli, a meno che i cavalieri non si fossero divisi in gruppi e li avessero braccati a turno. La carne degli onagri catturati era simile a quella dei cervi, ma più delicata. [ 3] Nessuno riuscì a prendere uno struzzo. Chi tra i cavalieri cercò di dargli la caccia, desistette ben presto. In fuga infatti lo struzzo guadagnava un ampio margine di vantaggio, sia correndo con le zampe sia sollevandosi sulle ali, di cui si serviva come di una vela. Le otarde invece, se le si costringeva a levarsi in volo colte di sorpresa, si potevano catturare: volano per breve tratto, come le pernici, e sùbito perdono lo slancio. La loro carne era squisita. [4] Percorrendo questa regione, giunsero al fiume Masca, di un pletro. Qui sorgeva una città abbandonata, grande, di nome Corsote. Tutt’attorno era circondata dal Masca. Vi rimasero tre giorni e si rifornirono di viveri. [5] Poi, in tredici tappe, avanza nel deserto per novanta parasanghe, tenendo sulla destra l’Eufrate: giunge a Porte. Nel corso di queste tappe molte bestie da soma morirono di fame: non c’erano né erba né alberi, la regione era completamente spoglia. Gli abitanti del luogo scavavano la roccia lungo il corso del fiume ed estraevano pietre per far macine, che poi lavorate portavano a Babilonia e vendevano; in cambio compravano grano e così riuscivano a vivere. [6] All’esercito vennero a mancare i viveri, ma non c’era la possibilità di acquistarne, se non al mercato dei Liditra le truppe barbare di Ciro, al prezzo di quattro sigli per un capite di farina, fosse di frumento o d’orzo. Un siglo ha il valore di sette oboli attici e mezzo. Il capite invece misura due chenici attici. Dunque i soldati tiravano avanti mangiando carne. [7] Ogni volta che voleva raggiungere o una sorgente d’acqua o del foraggio, Ciro avanzava con tappe molto lunghe. Un giorno poi si imbatterono in un passaggio stretto e fangoso: difficile il transito dei carri. Ciro scese col suo séguito di dignitari di alta nobiltà e rango, ordinò a Glu e a Pigrete di prelevare truppe barbare e di tirar fuori i carri. [8] Ma poiché gli sembrava che i soldati se la prendessero comoda, come in preda a uno scatto d’ira impose ai Persiani del suo séguito, i più potenti dignitari di corte, di unirsi per affrettare lo spostamento dei carri. Si ebbe una lezione, per così dire, di disciplina. Gettavano a terra le loro vesti di porpora dove a ciascuno capitava di trovarsi, si slanciavano come se ognuno corresse per la vittoria in una gara di corsa, giù per una collina, davvero a precipizio, con le loro tuniche lussuose, i loro calzoni variopinti: alcuni avevano anche collane al collo e braccialetti ai polsi. Sùbito, pur così agghindati, balzarono giù nella melma più rapidi di quanto si potesse pensare e sollevarono i carri, spingendoli. [9] A dirla in breve, era chiaro che Ciro affrettava sempre la marcia e non perdeva tempo in soste, se non per rifornirsi di viveri o per qualche altra necessità inderogabile. Più rapido giungeva – pensava – più impreparato allo scontro avrebbe trovato il re; più si attardava, più truppe avrebbe assoldato il re. A rifletterci, era possibile capire che la forza del re consisteva nell’ampiezza del territorio e nel numero di uomini; la lunghezza delle strade e la dispersione delle forze militari costituiva invece la sua debolezza, in caso di attacco fulmineo. [10] Durante una delle tappe percorse nel deserto, sulla sponda opposta dell’Eufrate, videro una città prospera e grande, di nome Carmanda. Lì i soldati comprarono le cose necessarie, varcando il fiume con imbarcazioni fabbricate così: riempirono di erba secca i teli di pelle usati come riparo, quindi li unirono e li cucirono insieme, in modo che l’acqua non raggiungesse la paglia. Su imbarcazioni di tal sorta attraversarono il fiume e si rifornirono di quanto era necessario: vino prodotto coi frutti di dattero, nonché farina di miglio, molto abbondante nella regione. [11] Qui un soldato di Menone e uno di Clearco vennero a lite. Clearco diede la colpa al soldato di Menone e lo fece frustare. Costui, rientrato tra i suoi, raccontò l’accaduto. I soldati, non appena udirono il suo racconto, montarono su tutte le furie e s’incollerirono aspramente con Clearco. [12] Quel giorno stesso Clearco giunse al guado del fiume e ispezionò il mercato che là si teneva; mentre cavalcava verso la sua tenda, passò attraverso il campo del reparto di Menone, seguito da pochi dei suoi. Ciro non era ancora arrivato, si trovava ancora in cammino. Uno dei soldati di Menone, che stava spaccando legna, come vede passare Clearco, gli vibra un colpo d’ascia: lo manca. Un altro, allora, scaglia contro di lui una pietra, imitato da un altro ancora e poi da molti, tra lo schiamazzo generale. [13] Clearco ripara tra i suoi e sùbito chiama alle armi. Ai suoi opliti ordinò di rimanere sul posto, gli scudi davanti alle ginocchia; lui prese con sé i Traci e i cavalieri – che nel suo reparto erano più di quaranta, per la maggioranza traci – e attaccò gli uomini di Menone. Il suo arrivo lasciò esterrefatto Menone stesso e i suoi e li costrinse a correre alle armi. Ci furono anche alcuni però che rimasero fermi, non sapendo che fare in quella situazione. [14] Prosseno, che chiudeva la colonna e guidava una schiera di opliti, sùbito dispose i suoi uomini tra i due schieramenti, fece deporre le armi e cominciò a scongiurare Clearco di desistere. Ma Clearco era inferocito: per poco non l’avevano massacrato a pietrate e Prosseno, tranquillo e beato, gli veniva a parlare della disgrazia capitata a lui? Che si levasse di mezzo. [15] In quel mentre, giunse anche Ciro che fu messo al corrente dei fatti: sùbito impugnò un mazzo di giavellotti e, con chi era presente tra i suoi fidi, si gettò nel mezzo e disse: [16] «Clearco e Prosseno e voi altri Greci presenti, avete perso la testa? Accendete la scintilla di una battaglia tra di voi e fate pure conto che, questo giorno stesso, anch’io sarò fatto a pezzi e voi, non molto dopo di me. Se le cose per noi si mettono male, tutti questi barbari qui, che vedete, saranno per noi un nemico ben più pericoloso dei soldati del re». [17] Alle parole di Ciro, Clearco tornò in sé. Cessate le ostilità, entrambe le parti riposero le armi.

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