Purgatorio: Riassunto e Critica XXVI Canto - Studentville

Purgatorio: Riassunto e Critica XXVI Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Sl settimo e ultimo girone del purgatorio è

occupato da un grande fuoco, nel quale purificano il loro peccato le anime dei lussuriosi. L’attenzione del pellegrino è

attirata dal sopraggiungere improvviso di una turba di anime, procedenti in direzione opposta rispetto a quella della prima

schiera apparsa ai tre viandanti alla fine del canto XXV. Quando i due gruppi si incontrano, le anime, senza fermarsi, si

baciano festosamente fra di loro; allorché si separano, le ombre della seconda schiera gridano il nome delle due città bibliche

di Sodoma e Gomorra, quelle della prima ricordano la lussuria della regina cretese Pasifae. Dopo aver rivelato di essere ancora

vivo, Dante chiede che gli venga spiegata la duplice divisione delle anime dei lussuriosi. Superato il primo momento di

stupore, l’ombra che già precedentemente si era rivolta al Poeta, riprende a parlare: la schiera che si allontana gridando «

Sodoma e Gomorra » è quella dei sodomiti, l’altra è quella dei lussuriosi secondo natura, i quali però non seppero frenare con

la ragione i loro istinti. Soltanto ora Dante ci fa conoscere il nome del suo interlocutore: Guido Guinizelli, il famoso

iniziatore della scuola poetica del, dolce stil novo, il quale presenta il poeta che, a suo giudizio, seppe usare ancora meglio

di lui, nei suoi versi, la lingua materna al posto dell’ormai superato latino. Appare così la figura del maggiore trovatore

provenzale, Arnaldo Daniello, che, parlando nella lingua della propria terra, chiede a Dante di ricordarlo nelle sue

preghiere..

Introduzione critica

Dopo la sobria energia che ha caratterizzato una delle pagine più ardue,

dal punto di vista concettuale, della Commedia – quella riguardante, nel canto XXV, il concepimento dell’essere umano – il

canto XXVI si presenta alla nostra attenzione con una ricchezza inusitata di motivi e risoluzioni, per cui riesce problematico

il tentare di ridurlo entro una formula critica perentoria ed esclusiva. Ritroviamo in esso il tema dell’amicizia – costante

nella seconda cantica, ma di particolare rilievo nel gruppo dei canti che preludono all’incontro del protagonista con Beatrice

sulla sommità del sacro monte – al quale appare indissolubilmente legato quello dei problemi attinenti alla poesia, o, più

generalmente, all’espressione artistica. Questo tema è affiorato fin dall’inizio del Purgatorio (nell’episodio di Casella) e

poi, dopo l’incontro con Sordello, nelle parole pessimistiche, eppur ricche di ritrovata speranza, sulla fragilità di ogni

gloria umana (degradata a romore), attribuite a Oderisi da Gubbio. Nella prima parte del canto il tema delle pene redentrici ha

un particolare risalto accanto a quelli dell’amicizia e delle memorie letterarie; i quali, nella seconda parte di esso,

ripropongono entro una prospettiva più ampia il motivo già introdotto nell’episodio di Bonaggiunta sul conflitto tra i seguaci

di un modo di poetare in volgare ancora legato ad una tradizione provinciale, e coloro che, sulle orme del Guinizelli,

concepivano, come Dante stesso, il volgare come una lingua non inferiore al latino nella possibilità di modellarlo anche nelle

forme dello “stile sublime “. Il motivo delle fiamme che detergono dal peccato di lussuria è denso di implicazioni simboliche

(il Roncaglia fa notare come sul tema del fuoco “ch’è tra le metafore più banali dell’ardore amoroso, e che qui in Dante ne

diviene l’ovvio contrappasso, insistono… con particolare energia fantastica” sia il Guinizelli sia Arnaldo Daniello nei loro

componimenti), ma il Poeta lo sviluppa nel senso di una grande concretezza, conferendo evidenza ad una situazione irreale per

mezzo di notazioni che riportano gli aspetti sovrannaturali di questa zona dell’oltretomba all’esperienza più comune che

abbiamo della natura. La presentazione iniziale dello spettacolo delle fiamme risulta persuasiva proprio in virtù di

particolari realistici (come quelli dei versi 7-8: e io facea con l’ombra più rovente parer la fiamma), mentre, d’altro

canto, il mutarsi lento delle tinte del cielo all’ora del tramonto (evocato nei versi 5-6 con quel trionfale raggiando che

conferma, nell’attimo della sua imminente sparizione, la forza inesauribile del principio di ogni vita) richiama ai grandi

ritmi dell’universo ed impedisce in tal modo che questa poesia, cosi naturale, ceda alle lusinghe del naturalismo. Assolvono

sostanzialmente alla medesima funzione – riconducendo alla semplicità di un’esperienza che é di tutti quanto di alto e di

elaborato é nelle parole rivolte da una delle anime a Dante (versi 16-24) e in quelle che il pellegrino indirizza alla schiera

dei lussuriosi secondo natura (versi .53-66) – anche le similitudini, frequenti nella prima parte del canto: quella delle

formiche, cosi lontana dal descrittivismo delle fonti classiche cui il Poeta forse l’attinse, così densa di affetto e carica

di rimandi ad una situazione umana (particolarmente nell’ipotesi formulata dall’osservatore circa il motivo dell’ammusarsi”:

forse ad espiar lor via e lor fortuna); quella che ha per termine di raffronto il volo delle gru, nella quale la tristezza di

una separazione traspare in modi che tendono a dar risalto alla coordinazione simmetrica dei movimenti delle due schiere di

uccelli (onde, nei versi 44-46, la bilanciata rispondenza, in termini di lessico e di sintassi, dei due emistichi); quella che

colpisce in un atteggiamento di vergine stupore il montanaro inurbatosi, e quella esprimente (versi 94-95) in maniera

indiretta, “quasi pudicamente, attraverso il filtro d’una reminiscenza letteraria, che, brevemente allusa, permette di non

diluire la concentrazione del pathos” (Roncaglia), la devozione filiale di Dante verso il Guinizelli. Nella seconda parte del

canto – articolata nei due episodi del Guinizelli e del Daniello – i temi dell’amicizia e della gratitudine per un magistero

letterario che agli occhi del pellegrino assunse le dimensioni di un insegnamento morale, di una iniziazione religiosa, si

risolvono, dopo le appassionate, intransigenti condanne dei guittoniani, nella limpidità della presentazione che di se stesso

fa il trovatore provenzale, nella dolcezza di un inserto arcaico. Quest’ultimo, mentre da un lato testimonia di un tributo di

riconoscenza da parte del Poeta verso il rappresentante più cospicuo di quel « trobar clus » che ebbe forse la sua più alta

consacrazione nelle sestine delle Rime petrose, dall’altro rende insussistente, in presenza di un dilagante sentimento di

carità, il senso dell’isolamento sdegnoso perseguito nella sottigliezza dei costrutti e delle rime che caratterizzò il «

trobar clus » medesimo: ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. “Perciò – scrive il Roncaglia – la aspra sensualità e il chiuso

stile propri del trovatore perigordino, che Dante ben conosceva ed aveva imitato nelle Rime petrose, cedono il posto a semplici

parole di canto e di pianto.” Il Sapegno dal canto suo osserva: “L’uso del linguaggio forestiero e aulico, sottolinea il tono

distaccato della risposta del trovatore, serve a stilizzare in una formula vaga il contrasto fra l’esperienza terrena e lo

stato presente di penitenza, fra le contrite memorie e le luminose speranze; mentre al ripudio delle passioni mondane (la

passada folor) s’accompagna, appena accennato, il rifiuto anche di un gusto già caro di rime arcane e chiuse (ieu no me puesc

ni voill a vos cobrire)”.

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