Terenzio: commedia, riassunto opere - Studentville

Terenzio

Come Plauto, anche Terenzio ha subito l’influsso della commedia nuova greca, anche se il suo rispetto a quello plautino è un teatro più raffinato negli intrecci, nella caratterizzazione dei personaggi e nella lingua.

Terenzio. La vita e le opere

Originario di Cartagine, sarebbe nato nel 185/184 a.C. Ma la notizia è incerta, in quanto il 184 è anche la data di morte di Plauto, e si usava sincronizzare nascita e morte di autori che in qualche modo ‘si succedevano’ nell’eccellenza di un genere letterario. Forse si dovrebbe datare la data di nascita di almeno dieci anni. Sarebbe giunto a Roma come schiavo di un certo senatore Terenzio Lucano. Liberato, entrò nella cerchia dei protetti di due illustri personaggi, Scipione Emiliano e Gaio Lelio. Terenzio nelle sue commedie fa qualche accenno al sostegno ricevuto da illustri amici. Sui rapporti tra Terenzio e i suoi protettori aristocratici correvano varie voci, addirittura che gli autori delle commedie fossero proprio Scipione Lelio.In questi anni c’era un rovente clima di polemica, sia letteraria che politica.

Cronologia delle opere

Morì presto, nel 159, durante un viaggio in Grecia intrapreso per scopi culturali, Terenzio lasciò solo sei commedie, integre, tutte dal titolo greco a differenza di Plauto, delle quali siamo però in grado di dare una datazione.In ordine cronologico: Andria, Hecyra (La suocera), ma fu un totale insuccesso; Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso); l’Eunuchus e il Phormio. Queste ultime due commedie, che concedevano più spazio ad una comicità più tradizionale, di tipo platino, furono rappresentate con grande successo. L’ultima commedia è gli Adelphoe (I fratelli).

Le commedie:

1) Andria: (la fanciulla di Andro)

Panfilo ama Glicerio, giovinetta arrivata ad Atene dall’isola di Andro (una delle Cicladi, a sud dell’Eubea) e sistematasi in casa della meretrice Criside. Alla morte di questa, Simone, padre di Panfilo, scopre la relazione e vuol costringere il figlio a troncarla per sposare Filurnena, figlia del suo amico Cremete. Panfilo è in crisi: Glicerio è incinta. Si comincia ad intravedere una possibilità di soluzione positiva quando salta fuori un secondo giovane, Carino, innamorato di Filumena. Davo, servo di fiducia di Panfilo, espone il neonato davanti alla casa di Cremete, il quale scopre la verità e manda all’aria le nozze della figlia. Alla fine si scopre che Glicerio è figlia dello stesso Cremete, e dunque libera e ateniese: Panfilo le si unisce in giuste nozze, Carino fa altrettanto con l’amata Filumena. L’originale greco dell’Andria è costituito dall’omonima commedia di Menandro, ma con l’inserzione di scene tratte da un’altra commedia menandrea, la Perinthia («La ragazza di Perinto», città trace sulla Propontide): ce lo dice Terenzio stesso nel prologo, e il commentatore Donato ci conferma che Sosia (che è un personaggio «protatico», comparendo solo nella protasis, nella parte iniziale della commedia, cioè in I, 1), Carino e il suo servo Birria sono aggiunte terenziane.

2) Hecyra (la suocera)

Panfilo ama la meretrice Bacchide, ma, per volontà del padre Lachete, sposa Filumena. I primi tempi è freddo e duro con la moglie indesiderata, che tuttavia lo ricambia con dolcezza e remissività. In Panfilo comincia a farsi strada una rispettosa tenerezza nei confronti di Filumena, quando la morte di un parente lo costringe a recarsi ad Imbro, isola dell’Egeo nordorientale, per un’eredità. Partendo lascia sua madre Sostrata in casa con Filumena, ma al ritorno apprende che Filumena è tornata dai suoi: si sospetta, per colpa della suocera. Panfilo scopre che Filumena, di cui è ormai innamorato, sta per partorire: prima del matrimonio, una notte, uno sconosciuto l’ha violentata e le ha portato via un anello. Messo a parte del segreto, noto soinora alla sola Mirrina, madre di Filumena, Panfilo promette di non svelarlo. Ma perché nulla trapeli, Filumena non può tornare col marito e questi è costretto a rompere definitivamente il matrimonio: il nascituro sarà esposto. La chete, padre di Panfilo, e Fidippo, padre di Filumena, insistono invece perché il matrimonio si ricomponga. Panfilo adduce come scusa l’incompatibilità di carattere tra suocera e nuora, proclamando che, dovendo scegliere con chi vivere, sceglie la madre. Filumena partorisce un bambino, Fidippo crede che sia legittimo e decide comunque di tenerlo. Intanto Sostrata, generosa e intelligente, per allontanare da sé ogni sospetto, decide di andare a vivere in campagna. Lachete approva, Panfilo si oppone, quando arriva Fidippo con la notizia della nascita del piccolo: Lachete e Fidippo insistono più che mai per la riconciliazione. Credendo, infine, che causa dell’ostinato rifiuto di Panfilo sia il vecchio amore per Bacchide, Lachete prova a parlarne con la meretrice, ma questa svela che non c’è più nulla tra lei e Panfilo. A conferma di ciò, Bacchide si reca da Filumena per indurla a tornare con Panfilo. Qui Mirrina riconosce al dito della meretrice l’anello che aveva Filumena la notte della violenza. Poiché si tratta di un regalo di Panfilo, Panfilo deve essere lo sconosciuto violentatore. Tutto torna a posto. Dall’omonima commedia di Apollodoro di Caristo (che forse a sua volta ha utilizzato Menandro). È la commedia terenziana più lontana dal vivace e improbabile mondo plautino: problemi e sentimenti appaiono molto interiorizzati, con grande finezza e verità di toni. Basata, in sostanza, su una gara di generosità tra i vari personaggi, sulla loro capacità di capire e perdonare, era una commedia difficile, che stentò infatti a farsi apprezzare.

3) Heautontimoroumenos (il punitore di se stesso)

È la festa delle Dionisie, ma il vecchio Menedemo non bada al calendario e si accanisce a lavorare, pur con gran fatica, il suo campicello. Come spiega al vecchio Cremete, suo vicino, egli intende così «punire se stesso», espiare una grave colpa: suo figlio Clinia si era innamorato di Antifila, una giovinetta senza dote, e lui coi suoi rimproveri lo ha costretto ad arruolarsi come mercenario in Asia. Ma intanto Clinia, in gran segreto, è ritornato: lo ospita l’amico Clitifone, figlio di Cremete. Clitifone è innamorato a sua volta di Bacchide, una meretrice sfrontata e spendacciona. A Cremete fanno credere che Bacchide sia Antifila: gli spiegano che, essendosi data per povertà alla professione, adesso si è arricchita e fa la bella vita. Cremete va a riferire a Menedemo che il figlio è tornato, ma Antifila non è più quella prima: gira con un seguito di più di dieci ancelle cariche di vesti e gioielli. Menedemo, ormai ravveduto, consentirebbe egualmente alle nozze di Clinia con Antifila, se Cremete non gli facesse presente l’inopportunità, da parte sua di fornire direttamente il denaro necessario agli sperperi del figlio e della nuora: se vuol salvare la faccia, che almeno finga di lasciarsi raggirare da i dei soliti servi furbi. Mentre Siro, servo furbo di Cremete, escogita trappole per ingannare, oltre a Menedemo, lo stesso Cremete (Clitifone deve infatti parecchi soldi alla costosa Bacchide), la moglie di Cremete scopre, grazie a un anello, che Antifila (quella vera) è figlia sua e, appunto, di Cremete: alla sua nascita il marito, che non voleva figlie femmine per non essa costretto a fornirle di dote, aveva ordinato di ucciderla, ma lei s’era limitata ad esporla. Cremete viene raggirato da Siro e scopre che la donna scialacquatrice non è in realtà Antifila, bensì Bacchide, l’amica di suo figlio Clitifone. Alla fine Clinia sposa Antifila e Clitifone lascia la rovinosa Bacchide dichiarandosi pronto a sposare una ragazza di buona famiglia: Cremete lo pe perdona anche Siro. Dall’omonima commedia di Menandro.

4) Eunuchus: Fedria ama l’etera Taide

Un secondo spasimante della donna, il soldato Trasone, cerca di riconquistarne i favori regalandole la giovane bellissima schiava Panfila, una trovatella che era stata educata con Taide ma poi era stata venduta da uno zio avido e senza scrupoli. Taide sa che la fanciulla è di legittimi natali, la accoglie e la protegge non come una schiava, ma come una libera. In gara col soldato, Fedria acquista un eunuco da regalare a Taide. Ma suo fratello minore, Cherea, che nel frattempo ha intravisto Panfila e se n’è follemente innamorato, su idea del servo Parmenone prende il posto del vero eunuco, si introduce nella casa di Taide – momentaneamente assente -, approfitta della fanciulla e scappa: non senza aver raccontato ad un amico (e agli spettatori) tutti i particolari dell’impresa (è la III, 5, la più celebre scena terenziana). Qui compare un terzo amico di Taide, Cremete, che apprende dalla meretrice di essere fratello di Panfila: della fanciulla che il soldato Trasone, ingelosito, intende ora portarle via con la forza. Cremete aiuta Taide e i suoi a respingere l’assalto di Trasone e dei suoi (tra i quali spicca il parassita Gnatone). Intanto Cherea scopre che la fanciulla violentata è di nascita libera e progetta di riparare sposandola, mentre Gnatone, parlamentando a nome di Trasone, ottiene che Fedria faccia a mezzo dell’amore di Taide col soldato. Dall’omonima commedia di Menandro. Ma, come sappiamo da Terenzio stesso, Gnatone e Trasone sono aggiunte sue, e come sappiamo dal commentatore Donato, anche il personaggio dell’interlocutore di Cherea in III, 5 (Anfitrione) lo è. L’Eunuchus riscosse un tale immediato successo da dover essere replicato il giorno stesso della prima (e meritò a Terenzio l’eccezionale onorario di ottomila sesterzi).

5) Phormio (Formione)

Due fratelli, Cremete e Demifone, sono partiti da Atene lasciando i rispettivi figli, Fedria e Antifone, in custodia del servo Geta. Fedria ama una suonatrice di cetra, ma non trova le trenta mine per riscattarla; Antifone si è invece innamorato di Fanio, una ragazza originaria dell’isola di Lemno, libera ma povera, che ha appena perso la madre. Geta, lo schiavo-tutore per aiutare Antifone, chiede la collaborazione dello scaltro Formione, parassita e delatore di professione, abile azzeccagarbugli e simpatico furfante, che subito organizza una tresca. La legge ateniese prevede che se una ragazza è senza dote, il parente più prossimo è tenuto o a dotarla o a sposarla. Geta spaccia dunque per amico di famiglia di Fanio e cita in tribunale Antifone, non avendo di che dotarla, è “costretto” a sposarla. Intanto Demifone torna a casa. Non approva il matrimonio del figlio, parla di chiederne lo scioglimento, di cacciare i due giovani di casa. Formione, da smaliziato giurista, lo frena minacciando ritorsioni. Torna a casa anche Cremete. Il matrimonio di Anfitone non piace neanche a lui. Egli infatti aveva avuto a Lemno una figlia, di cui la sua moglie attuale, Nausistrata, non sa nulla, e che, proprio per questo — cioè per non dover dare troppe spiegazioni sulle origini della ragazza — avrebbe dato volentieri in moglie al nipote. Cremete chiede a sua volta a Formine di annullare il matrimonio di Antifone.

Formione si dice disposto a sposare lui la ragazza, ma a patto che Cremete la fornisca di una dote di trenta mine: che in realtà è la somma necessaria al figlio di Cremete, Fedria, per riscattare la sua amata citarista. Cremete accetta, ma a contratto stipulato e dopo che Fedria ha liberato la citarista, scopre che Fanio è sua figlia. A questo punto Cremete, che auspicava proprio il matrimonio di Fanio con Antifone, non vuol più procedere, mettendo così nei guai Formione (i soldi ufficialmente destinati alla dote, son serviti a riscattare la citarista di Fedria). Ancora una volta Formione si cava d’impaccio, coinvolgendo Nausistrata, ignara di tutto. Alla fine Nausistarata perdona il marito, ma a patto di un’amnistia generale. Dall’Epidikozòmenos («Il marito aggiudicato») di Apollodoro di Caristo. Un perfetto esempio di commedia motoria, cioè «mossa», d’«azione», al contrario di una stataria, «quieta», «di carattere», tutta basata sul mero gioco psicologico, come l’Heautontimorumenos.

6) Adelphoe: (i due fratelli)

Il capolavoro in assoluto di Terenzio. «I fratelli». Il vecchio Demea ha un fratello, Micione, e due figli, Ctesifone ed Eschino. Ctesifone viene tirato su dal padre con severità catoniana: in campagna, secondo le più rigide norme del mos moiorum; Eschino, affidato allo zio, in città e secondo canoni assai più elastici e comprensivi (“alla greca”). All’inizio dell’azione, Eschino ama Panfila, fanciulla onesta, povera e in procinto di dargli un figlio; Ctesifone ama Bacchide, una meretrice. Eschino, generoso e sicuro di sé, intraprende un’azione di forza in favore del timido fratello: va dal ruffiano e gli porta via Bacchide. Le apparenze accusano Eschino, Panfila vede profilarsi un futuro tutto nero per sé e il figlioletto, i metodi pedagogici di Micione sembrano volgere al fallimento. Un amico di famiglia, Egione, contribuisce a far luce sulla verità. Le cose si metterebbero davvero male per Ctesifone, se suo padre, stanco dell’impopolarità di cui gode, non decidesse di cambiare radicalmente atteggiamento e metodo. Ma la liberalità quasi eccessiva da lui sfoggiata in questo suo nuovo corso non è del tutto spontanea. Demea rinuncia infatti ai suoi principi per tattica, non per convinzione, e nel finale prova una vera ebbrezza nel vendicarsi del troppo popolare fratello: ingenuamente spalleggiato da Eschino, costringe Micione, sin qui scapolo convinto e incallito, a prendere in moglie la vecchia madre di Panfila, a regalare un vasto podere al povero amico Egione, a dare la libertà al servo Siro e alla sua compagna Frigia, ad anticipare sotto forma di prestito una somma iniziale per le prime necessità dei due nuovi liberti. Alla fine Micione, alquanto frastornato, non può esimersi dal chiedergli ragione dell’improvviso mutamento. Demea risponde di aver voluto dimostrare che è facile riuscire simpatici ai giovani praticando l’arrendevolezza e l’indulgenza; quanto ai figli, che spendano e spandano a loro piacimento, ma sappiano che lui è sempre pronto a dar loro qualche buon consiglio. La conclusione è che l’antipatico catoniano ha imparato qualcosa, ma anche il simpatico fautore del vivere alla greca è chiamato a rivedere i suoi metodi educativi. Dall’omonima commedia di Menandro, ma, come dichiara il prologo, con l’inserzione dell’episodio del ratto della meretrice, tratto da un’altra commedia menandrea, Synapothnéskontes (Coloro che muoiono insieme), che Planto aveva imitato nei suoi Commorientes, commedia oggi perduta, tralasciando proprio quel solo episodio.

I prologhi

I prologhi delle commedie di Terenzio risultano un buon indicatore se non della popolarità, quantomeno dell’interesse suscitato dal personaggio. Mentre il prologo tradizionale aveva la funzione di introdurre l’intreccio esponendone gli antefatti e delucidandone le implicazioni, nelle opere terenziane esso si articola in una struttura che ricorda le orazioni giudiziarie e diventa luogo privilegiato per polemizzare con gli avversari, esporre infine principi-guida della sua opera di poeta.

I toni sono talora pacati, come quando deve respingere l’accusa di non essere l’autore delle commedie, ma solo un prestanome di Lelio e dell’Emiliano. Qui Terenzio si trova in difficoltà, perché sa che una smentita offenderebbe i suoi patroni, lusingati da queste voci; così sfugge alla polemica e si dichiara onorato di tale familiarità, appellandosi al buon senso del pubblico. Molto più sanguigna appare la sua autodifesa quando deve tutelare il valore della sua opera duramente attaccata da Luscio Lanuvino , il ‘vecchio poeta malefico’ sostenitore di una tradizione secondo canoni rigorosi, un bene vertere che, tuttavia, ha come risultato lo scribere male, a quanto afferma Terenzio stessonel prologo dell’Eunuchus. Lui, che traducendo bene, ma scrivendo male, da buone commedie greche ne ha fatto delle latine non buone; egli ,medesimo ha dato ora il Fantasma di Menandro”.Costui non risparmierebbe critiche a Terenzio: Quelle scritte prima di questa (prologo del Phormio) colui va ripetendo che hanno un dialogo poco efficace e uno stile privo di forza.

Luscio giunse a chiamare Terenzio ‘ladro’ accusandolo di aver messo in scena una commedia già rappresentata da Plauto e Nevio. A sua difesa, Terenzio sostiene di aver semplicemente ’tradotto’ un originale di Menandro, l’Eununco, inserendovi due personaggi tratti da un’altra commedia dello stesso autore, il Colax (L’adulatore); egli avrebbe soltanto utilizzato lo stesso modello.

I personaggi terenziani

I personaggi terenziani perdono molto della tradizionale fissità quasi grottesca, e le relazioni interpersonali sulla scena si mutano in rapporti autenticamente umani nella loro imprevedibilità e sofferta problematicità.

Il fine perseguito dall’autore non è quello di provocare il riso o l’applauso, ma di indurli alla riflessione attraverso il sorriso, alla persecuzione della comune umanità, che diventa motivo di slancio solidale. Homo sum: è questa l’unica realtà, il solo valore che Terenzio sente di poter affermare, sicuro della sua universale validità. Dall’analisi cui Terenzio sotto pone l’animo umano risulta un quadro meno convenzionale, ma certo più autentico. Anche senza incontrare figure ‘uniche’ scopriamo che non sempre i padri sono arcigni e le suocere bisbetiche, non sempre gli adulescentes sono intemperanti e le meretrices avide di denaro, ma per tutti esiste la possibilità di essere ‘diversi’, di svincolarsi per un attimo dal proprio ruolo.

La nuova figura della meretrix

Questo aspetto non era sfuggito agli antichi e si trova espresso dal commentatore Evanzio. Bacchide, nell’Hecyra, è forse il personaggio più rappresentativo del crocevia Terenziano di tradizione ed innovazione. Come si conviene ad una cortigiana, è bella e desiderabile, mentre la sua nobiltà d’animo è una dote del tutto eccezionale in una meretrix. Bacchide rinuncia al suo amante, Panfilo, quando questi prende moglie; poi, di fronte alla giovane sposa e ai genitori di lui, memore dell’affetto che la legava a Panfilo, mette da parte l’amor proprio e i suoi sentimenti di donna ferita per smentire le voci che la vogliono ancora legata al giovane, e salvare così il matrimonio della rivale.

Per vivere ha come unica risorsa il commercio di sé; ma la Bacchide terenziana ha orizzonti più vasti del gretto utilitarismo: è un essere umano, capace di sentimenti, di credere in valori importanti come l’amicizia, l’affezione e la riconoscenza. Anche l’omonima cortigiana dell’Heautontimorumenos ci consente di evidenziare, un’evoluzione nella storia teatrale di questa maschera. La prima volta che si parla di Bacchide, per boca del suo amante Ctesifone, essa è la meretrix tradizionale: sfrontata. La morale comune non esisterebbe a censurare l’eccesso nel sumptus, o la vanitosa ostentazione implicita in magnifica;procax ha una connotazione negativa, evidente nella serie di insulti di matrice platina, che ci permette anche di rivelare la relativa sobrietà della descrizione in Terenzio. Questa Bacchide è la tradizionale meretrix anche per quanto riguarda le sue arti de adescatrice.

Subito dopo però si realizza il distacco dallo stereotipo, nel discorso di Bacchide ad Antifila. Bacchide confessa la propria disillusione sull’amore e la consapevolezza che il suo fascino sfiorirà: il ritratto umano che ne scaturisce non è quello della meretrix procax e proterva.

Terenzio e la forma comica pensosa

Il genere comico era stato, con Plauto, una forma di intrattenimento popolare. Poco importa, da questo punto di vista, quanto fosse ‘colta’ l’arte di Plauto, quanto raffinata la sua imprevedibile fantasia ritmica e verbale, quanto perfetto il suo controllo della lingua. Di fatto, le commedie di Plauto riuscivano ad avere successo presso il più vasto pubblico, e ad appassionare persino chi non fosse per nulla sensibile alle problematiche culturali degli originali menandrei. La commedia di Terenzio è invece molto più simile a quella di Menandro, suo principale modello greco; come accadeva in Menandro, i drammi di Terenzio accentuano fortemente componenti introspettive e moraleggianti, e tendono ad essere quasi educative. I personaggi e le trame sono ancora molto somiglianti a quelli di Plauto: Terenzio mette inscena le figure più tipiche della palliata e le trame sono tutte incentrate sull’innamoramento di un giovane e sugli ostacoli che incontra per possedere o sposare la ragazza che ama. Di nuovo, rispetto a Plauto, c’è che Terenzio scopre in quei tipi convenzionali e rappresentati mille volte dei caratteri psicologici, e analizza i risvolti interiori dei conflitti che, nel dramma, li mettono l’uno contro l’altro

L’ideale dell’humanitas

Nelle sue commedie Terenzio vuole illustrare in modo esemplare l’ideale dell’humanitas. L’uomo, sostiene queste teoria, ha una dignità che lo rende superiore ad ogni altro essere; in lui è un valore innato la socialità, ossia l’impulso di unirsi con i propri simili e dare stabilità, attraverso saldi legami, alla famiglia e alla vita civile. Terenzio ha risentito delle discussioni che hanno avuto luogo presso il circolo degli scipioni.

La dimensione verosimile

Il teatro di Terenzio è un teatro che vuole educare, insegnare dei comportamenti, mostrarsi fiducioso che la scena parli un linguaggio valido anche per la vita. Come in Menandro i personaggi della scena imparano uno dall’altro, si trasformano, si correggono a vicenda. Per questo torna ad essere importante adesso che i caratteri siano almeno verosimili, dotati di una loro coerenza psicologica: gli spettatori si confrontano con i personaggi, si identificano. Rispetto a Plauto Terenzio recupera la dimensione del verosimile, la somiglianza dell’azione rappresentata ad una scena vera, credibile e istruttiva per la vita di tutti i giorni. Nelle commedie di Terenzio sono scomparse quelle battute dei personaggi che si rivolgevano direttamente al pubblico rompendo l’illusione scenica, quei momenti del teatro platino in cui i personaggi prendevano le distanze dal loro ruolo. Anche se qualche volta il poeta per bocca dei suoi personaggi riflette sulla stilizzazione con cui la commedia rappresenta certi aspetti della vita, egli limita di preferenza i momenti di riflessione sulla propria arte allo spazio del prologo.

Ruolo umanizzato della Fortuna

Proprio perché vuole offrire una rappresentazione si storie verosimili, Terenzio non accoglie trame romanzesche; a differenza di Plauto, Terenzio preferisce non ricorrere a troppi colpi di scena, ritorni mirabolanti. Quando questi elementi compaiono anche in Terenzio sono solo un fattore meccanico, necessario per accomodare la trama e dare il lieto fine. Anzi la Fortuna quando interviene per sciogliere intrecci divenuti ormai troppo complicati, lo fa accompagnando una mutata realtà psicologica: i personaggi sono ormai pronti ad accettare quello che la sorte farà capitare, i padri sono ormai rassegnati per il matrimonio dei figli, i figli hanno ormai deciso di mettere la testa a posto. La Fortuna aiuta a superare i pregiudizi della differenza sociale, per esempio rivelando che la cortigiana della commedia è nata di condizione libera, e che il giovane la può sposare senza compromettere la posizione della famiglia e l’onore del padre.

Lo stile: un parlato ‘ripulito’

Coerenti con queste scelte in direzione di un teatro più dimesso e verosimile sono anche tutta una serie di scelte linguistiche ‘piane’, lontane dai virtuosismi di Plauto. Anche parodia e caricatura non sono molto frequenti, e manca a Terenzio quella creatività verbale, che spesso avvicinava Plauto ad Aristofane. I personaggi di Terenzio parlano una lingua ripulita simile a quella delle classi urbane di buona educazione. Manca, per esempio, qualsiasi concessione all’osceno, i giochi di parole lubrichi, ogni tipo di insulto: la stessa parola ‘bacio’, in sei commedie tutte incentrate su intrighi d’amore, non compare più di due volte: gli innamorati, di regola, non si baciano, e si parla poco, in genere, di mangiare, di corpi, di bere, mentre acquistano spazio le parole astratte, quelle che rendono possibile e interessante l’analisi psicologica. L’effetto di questo stile doveva apparire alquanto idealizzato rispetto ai gusti del pubblico romano. Inoltre, la restrizione e la censura operate sul lessico hanno un loro corrispettivo nella forte riduzione della varietà metrica, rispetto a Plauto. Sono scarse le parti propriamente liriche, e molto contenuta è l’estensione dei cantica rispetto ai recitativi e ai dialoghi.

Studio psicologico dei caratteri del teatro di Terenzio

Le novità del teatro di Terenzio gli procurano fin dall’inizio critiche e rimproveri sui suoi presunti difetti. Giulo Cesare accusava il poeta di mancare di vis comica. Terenzio sacrifica rispetto alla tradizione della palliata, la ricchezza dell’inventiva verbale e delle trovate comiche estemporanee. Viene invece approfondito il carattere dei personaggi, con la conseguenza che essi assumono spesso tratti che rovesciano la tipizzazione della commedia platina, ma che, proprio per questo li rendono più realistici; basta guardare l’Hecyra, una suocera che si preoccupa degli interessi del figlio e della nuora e che non vuole essere di peso, una cortigiana insolitamente generosa e disposta al sacrificio.

Terenzio ‘plautineggiante’

La palliata latina era sempre stata ancorata a situazioni familiari, ma in Terenzio questi rapporti tra i familiari diventeranno sentiti con serietà problematica. Non è dunque un caso che la commedia terenziana di maggior successo sia quella in cui meno si affacciano i temi psicologici e umanisti prediletti dal poeta. Eunuchus, si tratta d’altra parte del più riuscito tentativo di Terenzio di muoversi in direzione della comicità plautina

Le trame doppie

Per approfondire in caratteri psicologici i tipi tradizionali, a Terenzio dovette servire molto la pratica della duplicazione delle trame; una pratica aiutata dalla sistematica contaminazione di più modelli. Dunque in molte sue commedie due sono i giovani innamorati, due le giovani da maritare, due i padri che si oppongono all’unione. Duplicandosi, quei ruoli tipici hanno modo di guardarsi di studiarsi di confrontarsi col proprio doppio, e prendere l’uno dall’altro: acquistano, insomma, miriadi di sfumature nuove. Eppure a volte questo confronto produce effetti più strani, meno inquadrabili sotto l’etichetta ottimista dell’humanitas. Così accade nell’enigmatico finale degli Adelphoe, dove Demea, il vecchio severo e rigorista, scegli di adottare i comportamenti del fratello, ma la sua condiscendenza è più una scelta di calcolo, un po’ cinica; si nota quando Denea dice ad alta voce: Gli altri ti vogliono bene se li assecondi, non se fai il giusto o ti opponi all’ingiusto. Anche l’ideale dell’humanitas ha più ombre di quanto possa apparire semplicisticamente.

La contaminazione: autodifesa di Terenzio

Si è accennato alla pratica della ‘contaminazione’, come incentivo alla duplicazione delle trame e dei caratteri in Terenzio. Di questa pratica ci parla lui stesso nei prologhi. Terenzio usa i prologhi come uno spazio che appartiene al poeta e non per presentare agli spettatori la trama della commedia. Terenzio usa questo spazio per difendersi, per rispondere alle critiche, per chiarire il suo rapporto con i modelli greci che utilizza. Per bocca del capocomico, che parla del poeta riferendosi a lui in terza persona, Terenzio si difende, contro i suoi detrattori: quelli che lo accusano di contaminare fabulas (vale a dire, di incrociare quasi rovinando, in una stessa commedia le trame di più modelli), quelli che lo accusano di plagio, quelli che insinuano che le sue commedie siano scritte da altri, gli altolocati amici del circolo degli Scipioni. Terenzio si difende dicendo che a ‘contaminare’ sono già stati i più grandi autori latini, da Nevio a Plauto, e nessuno lo ha loro rimproverato. Quest’uso dei prologhi rende Terenzio avvicinabile a figure come Ennio o Lucilio, che nella loro pratica letteraria danno sempre più spazio a momenti di riflessione critica e poetica, accostandosi all’ideale alessandrino del poeta-filologo.

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