Introduzione (Hochheim 1260 circa – Colonia 1328 circa), mistico tedesco e teologo cristiano, noto soprattutto col nome di Meister (maestro) Eckhart. Nato da una famiglia di cavalieri, Eckhart entrò nell’ordine domenicano all’età di quindici anni e proseguì gli studi teologici presso l’ordine. Si laureò in teologia all’università di Parigi nel 1302, e fu dapprima priore a Erfurt e provinciale domenicano di Boemia, poi professore di teologia a Parigi nel 1311, e tra il 1314 e il 1322 insegnò e predicò a Strasburgo e a Colonia. La teologia di Eckhart si basava sul principio dei una unione mistica dell’anima con Dio, tesi che gli procurò accuse di panteismo. Nel 1327 il papa avignonese Giovanni XXII invitò Eckhart a difendersi contro l’accusa di eresia. Eckhart ritrattò 26 articoli o proposizioni (28 secondo la bolla papale di condanna “In agro Domini”, del 1329). Gli studiosi moderni considerano ortodosso il misticismo di Eckhart, sebbene generalmente si ritenga che i sermoni e i brevi trattati pervenutici siano stati curati da amici e nemici di Eckhart. “Istruzioni spirituali”(1300 circa), “Il libro della divina consolazione” (1308 circa) e altri sermoni sono ritenute le opere più attendibili; esse illustrano le tappe percorse dall’anima nel suo itinerario verso Dio. Scrivendo in tedesco oltre che in latino, Eckhart esercitò una profonda influenza sulla crescita della lingua tedesca. Gli idealisti tedeschi lo considerarono un precursore, mentre gli studiosi contemporanei hanno individuato la sua influenza sul protestantesimo e l’esistenzialismo, svelando persino analogie con il buddhismo Zen. Scrisse in latino molte “Questiones”, parte dell'”Opus tripartitum”, il “Tractatus super oratione dominica”, molti commenti scritturali. Vita e opere Le considerazioni precedenti sono state ritenute necessarie per una corretta comprensione del pensiero di Meister Eckhart, nel quale si sono ravvisati molti elementi per portare a compimento le risposte ai temi presupposti. Eckhart, il cui nome ò stato assorbito dall’ alta considerazione in cui era tenuto dai contemporanei complementare alla scarsa conoscenza odierna dall’ appellativo Meister, nacque probabilmente verso il 126O. Alcuni hanno avanzato l’ ipotesi che appartenesse ad una famiglia di ministeriali di cognome Hochheim, che nel tempo aveva assunto, per motivi non noti il cognome Eckhart. Entrò nel convento di Erfurt, prima di aver raggiunto la maggiore età , immergendosi negli studi teologici, nello spirito domenicano a cui apparteneva, tant’ò che sembra certo che la sua formazione avvenisse a Colonia, nella rimeditazione dello “Studium generale” del suo ordine, in cui forte era l’ influenza di Alberto Magno, col quale Eickhart probabilmente dovette avere qualche casuale incontro personale. Certo ò che nel 1286 Eickhart si trova a Parigi, una delle più prestigiose università della sua epoca, tradizionalmente “aristotelica” e sede di ardite interpretazioni evangeliche e teologiche. Tra il 1293/94, come baccallaureus commentava in questa sede le “Sentenze” di Pietro Lombardo. Nello stesso hanno venne nominato priore a Erfurt, dove restò fino al 1298 ricoprendo contemporaneamente l’ incarico di vicario per la Turingia in rappresentanza di Teodorico di Freiberg. Si dice che proprio in questo periodo, tenne per i giovani domenicani le Reden der Unterscheidung (Istruzioni spirituali). Nel 1298, avendo il Capitolo del suo Ordine proibito il cumulo delle cariche, dovette rinunciare alla carica di priore. Nel 13O2 gli fu conferita la “licentia docendi” e il titolo di Magister (Meister), titolo col quale resto nella storia del pensiero. L’ incarico era tanto più prestigioso dal momento che lo stesso incarico di “magister sacrae theologiae” era stato di Tommaso d’Aquino, un trentennio prima, entrambi residenti nel convento de Rue St. Jacques. (Alcuni studiosi pensano che ò a questo periodo che debba esser fatta risalire la prima stesura delle due “Quaestiones parisienses”). Nel 13O3, nei primi dell’ estate, Eckhart fu nominato provinciale dell’ appena istituita princia della Sassonia, resa autonoma da quella ormai ampia e ingovernabile della Teutonia. L’ambito culturale in cui si muove Eckhart ò dominato dalla filosofia scolastica che si può far risalire al pensiero di Giovanni Scoto Eriugena (vissuto probabilmente nell’800) ma che nel tempo in questione ò ormai intrisa di aristotelismo. La filosofia scolastica, che avrà vita lunga, trae le sue radici dal Cristianesimo, nasce e si fonde con la teologia e viene diffusa da ecclesiastici preposti a questo compito, gli scolastici appunto. Uno dei temi più dibattuti ò il rapporto tra rivelazione religiosa ed ambito scientifico. La forma ò la “distinzione” senza fine ed “esteriore” (Hegel) utilizzando concetti metafisici e le categorie di Aristotele. Con Eckhart si assiste alla rinascita delle posizioni neoplatoniche di Proclo, della teologia negativa di Dionigi Areopagita e di Giovanni Scoto Eriugena. Il pensiero Eckhart sente troppo angusto il concetto di “essere” per applicarsi a Dio e giunge così, per conservare a Dio la libertà da ogni limitata categoria, ad associargli piuttosto il “non-essere”. Più dell’essere/non-essere Eckhart trova adeguato a Dio il concetto di “intelligere”. E se proprio si volesse predicare dell’essere di Dio, la sua pienezza contemplerebbe ogni creatura e la molteplicità non troverebbe più terreno proprio. Ogni particolare sparirebbe in se stesso e si conserverebbe invece solo come predicato di Dio e sua espressione. Tornano immagini tipicamente neoplatoniche: Dio ò una sfera infinita che trova il suo centro ovunque e la sua circonferenza in alcuna parte; Dio ò fonte di luce da cui emana la molteplicità , e così via. Tutti temi questi che resteranno distanti e incomprensibili ai polemici ed aristotelici scolastici. La metafisica di Eckhart ha il suo corrispondente nella psicologia e nella mistica: l’anima scopre Dio nella radicale negazione di ogni essere e di se stessa, al di là di ogni discorso, in un contatto immediato che si realizza nell’ “apex mentis “, nella scintilla dell’anima: progressiva deificazione possibile in virtù della mediazione del Cristo. Condizione di questo cammino verso Dio ò vedere ” tutte le cose e noi stessi come un puro nulla “; suo esito ò la rinascita dell’uomo in Dio, o addirittura, come accade ai mistici e santi, l’unione totale con Dio. In questo culmine della fede, in questo ” sprofondare nel punto centrale dell’anima “, l’uomo diventa quasi letteralmente Dio, separato dall’essenza divina solo da ciò: che l’uomo ò Dio “per grazia” e Dio ò tale “per natura”. Eckhart così si esprime a proposito dell’atteggiamento distaccato e libero da ogni finalismo, che deriva in chi si sprofonda nel fondo dell’anima: ” Da questo fondo più intimo devi compiere tutte le tue opere ‘senza perchò’. In verità io dico: finchò compi le tue opere per il regno dei cieli, o per Dio, o per la tua eterna felicità , cioò per una ragione esteriore, non sei veramente come dovresti essere. Chi cerca Dio secondo un modo, prende il modo e lascia Dio che ò nascosto sotto quel modo. Ma chi cerca Dio senza modo, lo prende così com’ò in se stesso. Chi domandasse per mille anni alla vita: perchò vivi? , se essa potesse rispondere, direbbe soltanto così: io vivo perchò vivo. Poichò la vita vive del suo proprio fondo e scaturisce dal suo proprio essere. Se qualcuno domandasse a un vero uomo che agisce dal suo proprio fondo: perchò compi queste opere?, egli, se dovesse rispondere rettamente, dovrebbe dire: io opero per operare ” Colpisce l’attualità del pensiero eckhartiano per il matrimonio che in esso si consuma tra il duro rigore dell’ “intelligere” e la dolcezza della “grazia”. Il mistico ha una esperienza fuori dal tempo e parla fuori dal tempo. Nel mistico si ò già chiuso il ciclo cosmico della materia. ” Diciamo dunque che l’uomo dev’essere così povero da non essere e da non avere in sò luogo alcuno in cui Dio possa operare. Finchò egli riserba un luogo, ritiene una distinzione. Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, poichò il mio essere essenziale ò al di sopra di Dio in quanto cogliamo Dio come principio delle creature; in questo stesso essere di Dio in cui Dio ò al di sopra dell’essere e al di sopra della distinzione, io ero me stesso, volevo me stesso, conoscevo me stesso per fare quest’uomo (che sono). Perciò io sono causa di me stesso secondo il mio essere che ò eterno, e non secondo il mio divenire che ò temporaneo. Perciò sono non-nato, e secondo il modo non-nato non posso mai morire “. Valutiamo cosa ha inteso indicarci Meister Eckhart nella Predica “Del Distacco”, perchè essa ò estremamente utile ai fini di determinare il vuoto che ci ò necessario definire e colmare. Meister Eckhart vuole individuare ” quale sia la più alta e migliore virtù per cui l’uomo possa meglio e più strettamente unirsi a Dio e divenire per grazia ciò che Dio ò per natura, e per cui l’uomo sia maggiormente simile alla propria immagine, quando era in Dio, quando non c’era differenza tra lui e Dio, prima che Dio formasse le creature “. Innanzi tutto, ò da notare che il rapporto messo nella prima accezione, quello uomo-Dio, dipende, non da qualche categorialità , ma ” da una più alta e migliore virtù “: ossia ò nella “virtù” che troviamo lo strumento, e, non in altri, per definire la consistenza e la misura della presenza dell’uomo davanti a Dio e viceversa. La virtù non ò una disposizione d’animo, nè la virtus antica, nè tanto meno una predisposizione al bene. La virtù qui ò intesa come strumento per far sì che si pongano le condizioni del rapporto stesso tra uomo e Dio. Meister Eckhart la chiama in maniera non equivoca: “Distacco”. Tale termine verrà distesamente descritto, ma esso non ò nè conoscenza nè moralità : esso ò un puro fatto energetico che utilizza non solo la razionalità e la moralità , ma tutto ciò che serve ai fini che si propone. Dice, infatti, Eckhart: ” io lodo il distacco più di ogni amore. Prima di tutto per questo motivo: ciò che di migliore ha l’amore, ò che esso mi obbliga ad amare Dio, mentre il distacco obbliga Dio ad amare me. “. ” L’uomo può strettamente unirsi a Dio “, tuttavia quello che Dio ò naturalmente, nell’uomo ò ” un divenire per grazia “. Il che equivale a dire che l’unità originaria ha un momento che la può dissolvere definitivamente, poichè noi non siamo nè necessari nè essenziali alla permanenza dell’Assoluto, tenuto conto che l’Assoluto non ha bisogno di permanenza. Dunque, l’unità originaria avviene solo per grazia. Nella più brutale espressione noi siamo salvi solo per una decisione che non ci appartiene. E non poteva essere diversamente, perchè ciò avrebbe significato una parodistica eguaglianza con “Chi” ò “più” e “oltre” noi, con Colui che non ha bisogno nè di essenza nè di spazio, nè di tempo e che, conseguentemente non cura nè spazio nè tempo, se non dal punto di vista umano. Il che significa che se il tempo-spazio esiste, esiste per pura sovrabbondanza, dunque “inutilmente”. Ragion per cui l’utilità di conservare un qualcosa nello spazio e nel tempo, ò un puro atto gratuito: infatti, ciò che ò in esubero non può assolutamente significare “una perdita” dal momento che ò ab aeterno consegnato al niente. Il niente ò, perciò, l’opposto della grazia e la grazia non ha da riferirsi a nessun obbligo salvifico, se ò vero che la prospettiva della Grazia non muove dal mondo ma unicamente dall’anima. Infatti, ciò si specifica inequivocabilmente da quella immagine purissima che ” non c’ò differenza tra l’ immagine dell’ uomo e quella di Dio “, giacchè il loro porsi ò antecedente ad ogni altra creazione. La questione ò, perciò, quella di ripristinare lo stato originario e considerare che esso si determina soltanto togliendo la “posterità creazionale”. Come si ò detto, ò solo e semplicemente questo che Meister Eckhart definisce “distacco”, poichè, quando esso viene caricato di aspetti puramente “nientificanti”, ciò ò dovuto al procedimento divulgativo e “predicatorio”. Il Distacco non esclude il mondo in quanto esistenza, il Distacco esclude l’ esistenza per recuperare “una somiglianza” e solo dopo averla recuperata si può comprendere come essa implichi “una visione” diversa dello stesso “niente”. Ma procediamo con ordine. Trascriviamo “la predica” del distacco. Viene detto: ” il puro distacco ò al di sopra di tutte le cose, giacchè ogni virtù ha in qualche modo in vista la creatura, mentre il distacco ò libero da tutte le creature “. In questa enunciazione (escludendo l’ uso di virtù nella comune accezione di “capacità cognitiva”, che ò difforme da quello che Meister Eckhart usa, altrove e correttamente, nel suo vero significato di “mezzo per raggiungere l’unità “), il “tema” del Distacco ò espresso nella più completa e concisa determinazione. Ma poichè sembra apparirgli non sufficientemente chiaro che il Distacco ò prevalentemente vuoto, ecco come divulga: ” ò molto più nobile obbligare Dio a venire a me, che non obbligare me ad andare a Dio, perchè Dio può inserirsi in me più intimamente ed unirsi meglio di quanto io non possa unirmi a Dio. Che il distacco forzi Dio a venire a me, lo dimostro così: ogni cosa desidera essere nel luogo suo proprio e naturale. Ora il luogo naturale e proprio di Dio ò l’ unità e la purezza ed ò ciò che il distacco produce “. Per la ragione che Dio ò “tanto semplice e sottile ” che ” solo lui” può trovare posto nello spirito distaccato”, nasce l’ esigenza di insistere sulla nientificazione, anche a costo del fraintendimento. Infatti, Meister Eckhart dichiara apertamente di non trovare alcuna significanza nella “sofferenza”( ” perchè nella sofferenza l’ uomo ha in qualche modo in vista la creatura che gli causa la sofferenza “); nè tanto meno crede nell’ “umiltà ” (” la perfetta umiltà si piega al di sotto di tutte le creature e, piegandosi così, l’uomo esce da se stesso per andare verso le creature, mentre il distacco permane in se stesso, [… ] vuole essere dove si trova, senza considerare l’ amore o la sofferenza. [… ] Perciò tutte le cose davanti ad esso sono lasciate essere, senza essere importunate “) E questa necessità di “non importunare” per occuparsi del compito di essere aperto a Dio soltanto, che costringe ad asserire: che il distacco deve essere totale e perfetto, che non può essere turbato nè uscire da se stesso, poichè ” nessuna uscita, per quanto piccola può essere senza danno “. ” Tacerò e ascolterò quel che mi dirà il mio Signore e mio Dio. E’ come se mi dicesse: se Dio mi vuole parlare, che venga verso di me; io non voglio uscire da me stesso “. Altrettanto negativa ò la misericordia ( ” essa costringe l’ uomo ad uscire da se stesso, per andare verso le miserie del suo prossimo, cosicchè il suo cuore si turba “): tale asprezza ò dovuta al fatto che c’ò in palio l’ eternità e questo desiderio di eternità ha da considerare che ” Dio non può donare ad altri che a se stesso ” e solo nella misura in cui si diventa Dio che si ha la necessità di tendere al non- turbamento. ( ” Dio ò Dio per il suo distacco immutabile “). ” Devi sapere che il vero distacco consiste solo nel fatto che lo spirito permane tanto insensibile a tutte le vicissitudini della gioia e della sofferenza, dell’ onore, del danno e del disprezzo, quanto una montagna di piombo ò insensibile ad un vento leggero. [â¦] Io dico inoltre: tutte le preghiere e le buone opere che l’ uomo può compiere nel tempo, turbano tanto poco il distacco di Dio, quanto lo turberebbe il fatto che mai si siano compiute nel tempo preghiere ed opere buone “. Meditazioni C’ò una potenza nell’anima, l’intelletto, che fin dall’inizio, appena prende coscienza di Dio o lo gusta, ha in sè cinque proprietà . La prima ò quella di essere libera dal qui e dall’ora. La seconda ò quella di non avere somiglianza con niente. La terza ò quella di essere pura e senza commistione. La quarta ò quella di essere operante o ricercante in sè stessa. La quinta ò quella di essere un’immagine. In primo luogo: ò libera dal qui e dall’ora. Qui ed ora significano il tempo e il luogo. “Ora” ò la piຠpiccola parte del tempo, non ò frammento o parte del tempo, ma piuttosto un sapore del tempo, una punta ed una estremità del tempo. E tuttavia, per quanto piccolo possa essere, deve andarsene; tutto deve andarsene quel che tocca il tempo, o il sapore del tempo. Dall’altro lato: ò libera dal qui. “Qui” significa il luogo. Il luogo in cui io sono ò davvero piccolo. Tuttavia, per quanto piccolo possa essere, deve sparire, se si deve vedere Dio. In secondo luogo: non ò simile a niente. Un maestro dice: Dio ò un’essenza simile a niente, e che non può assomigliare a niente. San Giovanni dice: “Noi saremo chiamati figli di Dio”. Ma se dobbiamo essere figli di Dio, dobbiamo essere simili a lui. Come dunque può dire il maestro: Dio ò un’essenza simile a niente? Lo dovete comprendere cosà: in quanto questa potenza ò simile a niente, in tanto proprio ò simile a Dio. Essa ò simile a niente, proprio come Dio ò simile a niente. Sapete, tutte le creature per natura stanno in caccia ed operano al fine di diventare simili a Dio. Il cielo mai ruoterebbe, se non andasse in cerca di Dio o di una somiglianza a lui. Se Dio non fosse in tutte le cose, la natura non opererebbe nè desidererebbe niente in nessuna cosa, giacchè, che tu ne abbia gioia o dolore, che tu lo sappia o no, la natura cerca e tende a Dio nel segreto, nella parte piຠintima. Per quanto assetato possa essere un uomo, egli rifiuterebbe la bevanda che gli venisse offerta, se non vi fosse in essa qualcosa di Dio. La natura non desidererebbe nè cibo nè bevanda, nè vesti nè alloggio, nè alcuna altra cosa, se non vi fosse niente di Dio; essa sempre cerca nel segreto e sta in caccia per trovare Dio in tutte le cose. In terzo luogo: ò pura e senza commistione. La natura di Dio ò tale che non può soffrire molteplicità o commistione di alcun genere. Cosà anche questa potenza non ha molteplicità o commistione di sorta; niente di estraneo ò in essa, e non può introdurvisi. Se io dicessi di un bell’uomo che ò pallido e nero gli farei torto. L’anima dev’essere completamente senza molteplicità . Se qualcuno attaccasse qualcosa al mio cappuccio o vi ponesse qualcosa, chi lo tirasse, tirerebbe insieme quel che vi ò attaccato. Quando io me ne vado di qui, tutto quel che ò su di me se ne va con me. Se si trascina via ciò su cui un uomo ha costruito, si porta via anche lui. Ma se un uomo fosse fondato sul nulla e non aderisse a nulla, rimarrebbe completamente immobile anche se il cielo e la terra fossero capovolti, perchè non sarebbe attaccato a niente e niente a lui. In quarto luogo: ò sempre interiormente in ricerca e operante. Dio ò una tale essenza che sempre abita nel piຠprofondo. Perciò l’intelletto ricerca sempre nell’interno. Al contrario, la volontà va verso l’esterno, verso quel che ama. Se, ad esempio, venisse da me un amico, il mio volere con il suo amore si effonderebbe verso di lui, e troverebbe in ciò la sua soddisfazione. Dice san Paolo: “conosceremo Dio come siamo conosciuti da lui”. San Giovanni dice: “Conosceremo Dio come egli ò”. Se devo essere colorato, devo avere in me quel che appartiene al colore. Non sarò mai colorato, se non ho in me l’essenza del colore. Mai posso vedere Dio, se non là dove egli stesso si vede. Perciò un santo dice: “Dio abita in una luce inaccessibile”. Nessuno si scoraggi per questo: ci si trova sulla strada o nell’entrata, e questo ò bene; ma la verità ò lontana, perchè questo non ò Dio. In quinto luogo: ò un’immagine. Ebbene, fate attenzione e ricordate bene, perchè tutta la predica sta in questo. L’immagine e l’immagine originaria sono cosà completamente uno ed unite l’un l’altra, che non vi si può riconoscere alcuna distinzione. Si può ben pensare il fuoco senza calore e il calore senza fuoco; si può anche pensare il sole senza la luce e la luce senza il sole, ma non si può riconoscere alcuna distinzione tra immagine ed immagine originaria. Dico ancora di piàº: Dio, con la sua onnipotenza, non può riconoscere in ciò alcuna distinzione, perchè insieme vengono generate e insieme muoiono. Se mio padre muore, non muoio perciò io. Quando muore, non si può dire “ò suo figlio”, ma piuttosto si dice “era suo figlio”. Se si fa bianco il muro, in quanto ò bianco ò uguale ad ogni bianchezza. Se si fa nero, allora ò morto ad ogni bianchezza. Vedete, lo stesso ò qui. Se sparisse l’immagine formata secondo Dio, se ne andrebbe anche l’immagine di Dio. [MEISTER ECKHART, “Sermoni tedeschi, Modicum et iam non videbitis me” ]
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