Nazionalismo e Introduzione al Fascismo - Studentville

Nazionalismo e Introduzione al Fascismo

La crisi dello Stato Liberale e l'affermarsi del Fascismo in Italia.

Al termine della prima guerra mondiale era assurdo pretendere un pacifico ritorno al passato: le masse popolari, che avevano partecipato ai sacrifici della guerra e cui molto si era promesso, erano animate da grandi speranze di riscatto, mentre anche i ceti medi dimostravano tutta la loro insofferenza per lo status quo, avanzando confuse proposte di riforma democratica delle istituzioni; purtroppo l’evoluzione dell’industria pesante non aveva portato che ad un rafforzamento del ceto imprenditoriale, rimanevano inalterati i precedenti squilibri sociali. Del mutato clima erano sintomi significativi la formazione del Partito Popolare (grazie al quale cessava l’assurdo divorzio delle masse cattoliche dalla vita del paese), l’incremento impressionante del Partito Socialista (che vedeva quadruplicati i suoi iscritti rispetto all’anteguerra) e la fondazione di gruppi di ex combattenti, decisi a darsi una rappresentanza politica autonoma. Le elezioni politiche del 1919, svoltesi col nuovo metodo della rappresentanza proporzionale, infatti trasformarono la realtà politico-economico italiana: aumentò enormemente la partecipazione delle masse operaie e contadine alla vita politica, soprattutto l’aggregazione a livello sindacale; si delineò chiaramente il declino dei liberali, la crescita del Partito popolare di Don Sturzo e del Partito Socialista.

Il Partito Socialista nel dopoguerra non fu più guidato dall’ala riformistica, facente capo a Filippo Turati, ma da una maggioranza massimalistica, che ebbe il grave torto di professare un rivoluzionarismo astratto, cui non corrispondevano serie intenzioni di effettiva conquista del potere, ma che era sufficiente a rendere il partito insensibile ai problemi dell’edificazione di uno stato ampiamente democratico, per la quale esistevano in Italia alcune premesse. L’inadeguatezza quindi del Partito socialista e la sua incapacità di svolgere il ruolo che gli veniva affidato dagli elettori nel Paese, in occasione del Congresso di Livorno nel 1921, portò alla scissione: nacquero così il Partito comunista d’Italia e il Partito socialista unitarioMussolini, espulso dal Partito socialista nel 1914, fondò prima il Popolo d’Italia, attraverso il quale portò avanti una forte campagna interventista e il 23 marzo 1919, i Fasci Italiani di Combattimento, organizzazioni che ricordavano quelle fondate anni prima per chiedere l’entrata in guerra dell’Italia. In quell’occasione fu stilato un programma dove oltre a dichiarare il pieno appoggio agli ex combattenti per un miglioramento delle pensioni, si chiedevano rivendicazioni sociali come una pesante tassazione del capitale e dei profitti di guerra, una paga minima di base per i reduci, la nazionalizzazione dell’industria degli armamenti e la confisca dei beni ecclesiastici. Si evidenziava un atteggiamento estremamente duttile e ricco di professate contraddizioni; tale cioè da consentire di potersi inserire in ogni vicenda politica, quale che fosse il corso delle cose. Mussolini si dichiarò infatti aristocratico e democratico, conservatore e progressista, reazionario e rivoluzionario, legalitario e illegalitario.

L’atmosfera accesamente nazionalistica, esasperata dal mito della vittoria mutilata, avallato anche da esponenti della vecchia classe dirigente, fu la condizione sufficiente a preparare l’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito, che, guidati da D’Annunzio, occuparono Fiume il 12 settembre 1919 e vi instaurarono la cosiddetta “reggenza del Quarnaro“, ossia un regime personale del Comandante. Fu questa una prima grave manifestazione della crisi dello Stato liberale che sarà definitivamente sancita dalle successive elezioni. Così, mentre si consolidava il processo rivoluzionario, cresceva la paura degli imprenditori e dei latifondisti, che organizzarono le prime squadre punitive. La collusione del Fascismo con la reazione padronale, agraria e industriale, divenne manifesta dopo il fallimento della occupazione delle fabbriche (settembre 1920). Da allora cominciò e andò progressivamente aumentando l’uso sistematico della violenza squadrista contro il proletariato.

Dopo la caduta dell’ultimo ministero di Giolitti, che aveva già dimostrato una certa tolleranza nei confronti delle violenze fasciste, divenne sempre più evidente che lo Stato liberale era di fatto largamente connivente con il Fascismo, mentre gli esponenti del Fascismo, soprattutto Mussolini, dichiaravano sempre più apertamente la loro volontà di assumere il potere, anche con la forza. Il 26 ottobre del 1922, a Napoli, dove si era tenuto il Congresso del Partito fascista, si formò il quadrumvirato, formato da De Bono, Balbo, De Vecchi e Bianchi, col compito di preparare il colpo di forza contro il governo, la cosiddetta Marcia su Roma. Il presidente del consiglio propose al re di decretare lo stato d’assedio, mandando le truppe contro i fascisti che si erano accampati alle porte di Roma, il re rifiutò di firmare il decreto e offrì invece a Mussolini, l’incarico di formare il nuovo governo (28 ottobre 1922).

Fase legalitaria

La fase legalitaria della dittatura fascista ebbe inizio nel 1922 quando, il 30 ottobre, il re Vittorio Emanuele III diede a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo, in seguito alla marcia su Roma. Mussolini presentò la lista dei ministri al re giungendo alla costituzione del governo il giorno successivo. Il nuovo governo comprendeva i popolari, i democratico-sociali, uomini della destra storica e un numeroso gruppo di fascisti. Il Partito Nazionale Fascista si organizzò in partito di governo, creando il Gran Consiglio del Fascismo, l’organo direttivo del partito, e costituendo agli inizi del ’23 la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, un gruppo paramilitare formato dalle ex squadre fasciste. Nel marzo del ’23 il Partito Fascista si unì a quello Nazionalista, dal quale giunsero intellettuali che diedero un’ideologia coerente al partito. Negli anni della fase legalitaria della dittatura, cioè dal 1922 all’inizio del 1925, Mussolini:

– Riorganizza la struttura prefettizia ponendo un prefetto in ogni città.

– Introduce una nuova legge elettorale, la legge Acerbo, approvata dal Senato il 3 novembre 1923, che stabiliva che il partito di maggioranza relativa doveva ottenere i due terzi dei seggi, mentre il rimanente terzo doveva essere spartito proporzionalmente fra le rimanenti forze politiche.

– Ottiene la maggioranza dei seggi alle elezioni dell’aprile del ’24.

– Argina con autorità la crisi aperta dal caso Matteotti, il socialista rapito ed assassinato per aver denunciato alla Camera, il 30 maggio 1924, le irregolarità e i soprusi fascisti durante le elezioni. Nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, Mussolini si assume le responsabilità del delitto Matteotti, e pone fine alla fase di transizione durante la quale il Fascismo aveva convissuto con le istituzioni liberali, e dà inizio alla fase dittatoriale del suo governo.

Fase totalitaria

Con il discorso del 3 gennaio 1925 iniziò quindi la fase dittatoriale del governo Mussolini. Nel corso dell’anno egli arrivò al controllo totale del potere, sancito dalle “leggi fascistissime” promulgate nel dicembre. Con la prima di esse, il capo del governo veniva ora nominato e revocato dal re, ed era responsabile delle scelte politiche solo di fronte a lui. In seguito alle leggi fascistissime il Parlamento non ebbe più la sua funzione essenziale, e nel 1928 il Gran Consiglio del Fascismo diventò l’organo istituzionale, che aveva il compito di proporre i nominativi dei ministri e del capo del governo. Le leggi fascistissime inoltre limitavano il diritto di associazione e conferivano al capo del governo il potere di sciogliere i partiti politici dell’opposizione. A difesa di questa struttura repressiva venne posto il “Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato“.

Alla costruzione delle strutture totalitarie mirate al controllo del dissenso si affiancava l’organizzazione del consenso attraverso istituzioni tradizionali come la scuola e l’università, e altre nuove come gli organismi paramilitari. L’Opera Nazionale Balilla educava attraverso parate militari, esercitazioni e lezioni i giovani, che a seconda dell’età erano divisi in: “figli della lupa“, “balilla” e “avanguardisti“. L’ultimo passo verso la formazione di uno Stato totalitario venne fatto nel 1928, con l’introduzione di un nuovo sistema elettorale nel quale tutte le forme di rappresentanza facevano capo al Fascismo. Alle elezioni del 24 marzo 1929 la lista unica venne ovviamente approvata. L’11 febbraio 1929 ci fu poi la firma dei Patti Lateranensi, da parte del Cardinale Gasparri per la Santa Sede e di Benito Mussolini per il Governo Italiano. Si concluse così, almeno formalmente, la questione romana.

Per quanto riguarda la politica economica, lo Stato intervenne in ogni suo aspetto, e in particolare nei confronti dell’economia industriale con la creazione dell’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). La lira venne rivalutata per frenare l’inflazione, operazione però che, dopo una prima fase positiva, provocò una diminuzione delle esportazioni con effetti disastrosi sulla bilancia commerciale. Per ovviare allo squilibrio fra importazioni ed esportazioni, il regime diede inizio alla “battaglia del grano“, secondo le direttive di politica autarchica. La politica agraria del regime era volta a potenziare la produzione italiana, innalzando il dazio sulle importazioni di grano estero. Sempre a questo fine ebbe inizio nel 1928 il risanamento di zone paludose, come le paludi dell’Agro Pontino. Vennero costruite nelle zone bonificate nuove città: Littoria (oggi Latina), Fertilia, Mussolinia e Carbonia. La politica estera del regime era sempre più aggressiva nei confronti delle altre nazioni europee, fino alla costituzione dell’Asse Roma – Berlino – Tokyo, volta al riarmo e alla ricerca di nuovi sbocchi di carattere coloniale.

Il Duce sentiva la necessità di un’espansione nel Mediterraneo, e pensava all’area danubiana, che però era anche una mira tedesca. L’Italia decise quindi di dedicarsi alla conquista dell’Etiopia. La guerra cominciò il 2 ottobre 1935 e le operazioni militari erano condotte da Pietro Badoglio sul fronte settentrionale e da Rodolfo Graziani su quello meridionale. Nonostante la sua determinazione, l’esercito etiopico fu sconfitto e il 9 maggio 1936 venne proclamato l’Impero. Mussolini partecipò inoltre alla guerra civile spagnola, sia per affermare il Fascismo nell’area mediterranea, sia per migliorare i rapporti con la Germania. Nel 1936 il ministro degli esteri Galeazzo Ciano firmò l’Asse Roma – Berlino: la Germania riconosceva l’Impero d’Etiopia, l’Italia usciva dalla Società delle Nazioni e si impegnava a collaborare con la Germania nella lotta contro il bolscevismo e a difendere le forze franchiste in Spagna. Il 6 novembre 1937 il Giappone si unì alle potenze dell’Asse.

Il 7 aprile 1939 l’Italia invase l’Albania e il 22 maggio 1939, a Berlino, i ministri degli esteri italiano e tedesco, Ciano e Ribbentrop, ratificarono il Patto d’Acciaio.
L’Italia era decisamente impreparata ad entrare in guerra, sia sul piano militare che su quello economico. La prospettiva però di una guerra lampo sembrava realizzabile, e il 10 giugno 1940 Mussolini decise di entrare in guerra, desideroso di sedersi poi al tavolo dei vincitori. Ordinò quindi l’attacco dell’Italia alla Francia, che fu un successo. Attaccò poi gli Inglesi a Malta, nel Sudan e nella Somalia inglese nell’agosto del ‘40, e la Grecia il 28 ottobre 1940, non ottenendo però nulla. Infine l’11 dicembre del 1941 dichiarò guerra agli Stati Uniti d’America. Si rivelarono così i limiti della preparazione dell’esercito Italiano, che venne quindi subordinato all’iniziativa tedesca. Intanto il regime fascista cominciava a riscuotere minor consenso all’interno del Paese, e nel marzo del ‘43 ci furono clamorosi sciopero a Torino e nei principali centri industriali del Nord. Anche la monarchia voleva dissociarsi dal Fascismo, prevedendo la sua disfatta, e decise di esautorare Mussolini, che fu messo in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943. Il Re, Vittorio Emanuele III, fece arrestare Mussolini sul Gran Sasso e diede l’incarico di formare il nuovo governo al maresciallo Badoglio, che firmò con gli Alleati l’armistizio di Cassibile il 3 settembre 1943. La Germania reagì occupando l’Italia Centrale e Settentrionale.

Mussolini, liberato dai Tedeschi il 12 settembre, costituì a Salò la Repubblica Sociale Italiana, che sopravvisse solo finché ebbe l’appoggio tedesco perché pochi giovani si arruolarono nell’esercito della Repubblica, e perché mancava il consenso popolare e l’appoggio degli industriali. Nel marzo del 1944 Badoglio si dimise e l’incarico di formare un governo venne affidato a Ivanoe Bonomi, antifascista liberale, con i rappresentanti del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale. Firenze venne liberata nell’agosto del ‘44, ma le truppe alleate furono fermate sull’Appennino Emiliano, alla Linea Gotica, e solo nell’aprile del 1945 gli angloamericani sfondarono il fronte difeso dai Tedeschi e raggiunsero il Nord. Milano, Genova e altre città insorsero il 25 aprile. Mussolini decise allora di fuggire, ma venne riconosciuto mentre cercava di raggiungere la Svizzera travestito da sergente tedesco. Il 28 aprile venne fucilato con la compagna Claretta Petacci ed alcuni tra i più importanti gerarchi fascisti da una formazione partigiana nei pressi del Lago di Como.

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