Il Senato romano era, fin dalla prima guerra punica l'unica magistratura che poteva governare l'Italia in un periodo in cui i consoli si trovavano spesso per ragioni di guerra fuori di Roma: esso era costituito difficilmente da homines novi, prevalentemente anzi da patrizi e plebei che avevano rivestito le magistrature dello Stato, sperimentati nelle questioni politiche d'ordine interno e di politica estera, appartenenti a un numero piuttosto ristretto di famiglie.
Dall'esame dei cento collegi consolari che precedono il tribunato dei Gracchi, si ricava che su 92 consoli patrizi ben 85 appartennero a sole dieci famiglie, ciascuna delle quali diede un minimo di quattro consoli: la gens Cornelia per es. ne diede da sola 23. Lo stesso avvenne per i 108 consoli plebei, 74 dei quali appartennero a undici sole famiglie. In mezzo secolo, dal 200 al 146 a, C., si ha solo una dozzina di consoli appartenenti a famiglie meno illustri, non giunte prima al consolato; in quattro casi soltanto si tratta di homines novi e cioè M. Porcio Catone nel 195, M. Acilio Glabrione nel 191, C. Ottavio nel 165, L. Mummio nel 146.
In questo modo un'oligarchia di nobili governava la repubblica, in contrasto sia con la classe dei "cavalieri", provenienti in genere da famiglie di bassa condizione, arricchitesi coi commerci, con le forniture di guerra e con gli appalti dei lavori pubblici e delle imposte, sia con le classi inferiori della cittadinanza, cioè plebei poveri, clienti, liberti, peregrini ossia stranieri domiciliati nel territorio della Repubblica, sia con gli Italici. Si venne così delineando un complesso di gravi problemi, fra i quali i più urgenti erano quello agrario, provocato dalla miseria dei plebei nullatenenti e dei vecchi contadini romani e italici, quello dei Soci italici, che esigevano la concessione della cittadinanza, e quello dei cavalieri e dei libertini, i nuovi ricchi non pervenuti ai gradi della nobiltà, che aspiravano a una condizione politica adeguata.
Il problema più grave era quello dei Latini e degli altri alleati italici, sia per la mancata concessione della cittadinanza, sia per la limitazione ai soli Romani dei comandi militari, del governatorato delle province, delle decime e di gran parte del bottino di guerra.
Inoltre vi era stretta connessione fra il problema della cittadinanza e quello agrario, perché i Soci non cittadini romani erano esclusi dalle distribuzioni terriere, La sperequazione fra le varie classi richiedeva una soluzione, ma alle classi dirigenti mancava la volontà e la capacità di ricostituire la piccola proprietà rurale arrestando lo sviluppo del latifondo.
La questione agraria fu così posta all'ordine del giorno da Tiberio Sempronio Gracco, un aristocratico eletto tribuno della plebe, che nel 133 a.C. propose una legge per confiscare tutti i possedimenti abusivi di agro pubblico e limitare l'estensione di quelli legittimi a 500 iugeri, aumentabili fino a 1000 per chi avesse uno o più figli. I terreni confiscati avrebbero dovuto essere distribuiti ai cittadini poveri, che non avrebbero potuto venderli ad altri.
La legge fu approvata con un atto di illegalità, avendo Tiberio Gracco fatto destituire il collega M. Ottavio che si era opposto alla sua promulgazione. Ne nacquero tumulti e violenze in cui il tribuno venne ucciso (132).
Frattanto era nata una grave agitazione fra gli alleati Italici, che non erano stati considerati nella legge, e il partito dei Gracchi chiese che fosse loro concessa la cittadinanza. Il fratello di Tiberio, Gaio Gracco, tribuno della plebe nel 123, rieletto nel 122, presentò un complesso di leggi riprendendo la politica del fratello e collegandola con la politica favorevole agli Italici. Di mente aperta e grande oratore, seppe elevarsi, da vero rivoluzionario, dal problema dell'agro pubblico a una totale riforma dello Stato romano in senso democratico, con la legge frumentaria, la riconferma della legge agraria, la creazione di colonie, l'assegnazione ai cavalieri di un numero preponderante nelle giurie che dovevano giudicare le cause di corruzione (de repetundis) contro i governatori delle province, la concessione della cittadinanza romana ai Latini e del diritto latino agli altri Italici. La reazione suscitata dalle sue proposte portò alla costituzione di bande armate e alla promulgazione da parte del Senato dello stato d'assedio: in uno scontro i Gracchi furono battuti e Caio si fece uccidere da uno schiavo, l'oligarchia senatoria, combattendo le leggi agrarie, aveva così preparato la trasformazione della Repubblica in Impero e la propria rovina.
Negli anni delle agitazioni dei Gracchi, Roma conquistò la Gallia meridionale riducendo il territorio a Sud-Est delle Cevenne a " provincia " (nome rimasto alla Provenza), assicurando così il collegamento diretto fra Italia e Spagna.
Poco dopo, in seguito alle vicende del regno di Massinissa, i Romani furono impegnati in Africa nella guerra contro Giugurta (111-109), nella quale si affermò il console Gaio Mario, che aveva come legato Lucio Cornelio Silla, il suo futuro avversario.
Mario sì accquistò con questa guerra la fama di grande generale, il solo che potesse fronteggiare le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni: rieletto console nel 104 e successivamente e senza interruzione fino al 100, sconfisse ad Aquae Sextiae in Gallia i Teutoni e gli Ambroni, e successivamente i Cimbri ai Campi Raudii presso Vercelli (102). Riformò anche radicalmente la struttura della legione romana e introdusse un'innovazione di capitale importanza, destinata a portare nella storia di Roma le più imprevedute conseguenze: l'arruolamento nell'esercito dei capite censi, ossia dei nullatenenti; si creavano infatti in questo modo legami particolari fra un generale e i suoi soldati, che finivano col considerarsi al servizio del loro duce più che a quello della Repubblica.
Mario potè così ottenere, per cinque volte consecutive, l'elezione al consolato da una massa elettorale che militava o aveva militato in gran parte nei suoi eserciti, realizzando una specie di dittatura fuori dalla tradizione e senza rispetto per le leggi. Ciò non era cosa nuova, ma ora, per la prima volta, l'esercito si rivelava come un fattore perturbatore della costituzione romana, come una forza a se stante, fedele a un capo e staccata dal resto dello Stato. L'ascesa di Mario, un homo novus, era una prova dell'indebolimento dell'oligarchia e della potenza raggiunta dai cavalieri, mentre rappresentava nello stesso tempo l'intervento nella vita politica romana dei proletari arruolati negli eserciti.
La lotta politica fra l'oligarchia e la nuova classe dei cavalieri si complicò con il problema dell'elevazione economico-politica del proletariato e dell'estensione della cittadinanza agli Italici. A costoro il governo romano chiedeva solo sacrifici finanziari e militari, non collaborazione ma obbedienza alle decisioni di Roma. Convinti che non avrebbero mai ottenuto l'equo riconoscimento dei loro diritti, nell'anno 90 a. C. gli Italici insorsero contro Roma: i Marsi e i Sanniti dell'Italia Centrale e Meridionale furono alla testa della ribellione (guerra sociale); Corfinium (non lontana da Aquila), cui fu cambiato il nome in quello di Italia, fu la sede della lega formata dai ribelli, che ebbe a capo due consoli e dodici pretori, coadiuvati da un Senato di 500 membri. I Romani, colti di sorpresa, toccarono varie sconfitte.
Il governo di Roma, con la legge Iulia, concesse il diritto di cittadinanza agli alleati rimasti fedeli, che già avevano deposto le armi; con una seconda legge Plauzia Papiria estese la concessione a coloro che l'avessero richiesta entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge; infine la legge del console Cneo Pompeo Strabone estese ai Transpadani la cittadinanza latina e quella di Cesare del 49 a. C. conferì loro la piena cittadinanza. Con queste concessioni le file dei ribelli si assottiglia rapidamente.
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