Piero Martinetti - Studentville

Piero Martinetti

Pensiero e vita.

Vita e opere Pier Federico Giuseppe Celestino Mario Martinetti nasce a Pont Canavese (allora in provincia di Aosta, oggi di Torino) mercoledì 21 agosto 1872 dall’avvocato Francesco e da Rosalia Bertogliatti, di famiglia notarile, fervente anticlericale. àˆ il primo di cinque figli: due morranno in tenera età , Lorenzo (1882-1946) diverrà  avvocato a Torino, e Teresa (1875-1954), insegnante di tedesco, rimarrà  accanto al fratello fino alla morte. Dopo aver frequentato il liceo di Ivrea, si iscrive alla Regia Università  degli Studi di Torino, dove si laurea in filosofia nel 1893 con una tesi indologica su “Il sistema Sankhya” (99/110: in commissione v’erano Arturo Graf, Pasquale D’Ercole e Giuseppe Allievo; ma 101/110 secondo [BS] 14), che verrà  pubblicata nel 1897 e che riceverà  il Premio Gautieri. Dopo un soggiorno all’Università  di Lipsia, inizia a lavorare come insegnante di filosofia nei licei di Avellino, Vigevano e Ivrea. Nel 1902 riesce a dare alle stampe un suo lavoro monumentale, la prima parte di una “Introduzione alla metafisica” (Premio Gautieri ex-aequo con gli “Elementi di filosofia per le scuole secondarie”: II. Psicologia di Filippo Masci), lavoro che gli permetterà  di concorrere e di vincere le cattedre di Filosofia teoretica e morale all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, dove lo troviamo ininterrottamente dal 1906 al 1931 (dal 1923 verrà  denominata Università  Statale). Nel 1926 presiede, sempre a Milano e non senza riluttanza, visto il suo carattere schivo e riservato, il VI Congresso Nazionale di Filosofia, o almeno tenta di farlo, dato che, per alcune polemiche sorte con agitatori politici fascisti (Armando Carlini) e cattolici (padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università  Cattolica), ò costretto a ritirarsi e a sciogliere il congresso dopo soli due giorni (al congresso avrebbe dovuto partecipare anche padre Ernesto Buonaiuti, al centro delle polemiche moderniste e macchiato dalla scomunica maggiore vietando il 25 gennaio di quell’anno). Martinetti rappresenta, nei tormentati anni ’20, una singolare figura di intellettuale “laico”, distante tanto dalla filosofia accademica ufficiale, l’attualismo di Giovanni Gentile, quanto dalla caleidoscopica mappa politico-religiosa imperante, ovvero la Chiesa cattolica da una parte, i neonati fascisti e le opposizioni socialiste e comuniste dall’altra. Egli non si preoccupa di apparire favorevole all’uno o all’altro schieramento in campo. Si occupa solo di filosofia “teoretica”, in particolare “religiosa”, ma con un dètachement cosmopolitico e razionalistico che non può trovare compromessi con qualsivoglia “fede”, materialistica come irrigidita dalla tradizione dogmatica ecclesiastica. E fu così che, quando il ministro dell’educazione nazionale Balbino Giuliano nel dicembre 1931 impose ai professori universitari il giuramento al regime fascista, Martinetti fu tra i dodici che si rifiutarono recisamente fin dal primo momento (su 1225: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Bartolo Nigrisoli, Edoardo e Francesco Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra; ricordiamo che Benedetto Croce non insegnava e che si ritirò da ministro della pubblica istruzione nel 1921 proprio per non aderire al fascismo, posizione rinsaldatasi ancora maggiormente dopo il delitto Matteotti del 1924; a Pisa nel 1933 Gentile impone la tessera ad Aldo Capitini, segretario della Scuola Normale: egli rifiuta e viene cacciato), ed egli “per un motivo religioso, per non subordinare le cose di Dio alle cose della terra: dove sta per andare il rispetto della coscienza? Ciò ò triste ed annunzia oscuramente un avvenire triste per tutti, anche per i persecutori” (da una lettera ad Adelchi Baratono). “Ho sempre ritenuto assurdo giurare fedeltà  alla Chiesa; a maggior ragione non giurerò fedeltà  a un regime politico”. Così può essere espressa la motivazione profonda che spinse Piero Martinetti, nel 1931, a non piegarsi al nuovo regolamento universitario voluto dal fascismo. Pare che abbia anche accennato al fatto di non essersi sposato per lo stesso motivo: che il giuramento implicito nel matrimonio, di fedeltà  e di amore eterno, ò paradossale e impronunciabile quanto gli altri due. Ma questo forse fa solo parte di quel poco di leggenda che si ò tramandata su di lui. “Io non ho voluto giurare […] – scrive in una lettera a un amico – per un motivo religioso, per non subordinare le cose di Dio alle cose della terra”. Al contrario di altri tipi di giuramento, attinenti alla sfera giuridica, “inammissibile”, immorale e indice di una religiosità  immatura, ò infatti giudicato quel tipo di giuramento “per cui l’uomo si impegna a regolare la propria condotta secondo la volontà  altrui, cioò a non tenere conto dei comandamenti della propria coscienza”. “Ieri sono stato chiamato dal Rettore di questa Università  che mi ha comunicato le Sue cortesi parole, e vi ha aggiunto, con squisita gentilezza, le considerazioni più persuasive. Sono addolorato di non poter rispondere con un atto di obbedienza. Per prestare il giuramento richiesto dovrei tenere in nessun conto o la lealtà  del giuramento o le mie convinzioni morali più profonde: due cose per me egualmente sacre. Ho prestato il giuramento richiesto quattro anni or sono, perchè esso vincolava solo la mia condotta di funzionario: non posso prestare quello che oggi mi si chiede, perchè esso vincolerebbe e lederebbe la mia coscienza. Ho sempre diretta la mia attività  filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità  di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così, ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita, ò la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, ò un sacrilegio. Ora col giuramento che mi ò richiesto, io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’Eccellenza Vostra riconoscerà  che questo non ò possibile. Con questo io non intendo affatto declinare qualunque eventuale conseguenza della mia decisione: soltanto sono lieto che l’Eccellenza Vostra mi abbia dato la possibilità  di mettere in chiaro che essa procede non da una disposizione ribelle e proterva, ma dalla impossibilità  morale di andare contro ai princìpi che hanno retto tutta la mia vita”. (lettera al ministro Giuliano, in “Il Ponte”, VII, Nuova Italia, Firenze 1951: 342-3). Dal 1932 fino alla morte Martinetti si dedica esclusivamente allo studio personale della filosofia, ritirandosi nella casa di Spineto di Castellamonte (sul cancello v’era scritto: “Piero Martinetti agricoltore”), collaborando con vari articoli alla “Rivista di Filosofia”, traducendo i suoi classici preferiti (Kant, Schopenhauer, lo storico della filosofia Harald Hà¶ffding, il premio Nobel Rudolph Eucken), scrivendo i suoi capolavori (la cosiddetta “trilogia” iniziata con l'”Introduzione alla metafisica” e continuata nel 1928 con “La libertà ” termina nel 1934 con “Gesù Cristo e il cristianesimo”), ormai tutti afferenti a tematiche filosofico-religiose (“Il Vangelo” ò del 1936, “Ragione e fede” viene completata nel 1942; [GC], [V] e [RF] sono all’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica, decreto 3 dicembre 1937, un altro punto di contatto con l’amico Aldo Capitini: anche “Religione aperta” finì all’Indice nel 1955), dedicandosi inoltre ad antologie e compendi su Platone, Spinoza, Kant, Hegel e Schopenhauer. Conosce il carcere dal 15 al 20 maggio 1935 per la sua sospetta corrispondenza con intellettuali invisi al regime, in particolare con alcuni esponenti del movimento clandestino “Giustizia e Libertà ” a cui naturalmente non fece mai parte. Solo, ma sorretto dall’amicizia di alcuni ammiratori, colleghi, discepoli ed ex-studenti (oltre che dall’affetto dei suoi numerosi gatti), morì nel vicino ospedale di Cuorgnò martedì 23 marzo 1943 all’età  di 70 anni, verosimilmente di polmonite. Cronologia 1872: 21 agosto, Piero Martinetti nasce a Pont Canavese. 1893: si laurea in filosofia a Torino su “Il sistema Sankhya”. [SS] Il sistema Sankhya (Torino: Lattes, 1897). [IM] Introduzione alla Metafisica (Torino: Bona, 1902; Torino: Clausen, 1904; Genova: Marietti, 1987). 1906: vince le cattedre di filosofia teoretica e morale all’Università  di Milano. [CU] Corso universitario 1918/’19 (manoscritto dell’Archivio Martinetti: 5, II, 1, per gentile concessione dell’Accademia delle Scienze di Torino). [PA] Pietà  verso gli animali (1920; Genova: Melangolo, 1999). [BS] Breviario spirituale (Milano: Isis, 1923; Torino: Bresci, 1972). [AK] Antologia kantiana (Torino: Paravia, 1925). 1926: presiede a Milano il turbolento VI Congresso Nazionale di Filosofia. [D] Discorso di Piero Martinetti agli Universitari Canavesani (19-IX-1926; Castellamonte: Lions Club Alto Canavese, 1984). [SD] Saggi e discorsi (Torino: Paravia, 1926). [L] La libertà  (Milano: Libreria Editrice Lombarda, 1928; Torino: Boringhieri, 1965. – Con indici). 1931: rifiuta il giuramento al regime fascista e si ritira a Spineto di Castellamonte. [GC] Gesù Cristo e il cristianesimo (Milano: Rivista di Filosofia, 1934). 1935: dal 15 al 20 maggio incarcerato a Torino per la sospetta appartenenza a Giustizia e Libertà . [V] Il Vangelo (Modena: Guanda, 1936; Genova: Melangolo, 1998. – Con indice biblico). [A] L’amore (1938; Genova: Melangolo 1998. – Con indici). [AP] Antologia platonica (Torino: Paravia, 1939). [SP] Spinoza (1939; Napoli: Bibliopolis, 1987. – Con indici). [SCH] Schopenhauer (Milano: Garzanti, 1941; Bologna: Patron, 1973). [RF] Ragione e fede (Torino: Einaudi, 1942). [H] Hegel (Milano: Bocca, 1943; Milano: Celuc, 1985). [K] Kant (Milano: Bocca, 1943). 1943: 23 marzo, muore a Cuorgnò. [Ep] Lettere inedite di Piero Martinetti (“Giornale di metafisica”, 5-6/1972, Torino: SEI, 1972). [SFR] Saggi filosofici e religiosi (Torino: Bottega di Erasmo, 1972). [SMFR] Scritti di metafisica e di filosofia della religione (Milano: Comunità , 1976. – Con indici). [SI] La sapienza indiana (Milano: Celuc, 1981). Il pensiero Strenuo sostenitore di una religiosità  laicamente intesa e instancabile propugnatore della forza della ragione quale prerogativa più genuinamente umana, Pietro Martinetti si formò a Lipsia nel clima culturale che aleggiava nella Germania ottocentesca: in particolare, egli si sostanziò di Kant e, soprattutto, di Schopenhauer (al quale lo legava anche l’ammirazione per la riflessione indiana), pensatori con i quali ebbe modo di condividere la convinzione che la realtà  quale ci appare non corrisponda alla realtà  nel suo essere-in-sè. Proprio sulla divisione kantiana tra “noumeno” e “fenomeno” poggia il primo grande scritto di Martinetti, risalente al 1904 e significativamente intitolato “Introduzione alla metafisica”: il nucleo portante dell’opera può essere agevolmente rintracciato nelle contraddizioni che dilaniano la realtà  fenomenica, ossia la realtà  quale si configura alla nostra percezione, frantumata in una molteplicità  indefinita. Le molteplici contraddizioni che caratterizzano tale realtà  rimandano ad una realtà  assoluta ed incondizionata (o – per usare una categoria kantiana – “noumenica”), la cui esistenza ò peraltro attestata a viva voce dall’incondizionatezza dell’imperativo categorico e del dovere morale. La realtà  che appare plurale ò pertanto, se letta in profondità , unitaria, così come l’aveva concepita Spinoza, cui Martinetti espressamente si richiama in antitesi con l’immanentismo proposto invece dall’avversato Hegel. L’ufficio della filosofia, in quest’ottica, sarà  allora quello di risalire – mediante sintesi graduali – dalla realtà  molteplice all’unità  assoluta, cosicchò la filosofia viene a prospettarsi – schopenhauerianamente – come un cammino di ascesa personale verso una sempre più perfetta conoscenza (razionale) di Dio. Martinetti resta saldamente legato ai princìpi kantiani della religione entro i soli limiti della ragione: travalicare tali confini equivale a commettere un errore imperdonabile; le religioni positive (e Martinetti ha in mente soprattutto il cattolicesimo), che raggiungono Dio non con la ragione ma con rappresentazioni simboliche imperfette e inadeguate sono nettamente inferiori rispetto alla filosofia, capace – attraverso procedimenti argomentativi – di conoscere ogni cosa. Con queste riflessioni sullo sfondo, Martinetti scrive nel 1934 una monografia su “Gesù e il cristianesimo”, che fu però immediatamente sequestrata e tolta dalla circolazione. Il cammino razionale verso l’unità  divina produce una forma di saggezza che porta a considerare le cose della vita – soprattutto di quella morale – “dal punto di vista dell’eternità “, in maniera non del tutto differente dal “sub specie aeternitatis” di Spinoza. Naturalmente, questa considerazione implica la consapevolezza che le azioni umane non pervengono mai a realizzare pienamente questo fine, ovvero che il kantiano “regno dei fini” non appartiene a questo mondo, ma ò un ideale posto nell’infinito (quasi un’ “idea” nel senso kantiano), al di là  di ogni ingannevole molteplicità  empirica e richiedente una dedizione totale. Stando a questa prospettiva martinettiana, il risultato positivo della filosofia consisterà  non tanto nell’edificare costruzioni teoriche, ma, piuttosto, “nell’educazione religiosa dell’umanità “: già  nel suo scritto pubblicato anonimo del 1922 – “Breviario spirituale” – Martinetti fa leva sul carattere sacro degli altri e sul fatto che giustizia e carità , in qualche misura, già  rivelano questo regno dei fini. E’ da qui che nasce l’intransigenza morale del dovere per il dovere e dell’amore per gli altri e, in contemporanea, la lotta contro il fanatismo (non solo religioso) in nome della ragione, nemica di ogni intolleranza e intransigenza. Additando nell’amore per la libertà  l’amore più elevato, nel volume per l’appunto intitolato “La libertà ” (1928), Martinetti venne paradossalmente a trovarsi in maniera impressionante vicino alle posizioni che andava a quel tempo elaborando Benedetto Croce con la sua “religione della libertà “, anche se il filosofo canavese non arrivò mai a condividere la filosofia ottimistica che informava il pensiero crociano. Contrapposti a tutti coloro che – in un’ottica spinoziana – sono padroneggiati dalle passioni, sono quelli che, invece, sanno signoreggiarle razionalmente, in nome di una ragione che legge la realtà  nella sua unitarietà  noumenica: personaggi di questo tipo sono, oltre ai filosofi e ai sapienti, gli uomini semplici e umili che figurano nei Vangeli, di cui Martinetti ò attento conoscitore. Piero Martinetti, fra il 1924 e il 1927, tenne all’Università  di Milano una serie di lezioni su Kant; dal volume che raccoglie quelle lezioni sono tratte le considerazioni che seguono. Martinetti avanza una interpretazione “idealistica” del concetto di noumeno: esso non può avere una funzione esclusivamente “negativa” e di “limite”; in qualche modo il noumeno esprime un contenuto positivo, una forma di realtà  che trascende – ò vero – la nostra facoltà  di conoscere, ma che apre anche alla ragione una possibilità  di agire, di avere un “oggetto” suo che ò seppure ignoto ò evoca l’esistenza di un “mondo perduto” verso cui dirigerci. “Non si può dire che il concetto del noumeno sia puramente negativo: una pura negazione sarebbe l’ignorare questo concetto e il porre, esplicitamente o non, il mondo fenomenico come solo esistente. Non ò dunque una pura negazione l’atto per cui apprendiamo; non ò un atto che elimini da sè ogni traccia d’una qualche affermazione positiva: ò un atto che negando il carattere assoluto della realtà  sensibile pone qualche cosa d’altro, il noumeno. La forma negativa dell’espressione cela un contenuto positivo. [… ] La morale di Kant ò innanzitutto una metafisica della morale, cioò un capitolo di metafisica; e, solo in via secondaria, ò una morale. Laddove, per esempio, Spinoza parte dalla considerazione del nostro conoscere in genere e dalle sue esigenze per elevarsi al concetto (simbolico) della sostanza e da questo punto di vista ricostruire poi dinanzi ai nostri occhi il mondo, Kant respinge (se a torto o a ragione non dobbiamo qui decidere) ogni possibilità  di questo genere: il conoscere in genere non porta ad alcun risultato oggettivo, in riguardo alla realtà  assoluta, e perciò non potrebbe da sè solo condurci al di là  di una sterile negazione [della possibilità  della ragione di conoscere alcunchè e quindi di legiferare in campo morale]. Noi ci troveremmo, secondo Kant, se fossimo abbandonati alla sola nostra conoscenza generica del mondo, come anime immerse in una tenebra impenetrabile e dotate della reminiscenza di un perduto mondo della luce: ma cosà­ vaga che non condurrebbe ad altro risultato se non alla coscienza che esse non appartengono e non sono nate per questa realtà  tenebrosa. Secondo la metafisica invece, anche questa sola reminiscenza basta all’anima per ricostruirsi almeno in modo approssimativo una pallida immagine del mondo perduto che le serve per dirigersi e fare ad esso ritorno. Ma, secondo Kant, noi non siamo limitati alla conoscenza della realtà  esteriore, che ò per Kant la conoscenza in genere, oggetto delle scienze e della metafisica (nel senso che egli dà  a queste parole); noi abbiamo, in mezzo a queste tenebre, un punto luminoso: un punto solo, ma che ci basta per dirigerci e per ricostruirci anche il mondo in cui viviamo, cosà­ almeno come ò necessario per dirigerci. Questo punto luminoso ò la conoscenza del nostro essere come operante moralmente. Qui, e qui soltanto, discende un raggio della realtà  divina: questo ò il punto che dobbiamo chiarire a noi medesimi come il solo e vero sapere che abbiamo della realtà  assoluta: non tanto per conoscere alla luce sua il mondo (perchè ciò non sarebbe una estensione del conoscere), quanto per poterci guidare nella vita in modo da elevarci verso questa realtà  divina nella misura in cui a noi ò possibile qui, nella nostra condizione presente. La morale di Kant ò quindi la sua vera metafisica. La metafisica di Kant, potremmo dire, ò divisa in due parti. La prima ci mostra che tutta la realtà  data alla nostra conoscenza non ò la vera realtà : ma non va oltre al punto limite di questa negazione. La seconda ci mostra che la vera realtà  ci traluce in un punto solo, nella nostra attività  morale: ed anche qui ci ò data non come conoscenza, ma come direzione; vale a dire (per servirci di una immagine) come un vero punto, che non ha estensione alcuna la quale si presti ad un conoscere oggettivo, ma che ci serve almeno per riconoscere la realtà  positiva di ciò che ò al di là  di quella negazione e per servircene come orientamento”. (P. Martinetti, Kant, parte I, cap. IV; parte II, Introduzione) La concezione religiosa Pensatore di netta ispirazione neokantiana, Martinetti (in sintonia con il Kant della religione ricondotta entro i confini della ragione) riduce il Vangelo a legge morale e il Salvatore a una figura profetica. Già  il volume del 1928, “La libertà “, limita fortemente il pur affascinante tema. Ma ò con “Gesù Cristo e il Cristianesimo” del 1934 e nel 1936 con l’antologia introdotta e commentata “Il Vangelo”, che il progetto del compiersi religioso della filosofia mostra la limitatezza dei suoi esiti nell’applicarlo all’interpretazione della “più grande religione dell’Occidente”. Non stupisce nè scandalizza quindi la condanna, all’epoca, da parte della congregazione del Santo Uffizio. Pur mosso dal nobile intento di salvare la eccelsa moralità  e profonda spiritualità  del messaggio di Gesù Cristo, Martinetti riduce a “elemento leggendario”, “particolari leggendari”, nascita, miracoli e resurrezione di Gesù. Espungendo dal Nuovo Testamento la fede nella resurrezione di Gesù, non solo elimina ogni fondamento alla comunità  ecclesiale, ai dogmi teologici, alla sacramentalità  liturgica, ma innanzitutto deve limitare la propria antologia ideale ad alcuni passi dei Vangeli sinottici, a quelli cioò conformi, anzi non contraddittori con i presupposti razionali della fede razionale, coscienzialista, morale proposta. L’antologia – dichiara Martinetti – “lasciando da parte l’elemento leggendario e dogmatico, cerca di disporre il materiale evangelico nell’ordine logicamente più appropriato. Tutto quello che i vangeli contengono di essenziale per la nostra coscienza religiosa ò stato qui conservato”. Il risultato di questo ordinamento logico ò l’espunzione, in quanto elaborazione teologica successiva agli “ipsissima verba” di Gesù di Nazareth o ancora propria all’ebraismo da cui Gesù stesso non ò immune, del Vangelo di Giovanni, degli Atti degli Apostoli, delle Lettere di Paolo e non, dell’Apocalisse. Gesù di Nazareth, e non di Betlemme, ò un profeta ebraico, l’ultimo e il più grande dei profeti. Non quindi Figlio di Dio, nemmeno resuscitato dalla morte, nè apparso realmente ai suoi, Gesù in quanto Messia annuncia un regno messianico a cui succederebbe escatologicamente il regno dei cieli, quello di Dio. Tuttavia non chiarendo tale avvento escatologico, di fatto Gesù ò storicamente soltanto maestro di dottrina morale: rinunciare al mondo per unirsi spiritualmente e interiormente a Dio, il bene supremo, e amare il prossimo. Riducendo la religione a intenzione morale e la fede a ragione pratica, Martinetti affronta il Nuovo Testamento e gli stessi Vangeli sinottici con categorie forse logiche, ma atte a comprendere come atti reali solo i dati della coscienza, il dato di fatto fondamentale della ragione umana inteso kantianamente come legge morale. Quando invece la teologia non solo di san Paolo e di san Giovanni o degli antri evangelisti, ma la teo-logia che Gesù Cristo stesso ò, incarna, rivela e vive, nella parola non esaurisce l’evento, nel verbo non annulla la soggettività  del fatto storico e sovrannaturale, nella universalizzazione filosofica e razionale ascolta e comunica amorevolmente la trascendenza continua e la libertà  che ò Dio. In Martinetti accade così che una pura, autentica religiosità  coincida con la più perfetta laicità . Morale e religione, nel suo pensiero, sono lo stesso: la religione non ò autentica, ma volgare e ipocrita, se non ò fondata su una morale che mette al primo posto l’autonomia del giudizio e la libertà  di coscienza, la quale non può essere – per definizione – messa al servizio di nessuno, nè di un partito, nè di una patria, nè di una chiesa. Soprattutto di una chiesa. E lo si vede bene dalla sua guida ai Vangeli, che uscì nel 1936, che incorse – come già  il volume su Gesù Cristo e il Cristianesimo, del ’34. Martinetti legge il Vangelo cercando di separare gli aspetti leggendari, aggiunti dai discepoli, dalla verità  storica e da ciò che ò ragionevole attribuire allo stesso Gesù. Nel suo tentativo piano e pacato di assegnare alle diverse fonti – in primis ai Vangeli ufficiali – il giusto grado di affidabilità , una delle cose che agli occhi di Martinetti appaiono più certe ò appunto che Gesù non aveva nessuna intenzione di fondare una Chiesa: questa gli ò stata attribuita più tardi, insieme a una serie di elementi dogmatici che nei Vangeli si mescolano con la narrazione, rendendoli spesso oscuri e talvolta inintelligibili. Nel Vangelo di Giovanni l’elemento dottrinale e teologico prevale decisamente, e viene preso in considerazione solo nella parte relativa alla passione e morte. Più vicino ai fatti ò quello di Marco, scritto nel 70 d. C. circa, a quarant’anni dalla morte di Cristo, quando già  erano circolate molte leggende, delle quali sono ancor più ricchi quello di Matteo e Luca, scritti intorno all’anno 100. Per esempio, essi sentono l’esigenza di far nascere Gesù a Betlemme (e non a Nazareth, la sua città ) perchè il Messia, secondo le profezie, doveva venire da lì. E così ò nata tutta la storia di un censimento mai verificatosi, di Erode, dei re magi, e via dicendo. Anche la natura divina di Gesù e la sua vita soprannaturale sono per Martinetti un complemento dogmatico, perchè il “Messia era agli occhi di Gesù solo un inviato di Dio, non un Dio”. Nè le guarigioni prodigiose di Gesù possono essere considerate miracoli. E i veri e propri miracoli (la moltiplicazione dei pani, il cammino sulle acque, il disseccamento del fico, ecc. ) sono “talmente miserandi” da essere indegni di un “uomo divino”; inoltre sono spesso ricalcati su parabole, il che fa pensare che siano pure invenzioni. Altrettanto infondate dal punto di vista storico sono le vicende successive alla morte di Gesù e relative alla resurrezione. Assai forzata ò l’idea che egli si sarebbe consapevolmente autoimmolato, che non abbia opposto resistenza al suo arresto, che Pilato sia stato indulgente con lui, che il popolo sia stato convocato e che abbia scelto Barabba, ecc. ecc. Tutte cose palesemente false, secondo Martinetti, che oscurano il vero messaggio di Gesù, che non ha bisogno di mediazioni perchè ò rivolto direttamente al cuore e alla mente degli uomini, ed ò fondato sulla pietà , la carità , l’eguaglianza tra gli esseri umani, la coerenza tra parole e azioni e sull’affermazione della bontà  di Dio: elementi di un cristianesimo interiore che ogni pensiero libero dovrebbe portare con sè. L’amore “L’amore” ò un testo di Martinetti che, ultimato nel ’38, non fu pubblicato: presenta un volto nuovo e per molti lati inaspettato del filosofo canavesano, noto per i suoi studi di afflato etico-religioso, sia pure di una religiosità  alquanto ostile ad ogni comunione ecclesiale. La sua prospettiva trae alimento da autori quali Platone, Plotino, Spinoza, Kant, Schopenhauer. Si avverte invece la mancanza di riferimenti a Vladimir Solov’ev, che su taluni punti, soprattutto sull’amore quale fattore di unità , esprime una posizione affine a quella martinettiana Il volto inaspettato di “L’amore” risiede nella approfondita, analitica considerazione dell’amore erotico, fortemente radicato nella sessualità  ma non riducibile soltanto a questa. In una prima parte, l’autore riflette sul fatto erotico, considerandolo in rapporto alla donna, all’amore fisico, a quello sentimentale e infine spirituale. Nella seconda sono considerate le “istituzioni erotiche” quali il matrimonio e la prostituzione. Se si decide di lasciar da parte giudizi alquanto pesanti sulla donna – tra cui quello per cui sarebbe strutturalmente inidonea a svolgere taluni compiti – e sul femminismo, nell’autore ò presente una visione vivida e sostenuta da un’ampia documentazione della straordinaria complessità  del fatto sessuale erotico-unitivo nella vita umana, in rapporto al quale viene fatto cenno a numerosi temi di permanente attualità : unioni matrimoniali stabili, convivenza, concubinato, “unioni erotiche o di prova”, divorzio, piaga della prostituzione e metodi per limitarla Pur nella varietà  dei temi, una prospettiva sostanzialmente unitaria sostiene l’ordito dell’opera e si intreccia nell’idea che l’amore sessuale sia capace, se non si blocca al solo livello dell’istinto, di creare unità  tra gli amanti, da esso proiettati verso una creazione spirituale-ideale che non ò il figlio ma qualcosa d’altro, a cui anche il figlio può eventualmente servire: “l’individuo a cui l’amore tende non ò il figlio, ma l’individuo ideale risultante dall’unione degli amanti” Tale unità  ò lo scopo vero dell’amore sessuale, e l’elemento di ascensione della vita: l’apparizione del figlio, non esclusa appare come fatto secondario eppure spesso importante, rispetto al fine fondamentale stabilito nell’unità  della coppia. L’unione sessuale intesa come la prima forma di unità  morale degli uomini: “l’unione erotica ò il primo anello verso una sublimazione sempre più perfetta della vita, che raggiunge i suoi gradi più alti nella vita morale e religiosa”. In tal senso, sono per Martinetti (sotto questo profilo molto poco aperto di vedute) da condannarsi la poligamia e l’omosessualità . Nel filosofo canavesano, si riscontra una posizione polare rispetto a quella di Schopenhauer: se per il pensatore tedesco il fine unico dell’amore sessuale ò la perpetuazione della specie (“dietro l’alato e sorridente dio d’amore sta nascosto l’inesorabile genio della specie”), per Martinetti lo scopo dell’amore consiste nella creazione dell’unità  tra gli amanti. Nell’ordine morale l’unione dell’uomo e della donna possiede un autonomo valore in sò completato dall’unità  familiare. Ne consegue, che salvo rari casi, il matrimonio ò superiore al celibato “l’amore puro e profondo di una donna non toglie mai la vista di Dio” Taluni studiosi del pensiero martinettiano vi trovano cenni gnostico-dualistici e catari, che per altro sembrano bilanciati dalla forte considerazione di Eros e dal rifiuto della continenza sessuale assoluta, quale era invece praticata nelle sette gnostiche radicali. A ciò si aggiunge in Martinetti l’adozione di una morale anti-scettica, basata sull’irriducibile diversità  tra bene e male.

  • Filosofia del 1900

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