La vita, le opere e la formazione culturale Il pragmatismo assume una configurazione particolare nella concezione filosofica di John Dewey; nato a Burlington, nel Vermont, nel 1859, egli studiò alla John Hopkins University, dove ricevette una formazione di tipo neohegeliano, ma su di lui influirono poi potentemente il pragmatismo di Peirce e di James e le dottrine dell’evoluzionismo darwiniano. Studiò anche presso l’università del Michigan, dove si specializzò in Psicologia, laureandosi con una tesi sulla psicologia in Kant. Dal 1894 al 1904 insegnò all’università di Chicago: qui fondò la “scuola laboratorio” per bambini, la quale si basava sui nuovi princìpi pedagogici introdotti da Dewey stesso. Dal 1904 al 1929 insegnò alla Columbia University di New York: in questa città morì nel 1952. Le opere più importanti di Dewey sono Esperienza e natura (1925), La ricerca della certezza (1929) e, soprattutto, Logica, teoria dell’indagine (1938). Vanno poi ricordate: Come pensiamo (1910), Saggi di logica sperimentale (1916), Natura e condotta dell’uomo (1922), Una fede comune (1934), L’arte come esperienza (1934), Il conoscente e il conosciuto (1939), Teoria della valutazione (1939), Libertà e cultura (1939). Importantissimi per gli sviluppi della pedagogia contemporanea sono Democrazia ed educazione (1916), Esperienza ed educazione (1938), Educazione oggi (1940). La prima formazione di Dewey ò di carattere neo-hegeliano. Per quanto egli abbia successivamente superato la fase idealistica del suo pensiero, di Hegel gli rimase sempre la concezione che la realtà ò una totalità rispetto alla quale le singole parti sono elementi costitutivi, non individualità indipendenti. Questa concezione serviva a Dewey soprattutto per concepire unitariamente il rapporto tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo, tra coscienza e natura, tra Dio e mondo. Ma, in seguito all’influenza dell’evoluzionismo darwiniano, egli concepisce la totalità del reale non più idealisticamente come spirito, ma come natura, ovvero come il risultato del continuo interagire tra il singolo organismo e l’ambiente in cui esso vive. In questa prospettiva, la filosofia non ha più una funzione prettamente conoscitiva e non si deve proporre di riconoscere una razionalità hegelianamente già presente nella realtà . Al contrario, essa deve rendere consapevole l’uomo degli elementi di disordine e di conflittualità che continuamente emergono nel rapporto tra individuo e ambiente e fornire gli strumenti, insieme logici e operativi, adeguati a risolvere tali problemi. Attraverso l’influenza della biologia evoluzionistica e del pragmatismo, soprattutto peirciano, l’iniziale assunto idealistico di Dewey si trasforma in strumentalismo naturalistico. Lâesperienza Come per gli altri pragmatisti, anche per Dewey il punto di partenza ò l’ esperienza. Ma, come Peirce e James, egli non riduce l’esperienza al concetto che di essa formulò l’empirismo classico e che fu generalmente condiviso dalla filosofia tradizionale, anche quando questa si attestò su posizioni lontane dall’empirismo. Innanzi tutto, l’esperienza non si colloca per Dewey sul piano della conoscenza, ma su quello dell’azione pratica. L’esperienza ò data, infatti, dall’ interazione tra l’organismo e l’ambiente in cui esso opera: ò un sentire che ò sempre anche un reagire. Esperienza ò camminare in una strada, consumare un pasto, parlare con un vicino, costruire un garage o innamorarsi. Di conseguenza l’esperienza ò attività non meno che passività : l’organismo che esperisce qualcosa da un lato, riceve uno stimolo in una risposta (ò qui particolarmente evidente l’influenza della psicologia di James). L’esperienza non ò quindi, semplice registrazione di dati che, quando vengono percepiti sono ormai passati, ma ò una risposta proiettata verso il futuro. Inoltre, se per l’empirismo classico, il materiale dell’esperienza era costituito da dati isolati e indipendenti l’uno dall’altro, l’esperienza pragmatistica coglie soprattutto le relazioni tra le cose, sia quelle che riguardano i nessi tra gli oggetti della realtà naturale e sociale, sia quelle che concernono il rapporto tra l’organismo che esperisce e la realtà esperita. Proprio perchè riguarda l’interdipendenza tra l’organismo e il suo ambiente, l’esperienza non ò sempre armonica. Non sempre l’ambiente agisce sull’individuo senziente in modo conforme alle sue necessità e alle sue aspettative. In parte, le energie dell’ambiente naturale favoriscono le funzioni organiche, promuovendo la crescita, la salute, l’adattamento. In parte, quelle energie agiscono invece contro le funzioni dell’organismo provocando disturbi, malattia e morte. Analogamente, l’ambiente sociale agisce sull’individuo in parte favorevolmente, in parte sfavorevolmente. La nostra esperienza ò quindi anche esperienza di disagi, di errori, di mancanze, di disordine, in ogni caso di una insufficiente capacità dell’organismo di adattarsi all’ambiente. E’ così possibile anche l’esperienza di cose puramente negative, come la morte, in risposta alla quale l’individuo reagisce in maniera diversissima, dall’indifferenza alla disperazione, dal rifugio nella religione alla stipulazione di un’assicurazione sulla vita. L’esperienza ò però precedente ad ogni intellettualizzazione. L’empirismo classico ha sbagliato ritenendo che essa mi dia, ad esempio, la sensazione del blu. La mia “sensazione” del blu ò infatti già il risultato di una successiva riflessione sull’esperienza, in realtà , l’esperienza consiste nel fatto che io scrivo una lettera con una penna blu o sono infastidito da una luce blu. Analogamente, l’esperienza non ò ancora riflessione consapevole sugli aspetti problematici dell’esistenza, che pure ci vengono dati da essa. Soltanto quando portiamo alla coscienza questi aspetti problematici, cominciamo a riflettere su di essi: e qui si inizia la conoscenza, che deriva dall’esperienza, ma non ò identica con essa. Se non si presenta alcuna situazione di disagio, l’esperienza può non concettualizzarsi e non diventare conoscenza, che deriva dall’esperienza, ma non ò identica con essa. Se non si presenta alcuna situazione di disagio, l’esperienza può non concettualizzarsi e non diventare conoscenza: se era mia intenzione scrivere una lettera, uso la penna blu senza avvertire questo fatto. In questo caso ho esperienza dello scrivere con la penna blu, ma non conoscenza di esso. Se invece sono disturbato da una luce blu, oppure, intendo sottolineare una parola in rosso, mi trovo tra le mani una penna blu, porto il fatto alla coscienza e ne faccio un problema. A questo punto non ho più soltanto esperienza, ma concettualizzazione, ragionamento, inizio di conoscenza. La logica strumentale Il problema della conoscenza viene trattato da Dewey nella forma più completa in Logica, teoria dell’indagine. Egli concorda con la definizione tradizionale, condivisa anche da Bradley e altri idealisti, della logica come teoria del giudizio. Ma il giudizio non ò per lui un procedimento esclusivamente mentale, bensì il processo concreto attraverso cui qualcuno giudica qualcosa per operare una trasformazione della realtà . La conoscenza consiste infatti nel processo di manipolazione dell’esperienza, in modo da eliminare via via da essa gli aspetti conflittuali o problematici e adattare le cose all’uso che vogliamo farne. Ecco perchè Dewey definisce la conoscenza come un’attività pratica coronata da successo. Il pensiero non ò solo in funzione dell’azione, ma ò esso stesso azione. Nulla ò più lontano da Dewey di quella che egli chiama “la teoria della conoscenza come spettacolo “, cioò la dottrina tradizionale per cui essa consiste nella contemplazione o ricezione passiva di una realtà esterna indipendente dall’uomo. La logica coincide, dunque per Dewey con una teoria dell’indagine, indirizzata a trasformare una situazione indeterminata in una situazione completamente determinata. Per situazione indeterminata si deve intendere una condizione esistenziale nella quale esistono alcuni elementi di discrepanza rispetto ai fini, agli interessi o alle esigenze dell’individuo che opera in essa. Quando questi elementi siano trasformati in modo da eliminare ogni causa di disturbo da parte dell’ambiente, la situazione indeterminata si converte in una situazione determinata ovvero con un’espressione che rileva le tracce del giovanile hegelismo di Dewey, in una “totalità unitaria”. La situazione indeterminata ci ò data dall’esperienza la quale però, come abbiamo visto, precedendo ogni forma di riflessione, non ci rende ancora consapevoli di quali siano gli elementi da rimuovere o trasformare e su quali altri elementi si possa invece contare come termini di riferimento utili alla nostra azione modificatrice. Ciò avviene con la trasformazione della situazione semplicemente indeterminata in una situazione problematica, nella quale siano appunto dati con chiarezza i termini del problema da risolvere. Definita la situazione problematica, il soggetto della ricerca deve formulare un’idea, intesa come una previsione generica sul tipo di soluzione che si intende perseguire. Nella sua vaghezza, l’idea fornisce soltanto un suggerimento sulla direzione che deve prendere la ricerca, ma non consente ancora il passaggio all’azione pratica. Bisogna dunque chiarire l’idea nella sua portata e nelle sue implicazioni in modo da determinare le singole fasi dell’intervento e il rapporto che esse vengono ad avere con gli aspetti determinanti della situazione. Ciò ò possibile soltanto attraverso il ragionamento che formalizza l’idea traducendola in un linguaggio simbolico. Questo può avvenire a due livelli. La formalizzazione può essere data dal linguaggio della scienza, il quale permette un più elevato grado di generalizzazione e di universalità della comunicazione. Il senso comune e la scienza mettono capo, quindi, a due attività di ricerca che sono distinte soltanto dal diverso grado di formalizzazione simbolica a cui fanno ricorso: in entrambi i casi, tuttavia, si tratta di procedimenti che utilizzano una precisa sintassi logica. Il ragionamento da solo non può comunque dare piena garanzia dell’efficacia dell’idea. L’ultima parola spetta all’ esperimento, con il quale le precedenti fasi della ricerca si traducono in azione pratica. Si deve notare, tuttavia, che già la formulazione dell’idea e l’articolazione del ragionamento hanno carattere operazionale: essi non consistono in una analisi teorica della situazione, ma sono intrinsecamente compenetrati dall’azione cui mettono capo. Ancora una volta, pensare ed agire non sono attività distinte, ma i due aspetti di una stessa attività . Se l’esperimento ha esito positivo, l’idea dipanata dal ragionamento si traduce in un giudizio finale, che costituisce la sanzione definitiva della scelta operativa fatta, la quale viene da questo momento considerata come “decisione direttiva di attività future”. Con il giudizio finale, la conoscenza ò acquisita e l’indagine conclusa. La teoria deweiana della verità scaturisce da questa concezione della conoscenza come risultato dell’indagine. Le “proposizioni” di cui ci serviamo nell’indagine, cioò le formulazioni relative ai modi di agire per risolvere il problema, non sono nè vere nè false: esse sono soltanto strumenti che utilizziamo per chiarificare l’idea e rendere possibile la sua verifica sperimentale. L’intero apparato della logica non ha una funzione immediatamente conoscitiva ma ò puramente strumentale. Di qui la denominazione di strumentalismo che Dewey dà al suo pensiero. La verità compete soltanto al giudizio che ò stato esclusivamente provato in via sperimentale. La concezione che Dewey ha della verità ò quindi molto più vicina a quella di Peirce che a quella di James: la verità non ò data dall’efficacia di un’idea o di una credenza di un singolo individuo, ma dal riconoscimento unanime, ottenuto applicando una precisa sintassi logica e facendo ricorso finale all’esperimento, che determinate procedure sono in grado di risolvere determinati problemi. Come per Peirce, anche per Dewey, il pragmatismo se da un lato consente di determinare i significati pratici di qualsiasi comportamento compresi quelli quotidiani, dall’altro trova la sua più naturale e completa applicazione nell’ambito della scienza, Dewey, inoltre, accoglie da Pearce anche il principio del fallibilismo, per cui i risultati di un’indagine scientifica sono definitivi soltanto nella misura in cui non intervengono altri giudizi a dimostrarne la falsità . I giudizi sono considerati “verità stabilite” non in quanto siano incorreggibili ma sono nel senso che per il momento non vi sono ragioni per metterli in discussione o continuare la ricerca su di essi. Anche per Dewey, come per Peirce, la verità ò un ideale a cui tendere, più che un traguardo effettivamente conseguibile. La teoria della conoscenza di Dewey getta luce anche sulla sua concezione della filosofia. Tradizionalmente, la filosofia ha esercitato, secondo lui, una funzione illusionistica: essa ha tranquillizzato gli animi mostrando come nella realtà ci fosse ordine, armonia, stabilità . Viceversa la filosofia, ed ò questo uno dei punti su cui Dewey prende maggiore distanza da Hegel, deve rendere consapevole l’uomo che la realtà ò anche disordine, conflittualità , instabilità , ma nello stesso tempo che l’intelligenza umana ò in grado di trasformare operativamente queste realtà in modo da renderla più omogenea con le proprie esigenze. La filosofia ò “l’intelligenza diventata consapevole della propria natura e dei propri metodi”. La natura dell’intelligenza ò quella di approntare strumenti per risolvere problemi; i suoi metodi sono quelli descritti nella teoria dell’indagine. La filosofia ò essenzialmente un metodo di chiarificazione; ma, appunto per questo, essa si traduce immediatamente in operatività e costituisce la più concreta speranza, da parte dell’uomo, di poter conservare e sviluppare il proprio sistema dei valori. Uomo e natura Il mondo dell’esperienza costituisce una realtà unitaria nella quale non ci sono elementi isolati, ma un unico complesso di interrelazioni. Questo vale ovviamente anche per il processo di indagine che abbiamo descritto sopra. L’individuo che conduce l’indagine non ò una realtà esterna alla situazione in cui opera e che intende modificare. Non c’ò un soggetto della conoscenza autonomo e contrapposto ad un oggetto. Soggetto e oggetto sono funzioni che emergono nel corso stesso dell’indagine. Il soggetto non ò che un organismo che “diventa un soggetto conoscente in virtù del suo impegno in operazioni di ricerca controllata”. Analogamente l’ oggetto ò quella parte dell’esperienza che il soggetto considera come un insieme di elementi permanentemente definiti come realtà già costituite che esistono indipendentemente dall’attività conoscitiva o pratica del soggetto stesso. Naturalmente le funzioni del soggetto e dell’oggetto sono strettamente interdipendenti: l’una esiste solo in quanto esiste l’altra. Per indicare questa relazione, Dewey usa negli ultimi scritti il termine transazione mutato dal mondo dell’economia e degli affari. Qui la transazione indica il rapporto che viene a instaurarsi tra un compratore e un venditore che non esistono però l’uno indipendentemente dall’altro: il compratore ò tale perchè esiste un venditore e viceversa. Nello stesso modo, un organismo si costituisce come soggetto solo in quanto definisce come oggetto una determinata porzione di esperienza e viceversa. Ispirata alla stessa esigenza monastica ò la concezione deweiana del rapporto mente-corpo. Contro ogni interpretazione dualistica di questa relazione Dewey precisa che l’uomo ò un’unita psico-fisica. La mente non può esistere indipendentemente dalle condizioni organiche del corpo, così come questo a sua volta non può sussistere se non in dipendenza dalle condizioni ambientali. Noi non abbiamo espressioni linguistiche adeguate per esprimere tale unità psico- fisica, osserva Dewey, per cui dobbiamo ricorrere all’espressione composta “mente-corpo”. Ma le due parole che la compongono non indicano due realtà diverse, bensì ancora una volta, due aspetti o funzioni dello stesso organismo. L’elemento “corpo” esprime l’accumularsi e il persistere di determinati effetti dell’ambiente sull’organismo; mentre, la componente “mente” si riferisce alla capacità di quest’ultimo di aggiungere elementi differenziali, di elaborare risposte che conducano a un’ulteriore modificazione dell’ambiente. Considerazioni affini a quelle fatte per le nozioni di soggetto e di mente valgono anche per il concetto di coscienza. Tanto il pensiero idealistico, quanto quello realistico si erano fondati su una nozione di coscienza intesa come una realtà sussistente di per sè e indipendente dal proprio contenuto, sia che quest’ultimo venisse a sua volta considerato indipendente dalla coscienza(realismo), sia che venisse invece risolto in essa(idealismo). Viceversa, per Dewey, la coscienza ò il momento in cui l’esperienza rivela la sua dimensione problematica, preludendo così all’innesco del prodotto conoscitivo. Tutte le azioni compiute durante la giornata fanno parte della mia esperienza, ma soltanto in un certo numero di casi l’esperienza si traduce in coscienza, perchè si fa sentire l’esigenza di una sua correzione o trasformazione. Un uomo che cammina per la strada ò soltanto un organismo che interagisce con l’ambiente, ma se la strada ò piena di pozzanghere, quell’uomo che ora guarda dove mette i piedi, ò un organismo che ha sviluppato in sè la funzione della coscienza. La coscienza non ò quindi, una condizione ontologica assoluta, ma soltanto una funzione relativa a una particolare condizione transitoria. Altrettanto relativa ò la nozione deweiana di io. Anche qui viene completamente messa da parte la concezione di un io sostanziale e permanente, sede ontologica o psichica della specifica individualità del soggetto. Nella stragrande maggioranza dei casi l’organismo umano che reagisce all’ambiente o anche allo stesso oggetto della ricerca, si servono di strumenti non originali, ma facenti parte di un retaggio culturale comune a un intero gruppo sociale. A questo sistema organizzato di significati e di proposizioni operative. Dewey dà il nome di spirito, in senso analogo a quello in cui Hegel chiamava “spirito del popolo” l’insieme degli aspetti culturali e istituzionali che determina la mentalità e il comportamento di un gruppo etnico. Soltanto quando, come avviene nella genialità scientifica, un singolo individuo riesce ad andare oltre lo spirito e trovare una soluzione originale e personale al problema si può parlare di io. Ma ò chiaro che anche in questo caso la qualifica di io non â¦. permanentemente al soggetto in questione, ma riguarda soltanto i momenti in cui egli esercita la propria intelligenza creativa. Queste considerazioni rivelano l’affinità che intercorre tra Dewey e il filosofo e sociologo George Herbert Mead (1863-1931), suo amico personale oltre che collega all’università di Chicago. L’opera più importante di Mead ò Mente, Se ò società (uscita postuma nel 1934). Partendo dai presupposti dell’evoluzionismo darwiniano che aveva informato anche Dewey, Mead formula una teoria dell’emergenza del Sè, cioò della coscienza, dal rapporto dalle interazioni sociali. Queste interazioni che hanno sempre funzione comunicativa, sono dapprima puramente gestuali (come negli animali e negli uomini primitivi), poi linguistiche. Il linguaggio ò espresso dall’uso di “simboli significativi” cioò tali da avere lo stesso significato sia per chi li usa sia per il loro destinatario, consentendo l’immedesimazione del primo nel secondo e viceversa. Proprio l’abitudine a compiere questa identificazione ha causato il sorgere del Sè che non ò quindi nè una sostanza metafisica, nè una funzione individuale, ma un portato comportamentale dell’intercomunicazione linguistica. All’interno del Sè, Mead distingue poi tra il Me, che esprime i comportamenti del gruppo sociale interiorizzati dall’individuo e aventi su di lui la funzione di controllo sociale (lo “spirito” di Dewey), e l’Io, che rappresenta la componente di spontaneità e di originalità insita nella risposta dell’individuo all’ambiente e costituisce quindi, la condizione per la modificazione dei rapporti sociali. Teoria della valutazione Il monismo naturalistico di Dewey condiziona ampiamente anche la sua concezione della morale. Dato che l’uomo ò in continua interazione con l’ambiente la sua azione non può essere guidata, kantianamente, da una ragione intesa come facoltà contrapposta agli impulsi della sensibilità . Per Dewey ò dunque impossibile una netta distinzione tra razionalità e istinto. La stessa volontà non può essere considerata come una forza morale che si sottrae all’influenza dei condizionamenti ambientali: essa coincide piuttosto con l’abitudine, cioò con una somma di esperienze passate che predispongono l’uomo ad agire in un modo piuttosto che in un altro. La stessa libertà assume un carattere particolare nel contesto deweiano. Essa non comporta nè il libero arbitrio nè la capacità kantiana di essere principio di una serie causale, ma ò data semplicemente dagli spazi di novità , di originalità e creatività che caratterizzano la risposta mentale dell’uomo allo stimolo puramente fisico dell’ambiente. Tenendo conto di ciò, come ò possibile distinguere un’azione buona da una cattiva, un’azione giusta da una ingiusta o anche, poichè il problema si pone negli stessi termini, una cosa bella da una brutta? In altri termini, in che cosa consiste il valore e come sono possibili i giudizi di valore? A queste domande, Dewey risponde con la sua Teoria della valutazione. Premesso che i valori sono per lui come per Moore qualità immediate, che non possono essere nè giustificate nè discusse, la teoria della valutazione rende tuttavia possibile spiegare come nascono i valori e come si possono introdurre criteri per preferire gli uni agli altri. Alla prima questione Dewey risponde dicendo che i valori nascono sempre da un’esigenza insoddisfatta e coincidono con la condizione che soddisfa tali esigenze(in ciò la sua posizione non ò troppo lontana dalla teoria jamesiana dei ‘claims’) Ma proprio perchè il valore reclama la propria soddisfazione, alla teoria della valutazione ò intrinseco l’esame del rapporto tra mezzi e fini: essa non si deve soltanto occupare dei valori in sè, cioò dei fini cui si tende, ma anche necessariamente dei mezzi necessari per conseguirli. La prima analisi non può procedere senza la seconda. In una condizione nella quale ò impossibile discutere dei valori, poichè essi si giustificano da sè, la valutazione, e quindi la scelta dei valori stessi, ò necessariamente condizionata dalla congruenza tra i fini che essi rappresentano con i mezzi necessari alla loro attuazione. Ciò significa che non ci sono valori o fini in sè che debbano essere acquisiti ad ogni costo, ma qualsiasi valore può essere rifiutato quando la sua realizzazione renda sproporzionato il rapporto mezzi-fini. Dewey insiste molto sulla reciproca intrinsecità di mezzi e fini, tanto da far entrare ciascuno dei due termini nella definizione dell’altro. Così i mezzi sarebbero parti frazionari dei fini, cioò non qualcosa di esterno e puramente strumentale al fine, ma già una sua parziale realizzazione. Analogamente i fini sarebbero mezzi procedurali, cioò avrebbero essi stessi valore di mezzo nella procedura della loro realizzazione, poichè fungerebbero, per così dire da causa finale interna allo stesso procedimento. Non a caso Dewey recupera, contro ogni tendenza della scienza moderna, la nozione classica di “fine naturale”; ogni processo naturale o sociale ha in se stesso un fine che costituisce la molla del proprio sviluppo. La tendenziale convergenza tra mezzi e fini ha come conseguenza la spontaneità del processo che conduce alla realizzazione del fine stesso: se compio un lavoro, perchè mi piace, il fine non ò soltanto nello scopo che mi propongo mediante il lavoro(costruire un manufatto), ma già nel lavoro stesso che, in quanto gratificante non ò più soltanto un mezzo ma anche un fine. La convergenza tra mezzi e fini ò quindi una condizione essenziale di quella felicità cui l’uomo tende naturalmente. La considerazione del rapporto tra mezzi e fini ò essenziale anche nell’ambito dell’ arte. Nell’attività estetica infatti il fine, l’opera d’arte, non ò diverso dai mezzi impiegati per realizzarlo, cioò dalla creatività dell’artista e dai materiali che egli ha utilizzato. E, viceversa, i mezzi impiegati in tale attività che mettono capo a prodotti strumentali (ad esempio il martello fatto per battere). In essi le diverse componenti hanno il solo fine di essere “un’esperienza completa e organica per contro proprio”, cioò di contribuire a creare la perfezione dell’insieme. In altri termini, l’opera d’arte presenta una forma finale che non ò posseduta dagli oggetti strumentali. Questo non deve tuttavia far dimenticare che, al pari di ogni altro valore, anche l’arte ò mezzo oltre che fine. Ciò significa che non c’ò differenza qualitativa tra le arti belle e le arti utili: anche l’arte ò “utile” perchè esercita una funzione sociale, rendendo comunicabile l’esperienza dell’artista allargando in generale la sfera della creatività . Connettendo i giudizi di valore, morali o estetici, all’analisi del rapporto mezzi-fini, la teoria della valutazione di Dewey ha anche un’altra conseguenza importante. Il neopositivismo aveva espunto le proposizioni valutative dall’ambito degli assunti scientifici, poichè esse, esprimendo un semplice stato d’animo, non sono riconducibili nè a proposizioni di tipo descrittivo (questo tavolo ò marrone), nè a proposizioni di tipo predittivo (domani pioverà ). Dewey polemizza contro questa posizione, sostenendo che sebbene le proposizioni valutative non ricadano in quei due tipi, possono comunque essere ricondotte a ragionamenti ipotetici del tipo “se-allora” (se usiamo i mezzi x, allora possiamo o non possiamo conseguire i fini y), i quali sono suscettibili di verifica empirica. Politica, educazione e religione In ambito politico Dewey ò uno strenuo difensore del valore e dei metodi della democrazia. Essa costituisce infatti la più coerente traduzione politica della concezione deweiana della realtà e dell’esperienza. Come nella natura l’individuo ò in continua interazione con l’ambiente, così nella democrazia ognuno collabora con le proprie forze al benessere della totalità e riceve a sua volta sostegno dal corpo collettivo. Dewey non si nasconde, tuttavia, che nelle democrazie esistenti, anche in quella americana, non sempre l’interazione tra individuo e totalità si ò sviluppata in modo equilibrato(come del resto avviene anche nella natura): spesso i gruppi sociali più elevati traggono vantaggi maggiori dagli apporti che danno alla vita sociale, mentre i ceti inferiori finiscono con il lavorare a vantaggio di pochi. La responsabilità di questa situazione ò in gran parte attribuibile, secondo Dewey, al liberalismo classico, che ha indissolubilmente connesso la difesa della libertà politica con quella della libertà economica (cioò il liberalismo con il liberismo). Contro questa concezione, Dewey difende invece una forma di liberalismo radicale, che garantisce l’effettiva libertà dello Stato, senza per questo comportare l’adozione di modelli socialistici o comunistici della società . Alle riflessioni sulla democrazia ò anche connessa la pedagogia di Dewey, che ebbe grandissima fortuna non solo negli USA, ma anche in Europa. L’attività scolastica del bambino ò infatti intesa da Dewey come partecipazione attiva e spontanea alla vita della comunità scolastica, una corretta educazione infantile può quindi, predisporre gli individui alle regole della vita democratica e rivelarsi in futuro l’unico potente mezzo per rafforzare e diffondere la democrazia. Ma, al di là della intenzionale relazione con la politica, la pedagogia di Dewey ò ricca di assunti che costituiscono l’applicazione pratica dei suoi principi filosofici. Al centro di essa vi ò la nozione di scuola attiva, il cui principio fondamentale, “imparare facendo( learning by doing ) ò che l’insegnamento non deve essere subito passivamente attraverso la ricezione di nozioni mnemoniche, ma deve essere il risultato dell’attività volontaria del bambino, impegnato in lavori che rispondano ai suoi interessi e alle sue scelte. L’opera dell’educatore deve quindi limitarsi a suscitare in lui i giusti interessi, a fornirgli i materiali e a guidarlo nella realizzazione dei suoi lavori. Nella “scuola laboratorio” che Dewey fece aprire presso il dipartimento di Pedagogia dell’università di Chicago i bambini cucinavano, coltivavano l’orto e preparavano manufatti. Le stesse materie tradizionali (leggere, scrivere, far di conto, la storia, la geografia, ecc. ) venivano insegnate partendo da interessi concreti legati appunto all’attività lavorativa dei bambini. Non ò difficile scorgere sullo sfondo di queste dottrine pedagogiche i temi fondamentali della riflessione filosofica di Dewey: il principio dell’interazione tra individuo e ambiente, la situazione problematica come condizione dell’interesse e del processo cognitivo, il carattere strumentale del pensiero, la teoria del rapporto mezzi-fini. In definitiva, per Dewey ‘ l’educazione ò ricostruzione e riorganizzazione dell’esperienza che accresce il significato dell’esperienza stessa e aumenta l’abilità di dirigere il corso dell’esperienza stessa ‘. Un ultimo accenno merita senz’altro la concezione della religione nel pensiero di Dewey. Il naturalismo monistico deweiano non consente di fare riferimento ad entità trascendenti dalla natura stessa. D’altra parte, Dio non può risolversi panteisticamente nella stessa unità dei processi naturali, poichè nella sua nozione ò contenuta l’idea di una tensione ideale verso il valore che non si lascia chiudere entro i confini dell’esistenza. Dio non ò, pertanto, un essere ontologicamente determinato, ma ò rappresentato dall’unità dei fini ideali che muovono l’azione dell’individuo. All’idea di religione Dewey contrappone quindi quella di religiosità , intesa come quella particolare esperienza umana che l’uomo prova quando, agendo in vista degli ideali, partecipa di un senso di pienezza e di armonia con la società in cui vive e vegeta.
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- Filosofia - 1900