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La Decostruzione

Cos'è la decostruzione'

Definire la decostruzione ò impresa che va immediatamente incontro a una radicale e inesorabile stroncatura da parte dello stesso Derrida: come scrive a un amico giapponese, ” ogni frase del tipo ‘la decostruzione ò X’ o ‘la decostruzione non ò X’ ò a priori priva di pertinenza, ò a dir poco falsa. Lei sa che fra i principali obiettivi di ciò che nei miei testi si chiama ‘decostruzione’ ò proprio la delimitazione dell’onto-logica e anzitutto dell’indicativo presente della terza persona: S ò P ” (“Pacific Deconstruction”, “Lettera a un amico giapponese”). Un tale avvertimento critico, lungi dal voler impedire ogni pro-posizione teorica a proposito della decostruzione, ha piuttosto lo scopo di attirare l’attenzione, mettendoli crudamente in luce, sui temi e le frontiere contro cui essa ò impegnata: temi e frontiere che solo riduttivisticamente possono essere detti teorici, ma che sono sempre nel loro fondo soprattutto etici e politici. Se, come ha scritto, suo malgrado giustamente, Hilary Putnam (in ” Rinnovare la filosofia”) ” criticare il decostmzionsmo ò come cercare di fare a pugni con la nebbia “, ciò ò dovuto forse al fatto che finchò si pretende di condurre questa lotta sul piano puramente teorico, non si può che mancare il bersaglio. La decostruzione ò infatti soprattutto una pratica, e una pratica di scrittura, nel senso che, per ragioni che vedremo meglio, affida alla scrittura una dimensione performativa che sarebbe irriducibile alla constatività  teoretica, la funzione della scrittura, repressa nella metafisica occidentale, sarebbe infatti proprio quella di delimitare, attraverso il suo potenziale sovversivo, la pretesa di dominio della teoreticità . Ciò di cui ne va nella decostruzione ò, dice Derrida, la delimitazione dell’onto-logica di una certa concezione dell’essere e di una certa logica ad essa coessenziale che si esprimono nell’interpretazione tradizionale – metafìsica – della terza persona dell’indicativo presente, della copula “ò”. Si tratta di un problema eminentemente metafisico che Derrida assume da Heidegger e che consiste nel generale privilegio accordato nella metafìsica occidentale alle nozioni di “presenza” e di presente. Il termine decostruzione può anzi essere considerato come la fortunata traduzione del tedesco Destruktion, con cui Heidegger, nel par. 6 di “Essere e Tempo” indicava il compito preliminare, richiesto dall’indagine sul senso dell’essere nei confronti della storia della metafisica ereditata. Che la logica, a partire dal suo fondatore Aristotele, si costruisca su un indiscusso privilegio della forma enunciativa alla terza persona dell’indicativo – il discorso apofantico – ò un dato del tutto evidente. Che tale privilegio abbia come sua giustificazione metafìsica la dottrina della sostanza e una certa concezione dell’essere e del linguaggio dominata dalla dottrina delle categorie, ò altrettanto evidente, al punto da costituire un dato della nostra tradizione culturale talmente costante da confondersi con l’ovvietà  se non proprio con la naturalità . Ciò che Derrida contesta – con un’analisi genealogica e smascherante degna di maestri del sospetto come Nietzsche, Marx e Freud – ò invece proprio tale ovvietà , mostrandone il carattere storico, fondato cioò su una decisione che, in quanto tale, ò più etico-politica che teorica. Tale analisi ò condotta in riferimento soprattutto a Platone in “La farmacia di Platone” e a Husserl in “La voce e il fenomeno”. Platone rappresenta in un certo senso il luogo originario di una tale decisione mentre la fenomenologia husserliana ne costituisce la forma compiuta, essendo essa, per Derrida ” il progetto metafisico stesso nel suo compimento storico e nella purezza solamente restaurata della sua origine ” (“La voce e il fenomeno”). Metafìsica della presenza ò il privilegio che le nozioni di “presenza” e di presente assumono nella definizione di tutti i concepì fondamentali della metafisica- esse anzi esprimono la nozione stessa di “fondamento”. In base a questo privilegio si struttura tutta una sene di coppie oppositive che improntano la concettualità  metafìsica- originano/derivato, modello/copia, immediato (evidenza)/mediato (ripetizione) verità /inganno ecc. Il mito di Teuth, esposto nel Fedro platonico, fa vedere come queste coppie oppositive agiscano nel delineare lo statuto della filosofia che ha dominato la nostra cultura, cui ò coessenziale la condanna della scrittura. Teuth ò il dio della scrittura, ma la sua invenzione viene considerata un veleno, qualcosa di dannoso per la verità  e per la conoscenza, non essendo che copia di copia (come ogni arte per Platone): pertanto essa non può che esporre alla perdita del senso, non può che allontanare dalla verità . Si nota in ciò l’eredità  socratica – Socrate non scrisse nulla, per fedeltà  alla forma dialogica, e perciò ò il vero filosofo -, ma quel che Derrida tende a mettere particolarmente in luce ò il nucleo etico che si cela in questa decisione epistemica: si tratta dell’imperativo socratico del “conosci te stesso”. Quel che il privilegio della presenza cela nel suo fondo ò l’identificazione del sapere – e del bene – con la coscienza, con la presenza a sè. Tutto ciò che allontana da tale presenza a sè (l’arte, la copia, il mito, e dunque la scrittura, che “ripete senza sapere”) ò errore, erranza, male. Ma, nota Derrida, non ò la conoscenza di sè a dettare l’imperativo del conosci tò stesso: esso ò dato in una iscrizione, il “delphikà³n gramma”, il quale prescrive – e dunque precede – ciò che si pretende porre a fondamento. La sistematica concettuale qui analizzata si ritrova fortemente riaffermata, ad avviso di Derrida, nella difesa husserliana del principio dei princìpi, quello, cartesiano, e dell’evidenza del cogito, assunto come fondamento della filosofia in quanto scienza rigorosa, episteme, con esso si pone, e perciò eventualmente anche cade, la possibilità  di ogni riduzione, di ogni epoche, la possibilità  stessa, cioò, della fenomenologia. àˆ perciò fondamentale che la fenomenologia possa realizzare tale riduzione, evitando il più possibile l’inserimento di un elemento estraneo (del “mondo”) all’interno della descrizione fenomenologica stessa. Ne va qui, insomma, dell’ambiguo rapporto che Husserl ha sempre intrattenuto con il linguaggio, e con ogni forma di tecnicizzazione, a un tempo valorizzato nelle sue possibilità  espressive e svalorizzato nel suo carattere di dissimulazione, sovrastrutturale, obiettivante. Nelle “Ricerche logiche” una tale ambiguità  viene regolata attraverso la distinzione tra uno strato linguistico puramente espressivo, che garantirebbe la coincidenza di significato e segno, vale a dire la presenzialità  del voler-dire (così Derrida traduce il termine tedesco Bedeutung, “significato”, per sottolinearne la dipendenza dall’intenzionalità ) alla coscienza, e uno strato meramente indicativo, rivolto cioò a quella “trascendenza” (il mondo) che le riduzioni dovrebbero mettere tra parentesi, onde consentire quella piena immanenza della coscienza a sè che ò l’elemento stesso dell’evidenza fenomenologica. Attraverso una discussione serrata, di cui Derrida aveva già  dato prova nella sua “Introduzione a ‘L’origine della geometria’ di Husserl”, che ò emblematica di quel movimento di “gira-volta”, come lo definisce Derrida stesso, che la decostruzione attua o scopre nei testi della tradizione metafisica, la distinzione husserliana viene minata in base ai presupposti stessi della fenomenologia, e in particolare in base alle riflessioni svolte nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo. Qui Husserl sostiene che il presente stesso (l’adesso nella sua puntualità ) si compone continuamente e inevitabilmente con un non-presente, così come ogni percezione con una non- percezione. E allora, se non ò possibile che il presente si dia in una forma assoluta, viene minata la possibilità  stessa di una presenzialità  a sè priva di rinvio, di indicatività  (la vita solità ria dell’anima, il platonico “monologo dell’anima con se stessa”), e quindi la possibilità  di una presenzialità  di fatto e di principio epochizzabile. Col che verrebbe a cadere, allora, la possibilità  stessa dell’evidenza, dell’intuizione (“noesis”) senza intelletto (“dianoia”), della fenomenologia pura. Con l’esposizione di questi nuclei problematici non siamo però ancora giunti a delineare a fondo quella sistematica concettuale che Derrida chiama ” logocentrismo “, e che ò un’ulteriore, consequenziale definizione della “metafisica della presenza”. Il logocentrismo ò la tendenza, rilevabile all’interno di tale metafisica, a identificare presenzialità  e logos (discorso parlato, vivo, cosciente), cosicchè ò il logos ad assumere una posizione centrale, fondatrice, originaria. Più propriamente, come scrive Derrida, il logocentrismo ò il desiderio stesso di un centro, di un fondamento, su cui si costruisce il “bisogno di verità ” della metafìsica. La vicenda della scrittura ha messo in luce come questa posizione centrale sia occupata dalla coscienza, e cioò dalla voce (“phonè”). La voce infatti ò la coscienza, poichè garantisce la completa trasparenza dell’elemento espressivo, il suo immediato svanire nell’immediatezza del voler-dire, evitando quel che Platone paventava nella scrittura (“figlio bastardo e parricida”), e cioò la perdita del senso e l’incapacità  di “difendersi” o, peggio, la possibilità  di rivoltarsi contro il “padre-logos” (“La farmacia di Platone”). Che la metafisica sia sorta entro un orizzonte culturale che si avvale di una scrittura fonetica ò un dato storico non secondario, poichè solo una scrittura fonetica avrebbe potuto consentire il sorgere di una concettualità  in cui opposizioni come senso/lettera, spirito/materia, intelligibile/sensibile, verità /errore fossero sovrapponibili con quella voce/scrittura. Ma tutti i tentativi di relegare la scrittura a una funzione secondaria, accessoria e subordinata non sarebbero altro che tentativi di difesa dalla sua potenziale carica sovversiva, eversiva; che insomma nella vicenda della scrittura operi una sorta di “rimozione” ò provato secondo Derrida dal fatto che, in realtà , una scrittura totalmente fonetica non esiste, poichè anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc. La decostruzione sfrutta il potenziale sovversivo – o quantomeno dislocante – di questi elementi scritti ma non dicibili, poichè essi consentono di operare differenze di senso inaudite, che segnano uno scarto rispetto al dominio fonologocentrico: ne vedremo un esempio – possiamo dire l’esempio – nel caso deella scrittura del termine diffèrance.

  • Filosofia del 1900

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