Sono tornato l’altroieri su Autoblog – e sono rimasto davvero poco: un giorno e mezzo in pratica, cosa vuoi capire di una città, non parliamo di una nazione, in così poco tempo? Nulla! Ma ancora stordito dal jet lag voglio provare a fare il punto su cosa ho imparato di Detroit e degli Usa in 36 ore.
Partiamo dall’abc: i lettori di Travelblog queste cose le sanno benissimo, ma è sempre meglio ripeterle. Per viaggiare negli Stati Uniti serve un visto: lo si compila online – a patto che abbiate una carta di credito – costa poco, circa 10 Euro, ed è pronto subito. Tutte le info sul sito della Polizia di Stato e sul sito dell’ESTA, ovvero l’Electronic System for Travel Authorization. Pagate l’obolo e siete pronti a partire.
Anche per una breve trasferta non dimenticate l’adattatore: le prese elettriche da quelle parti sono diverse. Lo trovate in qualunque negozio di elettrodomestici, con cinque euro ve la cavate e ne acquistate uno multipresa utilizzabile in tutto il mondo. Perfetto: ora siete pronti per fare la valigia – nel mio caso pressoché inesistente – prendere l’autobus e andare all’aeroporto…
Noi abbiamo volato da Malpensa ad Amsterdam per poi proseguire con destinazione Detroit. I controlli per Amsterdam rispetto a quelli per gli Usa sono una barzelletta. Particolarmente fastidioso l’interrogatorio all’aeroporto olandese: “Cosa vai a fare negli Usa? Perché ci vai? Dove stai? Quanto ti fermi? Con chi stai? Che lavoro fai?”, in quel caso c’è poco da fare: armarsi di pazienza, togliersi le scarpe e aspettare.
Il volo per Detroit da Amsterdam – almeno, il nostro – era operato dalla Delta. Personale di bordo squisito: lo stesso non si può dire del pasto servito a bordo, la scelta declamata da hostess e steward era “Chicken or pasta?”. La pasta ho preferito evitarla: il pollo era sopportabile. Evitate come la peste quel panino con una specie di frittata che vi daranno a colazione: quel panino è il Male, l’ho digerito giorni dopo.
Dopo due o tre film e qualche ora di volo, si atterra: il fuso orario a Detroit è -6, quindi, lancette indietro. Passata la trafila dei controlli si impatta con gli States. L’equivalente a stelle e strisce delle nostre tangenziali era una strada a cinque corsie. Automobilisti molto disciplinati, scrupolosamente osservanti del codice della strada: o almeno così è stato nel tragitto tra l’aeroporto e l’albergo. In generale è stata un’impressione che ho avuto anche altrove.
Che genere di impressione? A naso gli americani mi sono sembrati un popolo di gente estremamente disciplinata, timorosa e rispettosa dell’ordine, che tende a evitare di dribblare l’obbligo, la legge, i doveri. Impressione rilevata in 36 ore eh, non prendetela come chissà quale verità cosmica!
L’albergo – il Motor City Casino Hotel – non era molto distante dal downtown, cioè il centro cittadino: se non siete mai stati negli States, ricordatevi che le aree centrali delle città grandi tendono a spopolarsi rapidamente già dal mezzo pomeriggio. Ma questo lo sapevo già, qualunque amico me l’aveva raccontato.
Ma credetemi, quando verso le 16 di domenica pomeriggio ci siamo avviati a piedi verso il centro è stato impressionante: le foto della gallery raccontano quella sensazione. Nessuna forma di vita in giro: nessun umano. Avremo camminato un paio di km verso il centro, seguendo i grattacieli che vedevamo in lontananza, abbiamo incontrato una persona di numero. Una.
Nel mezzo, ai bordi della strada, le tracce della crisi, dello spopolamento: Detroit ha visto i suoi abitanti dimezzarsi dagli anni cinquanta a oggi, attualmente sono circa un milione, la metà di Milano. L’area urbana ne comprende più o meno 4 milioni.
E’ tutto collegato alla crisi dell’industria dell’auto – anche attuale, ma iniziata decenni addietro – aggravato negli ultimi anni dalla crisi finanziaria – ricordate i mutui subprime? – il risultato è un panorama lunare con case abbandonate ovunque. Il bicchiere di Pepsi al contrario sulla neve parlava chiaro: is de(a)d. E’ morta.
Michael Moore, girata nel 1989 in quel di Flint – poco distante Detroit – siete decisamente vicini alla realtà. Il futuro regista di Bowling for Columbine e Fahrenheit 9/11 raccontava di come la chiusura di una fabbrica General Motors e il licenziamento di 30mila operai avessero annichilito un nucleo urbano.
Non so se per Detroit oggi, 2010, possa valere lo stesso, ma non c’era una bella aria in giro. C’era un’aria un po’ disperata, o forse ho solo camminato nel block sbagliato: un mood urbanistico che strideva parecchio con l’affabilità e la gentilezza dei locali che ho incontrato in seguito, gente decisamente tranquilla – almeno a prima vista – serena, sana, di cui ti puoi fidare.
Altra cosa che ho imparato sull’America – o forse solo sul Michigan, vai a sapere – è che se fumi una sigaretta sei considerato un irredimibile subumano da emarginare. Un attimo fuori dall’albergo, al freddo, e arriva un solerte concierge che mi invita a non fumare lì. Perché? Perché no, go ahead. Ligio alle usanze del Paese che mi ospitava anche se solo per poche ore, mi allontano: due metri più in là andava bene.
Restiamo nel campo dionisiaco: dopo tabacco, bacco. Gli americani producono ottimi vini, la Napa Valley e i rossi californiani non sono una novità: è che devono un po’ fare l’occhio quando lo servono – o forse sono stato due sere di fila in un ristorante per alcolizzati, vai a sapere… – sta di fatto che i camerieri ti riempiono il calice con una quantità pari più o meno a una lattina di Coca Cola.