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Pop art

La pop art: la corrente artistica, caratteristiche e gli artisti principali

POP ART. Con la Biennale di Venezia del 1964 è sancito il successo mondiale della Pop Art, una forma d’arte che come poche altre del Novecento incarna lo spirito del momento in cui vede la luce. Il mondo occidentale attraversa un periodo di grande sviluppo economico e la società, in particolare negli Stati Uniti, assume sempre più connotati di massa, anche per lo sfrenato consumismo che, per il tramite della pubblicità, “persuasore occulto”, va insinuandosi nel costume sociale. Tale processo è accompagnato da un atteggiamento di ottimismo riguardo al futuro di quella civiltà occidentale che sembra essersi definitivamente lasciata alle spalle la tragedia bellica. Intellettuali e filosofi cominciano a denunciare i pericoli di questo nuovo status economico-sociale e anche alcuni artisti si misurano con le nuove abitudini di vita, ponendosi in aperto dissenso. Diverso è l’atteggiamento dei Pop artisti. Pop altro non è che l’abbreviazione dell’aggettivo popular, è una definizione che sta a indicare una forma d’arte non elitaria né esclusiva, né riservata soltanto al pubblico competente, bensì destinata a una platea più ampia possibile, sia nelle scelte tematiche, sia in quelle lessicali. La Pop Art, i cui personaggi di punta sono statunitensi, non è un movimento in senso stretto, ma un nuovo atteggiamento dell’arte nei confronti della vita, metropolitana e industrializzata.

POP ART: GLI ESPONENTI PRINCIPALI. Già all’inizio degli anni Sessanta a New York si tengono le prime mostre di Jim Dine, Robert Indiana, Roy Lichtenstein, Claes Oldemburg, James Rosenquist e Andy Warhol. Ma è nel 1964, in occasione della Biennale di Venezia, la più illustre vetrina artistica mondiale, che la Pop si mostra, provocatoriamente, agli occhi del mondo.
Il ritorno dell’oggetto, in particolare all’oggetto povero e quotidiano, è un elemento che, come è detto, caratterizza molte delle esperienze che in questi anni propongono il superamento dell’Informale, nella direzione di una maggiore chiarezza comunicativa, come il New Dada e il Nouveau Rèalisme tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Si tratta però in questi casi di veri e propri recuperi, in chiave neo dadaista: qualsiasi elemento, prelevato dalla realtà, possiede un valore espressivo sufficiente a dar vita a un’opera d’arte. Questa posizione è dettata anche dalla componente ideologica che spinge questi artisti a rifiutare le “belle arti”, ritenute avulse dalla realtà. Essa non è priva di atteggiamenti di ribellione, sovente espressi con intonazioni ironiche o sarcastiche, nei confronti della mercificazione del sistema consumistico.
La Pop Art, al contrario, in particolare con Andy Warhol, eccentrico ed emblematico non solo come artista, si pine rispetto alla società dei consumi, e anche all’arte, in maniera differente. Warhol e compagni, tornando a riprodurre illusionisticamente l’oggetto, divergono, dalla posizione New Dada. L’arte non prende di peso il dato reale, ma lo traduce in linguaggio proprio, semplice, schematico, colorato e attraente, di forte impatto comunicativo, che fa suoi elementi utilizzati dalla pubblicità, nelle insegne, per le forme di comunicazione tipiche della nuova società.
Questo linguaggio utilizza mezzi moderni, come la plastica per le sculture di Claes Oldemburg oppure tecniche considerate poco nobili, come la fotografia o la serigrafia, oppure si rifà a forme espressive della cultura popolare, come il fumetto. È un’arte che dialoga con il pubblico, utilizzando la lingua che il pubblico è abituato a usare: immagini essenziali, che instaurano con lo spettatore un contatto diretto, facilmente comprensibile. Anche dal punto di vista iconografico la Pop Art attinge a un immaginario finora inutilizzato. Si tratta di soggetti tratti dal mondo, familiarissimo, dei mass media: cartelloni pubblicitari, prodotti largamente commercializzati o ritratti di divi. È un ritorno più alla realtà delle immagini e delle apparenze che alla realtà effettiva. Il soggetto, reso con le tecniche spersonalizzanti e omologanti della comunicazione  pubblicitaria, sembra perdere il suo grado di realtà per assumere la valenza di stereotipo.

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