Egloghe - Studentville

Egloghe

Sono due composizioni bucoliche

in lingua latina scritte da Dante nell’ultimo biennio della sua vita e pubblicate la prima volta nel 1719 a Firenze. Ne fu

occasione un’epistola di tipo oraziano, che Giovanni del Virgilio, lettore di poesia latina allo Studio di Bologna, inviò a

Dante sullo scorcio del 1319. Esaltando in lui la “voce alma delle Muse” (“Pieridum vox alma”), Giovanni del Virgilio, che

conosceva le due prime cantiche della Divina Commedia, si rammaricava che tanti tesori di scienza e d’arte fossero prodigati a

gente incolta. Proponeva perciò a Dante di cantare in lingua latina alcuni avvenimenti di storia contemporanea, persuaso che

non solo egli li avrebbe sottratti al gorgo del tempo, ma si sarebbe conquistato anche l’ammirazione dei dotti, ignari della

sua virtù di poeta, perché incuranti della lingua volgare. Per sé Giovanni del Virgilio non altro chiedeva che di farsi il

banditore della gloria di Dante, presentandolo nelle scuole della sua dotta città con le tempie cinte dell’alloro trionfale. A

tale affettuosa attestazione di reverenza e di stima Dante risponde con un’egloga pastorale, dove, a imitazione della prima

egloga di Virgilio, egli si cela sotto il nome di Titiro, mentre, sotto quello di Melibeo, si designa il fiorentino ser Dino

Perini, più giovane di lui e come lui esule a Ravenna. A sera, sotto una quercia, i due pastori stanno numerando il gregge

pasciuto, quando giunge l’epistola di Mopso, denominazione virgiliana del maestro bolognese. Melibeo è curioso di saperne il

contenuto e Titiro, dopo di avergli detto che non sono per lui i pascoli d’Arcadia dove Mopso modula i suoi carmi, gli

dichiara che questi l’invita a cingersi l’alloro. Melibeo ne gioisce come di un premio che a Titiro è giustamente dovuto; e

questi, pur dolendosi che la poesia, tranne che a Mopso, non sia più cara a nessuno, s’abbandona al lieto sogno di cantare

l’inno del trionfo con la fronte coronata. Ma non nei luoghi dove Mopso dimora, bensì sulle rive dell’Arno. Non a Bologna, ma

a Firenze, e per la sua Divina Commedia, Dante vorrebbe incoronarsi poeta (“Quando le sfere rotanti del mondo e i beati saranno

nel mio canto palesi come già i regni inferiori, sarà bello incoronarmi il capo con l’edera e l’alloro”; cfr. Paradiso, XXV,

1 sgg.). Vero è che Mopso disprezza il volgare, ma Titiro gli manderà dieci vasi di latte munto da una sua pecora carissima,

ossia, come pare probabile, dieci canti del Paradiso. Dopo tale saggio di poesia latina, che si concreta in una vivace e

drammatica rappresentazione, Giovanni del Virgilio, ripigliando anche lui le forme dell’egloga virgiliana, rispose a Dante; e,

chiamandolo un nuovo Virgilio, anzi lo stesso Virgilio redivivo, gli rinnovò l’invito di recarsi a Bologna, dove insieme e con

voce diversa avrebbero potuto effondere le voci della loro anima tra un festante coro di amici e ammiratori. E Dante, forse

nell’anno ultimo della sua vita, replicò allora con una seconda egloga, narrando, sotto il nome di Titiro, le sollecitazioni

affettuose di cui era l’oggetto da parte delle persone care che l’attorniavano nella quiete operosa di Ravenna. Mentre Titiro

è in colloquio col pastore Alfesibeo, cioè col maestro Fiducio dei Milotti, medico, da Certaldo, giunge improvvisamente

Melibeo, che affannato gli porta il carme responsivo di Mopso e gliene fa sentire la dolce melodia. Tutti sono in timore che

Titiro ceda all’invito di Mopso e lasci – poiché la scena si finge in Sicilia – le rugiadose terre del Peloro (Ravenna) per le

Petrose caverne etnee (Bologna), dove signoreggia il fiero Ciclope. Con fervente affetto Alfesibeo prega e scongiura Titiro di

non disertare le fonti e i pascoli resi illustri dal suo nome immortale; e Titiro lo rassicura: Mopso, che è come lui un amico

delle Muse, crede che egli abiti la spiaggia adriatica e gli esalta perciò i pascoli dell’Etna; invece egli vive,

spiritualmente, nella parte migliore della Trinacria, dove regna la pace e nel silenzio contemplativo sboccia il fiore di

quella pura poesia che in noi è natura. Per vedere Mopso egli si recherebbe a Bologna: ma là non andrà per timore di Polifemo;

vale a dire – lasciando da parte ogni identificazione storica di tale personaggio, perché incerta e dubbiosa – egli non lascerà

una dimora così tranquilla e decorosa con altra che non l’affida. I due componimenti, che s’ispirano all’egloga virgiliana e

ne riproducono atteggiamenti e movenze, sono chiara testimonianza dell’arte di Dante, che in un momento di felice abbandono sa

risollevarsi dal latino scolastico delle sue opere in prosa e rivelarsi anche lì poeta. La finzione bucolica, quasi sempre

leggera e trasparente, non è che un mezzo per dare sfondo alla scena, dove l’azione è posta al servigio di una

rappresentazione, che incide caratteri e si scioglie in note profondamente umane. Di là dal linguaggio ingegnosamente elaborato

e teso, noi cogliamo figure che s’individuano drammaticamente. Titiro con la sua fede nel valore della poesia e il suo sogno

di gloria; Melibeo e Alfesibeo, con la loro devozione al “divino vecchio”, la cui presenza onora il luogo del loro comune

esilio. E tutto in un’atmosfera idillica di affetti teneri e gentili, e di consonanze spirituali intimamente attive e

profonde, che ci fanno pensare a qualche episodio del Purgatorio.

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