George Edward Moore - Studentville

George Edward Moore

Pensiero e vita del filosofo.

Il neo-idealismo venne attaccato duramente dal pragmatismo, ma trovò probabilmente un nemico ancora più accanito nel realismo, sviluppatosi in Inghilterra all’inizio del ‘900 ad opera di B. Russell e di George Edward Moore (1873-1958). Le strade percorse da Russell e da Moore ad un certo punto si divisero dato che il primo si orientò verso l’atomismo logico e il secondo realizzò un recupero della filosofia del senso comune; essi però, coetanei e compagni di scuola a Cambridge, seguirono inizialmente lo stesso percorso, caratterizzato soprattutto dalla comune polemica contro l’idealismo di Bradley. Nel 1903 uscirono quasi contemporaneamente i loro contributi in difesa del realismo, i Princìpi di matematica di Russell e la più specifica Confutazione dell’idealismo di Moore, comparsa su ‘Mind’, la rivista che, diretta per molto tempo da Moore in persona, diventerà  l’organo filosofico del realismo inglese. In La confutazione dell’idealismo Moore, avvalendosi di un metodo che prefigura quell’analisi del linguaggio a cui egli darà  pure un impertante contributo, analizza a scopo critico quello che ai suoi occhi è l’assunto fondamentale di ogni posizione idealistica: il principio di Berkeley per cui ‘essere è essere percepiti’ ( esse est percipi ). Moore osserva che questa proposizione è estremamente ambigua, dal momento che pretende di asserire l’identità  di due termini, ‘essere’ e ‘essere percepiti’, che non sono per niente identici. La loro diversità  risulta evidente se si pensa alla differenza che intercorre tra il ‘giallo’ (essere) e la mia ‘sensazione del giallo’ (essere percepito): dove è chiaro che nella seconda è contenuto qualcosa che nella prima era assente, ossia l’elemento della coscienza. La confutazione del principio di Berkeley risulta ancora più evidente se si confrontano tra loro sensazioni diverse, ad esempio la ‘sensazione del blu’ e la ‘sensazione del rosso’: entrambe le sensazioni, in quanto tali, contengono un elemento comune, quello della coscienza; mentre il ‘blu’ e il ‘rosso’ non hanno nulla in comune. Dunque gli oggetti della sensazione (il ‘giallo’, il ‘blu’, il ‘rosso’) sono altra cosa rispetto alle sensazioni del giallo, del blu e del rosso che noi proviamo nella nostra coscienza. Nella Confutazione dell’idealismo Moore considera oggetto della coscienza tanto le qualità  (il giallo, il blu, il rosso) quanto gli oggetti fisici (la mia mano, quel tavolo, questa casa); in un successivo saggio su La natura e la realtà  degli oggetti di percezione (1905) Moore effettua una netta distinzione tra i dati sensoriali ( sense-data ), che ci vengono forniti dalla percezione attuale, e gli oggetti fisici tridimensionali, che non ci sono forniti da questo tipo di percezione. Ci si trova di fronte a due tipi di problemi; il primo è: che cosa dimostra l’esistenza degli oggetti fisici, cioò l’esistenza di un mondo a noi esterno? A questo quesito Moore risponde recuperando e rivalutando la dottrina del senso comune del settecentesco Thomas Reid e della Scuola scozzese in due opere di fondamentale importanza ( Difesa del senso comune, del 1925, e La prova di un mondo esterno del 1939). Non abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza degli oggetti esterni, spiega Moore, perchò ‘sappiamo già ‘ che esistono: ossia, alla base della certezza dell’esistenza di un mondo esterno vi è un atto intuitivo, una conoscenza immediata e spontanea. Il secondo problema che viene ora ad affiorare è invece quello di chiarire la relazione che intercorre tra i dati sensoriali e gli oggetti esterni, cioò tra quel che percepiamo immediatamente e quel che conosciamo immediatamente; come posso dire che il giallo fa parte della casa che mi sta di fronte? Su che fondamento si basa l’assunzione secondo la quale il bianco, il morbido, il liscio (che percepisco attualmente) sono parte della superficie della mia mano (che conosco immediatamente grazie al senso comune)? Questa relazione, secondo Moore, resta problematica dal momento che esistono difficoltà  a sostenere sia che le qualità  percepite siano parte della superficie della mano, sia che ne costituiscano una semplice ‘apparenza’, sia che la superficie della mano sia una sorta di termine ‘compendioso’ che raccoglie le diverse qualità  della mano. Queste ultime riflessioni mettono in luce come Moore proceda con grande prudenza e cautela nella sua indagine filosofica, facendo attenzione a non introdurre affermazioni che non siano dimostrabili più che ad estendere l’ambito di quel che si può affermare. Lo strumento più adeguato per portare avanti questa indagine, con tutte le cautele che essa comporta, è l’ analisi del linguaggio ordinario, dato che proprio in esso trova l’espressione migliore quel senso comune che sta a fondamento della nostra conoscenza. Il duplice riferimento al senso comune e all’analisi del linguaggio ritorna anche nella dottrina morale di Moore, esposta nei celeberrimi Principia ethica (1903) e nell’ Etica (1912); l’obiettivo centrale dell’etica di Moore è la definizione del bene e, in maniera subordinata, la determinazione di una ‘buona’ condotta umana. Il ‘bene’ è un concetto semplice, e per questo non può essere spiegato, dato che ogni spiegazione implica una risoluzione dell’oggetto in altri termini. Il bene è paragonabile al ‘giallo’: così come non si può spiegare che cosa sia il giallo a chi non lo ha visto e, d’altra parte, chi lo ha visto non ha bisogno di spiegazione, nello stesso modo ‘ ognuno è costantemente consapevole della nozione del bene ‘. La posizione di Moore può dunque essere definita come intuizionismo etico: ‘ se mi si chiede: che cosa è bene?, la mia risposta è che bene è bene e null’altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? la mia risposta è che esso non si può definire, e questo è tutto quel che ho da dire sull’argomento ‘ ( Principia ethica cap. I, §§ 6-7). Moore si oppone pertanto alle dottrine che intendono definire il bene tramite una conoscenza di tipo fisico (cioò scientifico), oppure metafisico (cioò filosofico). In ambo i casi, si scambia il bene con un oggetto esterno, descrivibile appunto tramite gli strumenti della scienza o della filosofia; a questo errore Moore attribuisce il nome di fallacia naturalistica: con questa critica egli voleva confutare sia l’utilitarismo, che riducendo il bene al piacere ne faceva un oggetto fisico, misurabile e indagabile scientificamente, sia l’idealismo, che considerava il bene come una realtà  metafisica trascendente il mondo: Platone in primis aveva parlato di un vero e proprio ‘bene in sò’. Il bene è una nozione relativa alla sfera dell’uomo e della storia. Sebbene escluda la riconduzione del bene all’oggettività  fisica o metafisica, Moore è del parere che l’etica sia una disciplina oggettiva, che consente di determinare univocamente quale condotta umana può essere definita ‘buona’ e quale ‘cattiva’. Dal momento che tutti sanno che cosa è il bene, il dovere etico consiste nella sua realizzazione e, più precisamente, nella promozione del comportamento ‘ che causerà  nell’universo più bene di ogni altra possibile alternativa ‘. Azioni buone saranno dunque l’amore per le persone e per le cose belle: ambo queste condotte sono infatti disinteressate e quindi non solo non introducono alcuna forma di conflittualità , ma promuovono l’estendersi della compatibilità  e dell’armonia tra le diverse esigenze presenti.

  • Filosofia del 1900

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