Vattimo ò un pensatore attento al problema della comunicazione, della multimedialità e, in sostanza, della tecnica, anche se â stando a quanto egli stesso ha più volte detto â più che di tecnica sarebbe bene parlare di âtecnicheâ. A differenza di Heidegger â che nella tecnica scorgeva unâinsidia temibile – e di Lyotard (con il quale si trova però in sintonia per quel che concerne la nozione di âpost-modernoâ), il filosofo torinese guarda con simpatia allâesplodere della comunicazione che ha travolto il mondo dal dopo- guerra in poi: ed ò a questa tematica decisiva che ò dedicato il suo scritto âLa società trasparenteâ, apparso per la prima volta nel 1989, per poi riuscire, edito da Garzanti, nel 2000. Le ragioni di questa seconda âuscitaâ sono esposte da Vattimo stesso nella prefazione, in cui spiega che si sono verificate talmente tante e rapide innovazioni in campo tecnologico e politico da richiedere una rivisitazione di alcuni parti dello scritto, pur rimanendo invariato il cuore del problema, ossia il fatto che âla âmediatizzazioneâ della nostra esistenza ci metta di fronte a (possibilità di) trasformazioni molto radicali del modo di vivere la soggettività , a eventi che rappresentano anche vere e proprie svolte nel âsenso dellâessereââ. Fin dalle prime pagine, viene stretto un forte legame tra post-modernità e società dei mass-media e della comunicazione generalizzata: si tratta pertanto di chiarire, in via preliminare, che cosa sia la âpost-modernità â per poter così, in seguito, addentrarsi nel problema dei mass-media senza rischi di fraintendimenti. La constatazione di Vattimo, in apertura del libro, ò che oggigiorno la parola âpost-modernità â ò sulla bocca di tutti, a tal punto che ò quasi divenuto un obbligo evitarla, per non scivolare nel banale e in quella che pare ormai essere una âmodaâ. Ma se ò vero che tutti impiegano tale termine, ò altrettanto vero che si sappia con precisione quali significati siano in esso racchiusi? Con queste riflessioni sullo sfondo, Vattimo avvia la propria indagine, convinto che âil termine postmoderno abbia un sensoâ e che âquesto senso sia legato al fatto che la società in cui viviamo ò una società della comunicazione generalizzata, la società dei mass mediaâ. Ma se parliamo di âpostmodernoâ, lo facciamo â ovviamente â in riferimento al âmodernoâ, di cui appunto il âpostmodernoâ rappresenta uno stadio successivo: ma che cosâò, allora, la modernità ? Tra le molteplici definizioni possibili, Vattimo ne trova una particolarmente calzante, sulla quale ò possibile trovarsi dâaccordo: âla modernità ò lâepoca in cui diventa un valore determinante il fatto di essere modernoâ. In questâaccezione, lâessere moderno diventa un valore e, di conseguenza, lâessere non-moderno si colora di significati negativi, e termini come âreazionarioâ o âantiquatoâ diventano spregiativi, poichè deridono chi resta legato al passato senza riconoscere il valore del moderno. Questo atteggiamento ò presente nella civiltà occidentale fin dalla nascita della modernità – avvenuta nel Quattrocento -, anche se in origine era latente e solo embrionale: un tipico esempio di questa nuova âculturaâ può essere rintracciato nella figura del genio, ossia di colui che crea cose assolutamente nuove, sganciate dal passato. Nellâetà illuministica, poi, lâatteggiamento âmodernistaâ ha raggiunto lâapice, considerando il passato come mera serie di errori umani e la storia come âun progressivo processo di emancipazioneâ. Ora, nellâepoca in cui stiamo vivendo, non ò più possibile parlare della storia come un qualcosa di unitario, come âun centro intorno a cui si raccolgono e si ordinano gli eventiâ, ò tramontata lâidea â o, meglio, lâideologia â di una storia che scorre unitariamente e ciò ò emerso in maniera nettissima soprattutto a partire dallâOttocento, per trascinarsi fin nel Novecento e raggiungere probabilmente lâapice con lo scritto di Walter Benjamin âTesi sulla filosofia della storiaâ (1938), in cui si dice, in sostanza, che la storia come corso unitario ò âuna rappresentazione del passato costruita dai gruppi e dalle classi sociali dominantiâ. In effetti â nota Vattimo â se ci domandiamo âche cosa si tramanda del passato? Che cosa ci riferisce la storia di quel che ò accaduto? â, ci troviamo inevitabilmente costretti a riconoscere che essa si fa portavoce non di tutto ciò che ò accaduto, bensì di ciò che appare ârilevanteâ, con la conseguenza, ovviamente, che la storia non può che essere di parte. Sviluppando queste tesi benjaminiane (ma già prospettate da Marx e da Nietzsche), si perviene alla conclusione che ânon câò una storia unica, ci sono immagini del passato proposte da punti di vista diversi, ed ò illusorio pensare che ci sia un punto di vista supremoâ. E se crolla lâidea di una storia come corso unitario, crolla anche lâidea di progresso (che accomuna gli Illuministi, Hegel, Marx, i Positivisti e gli Storicisti), giacchò questâultimo implica che la storia stessa proceda verso un fine, verso il meglio. Infatti, così come noi possiamo concepire la storia in maniera unitaria solo se guardiamo ad essa da un determinato punto di vista che si pone al centro, così il progresso viene necessariamente inteso âassumendo come criterio un certo ideale dellâuomoâ. Con la fine della modernità e il trapasso nella post-modernità , tutto ciò si ò sgretolato, e non solo grazie alla fine del colonialismo e dellâ imperialismo: anche lâavvento della società della comunicazione ha giocato, in tal senso, un ruolo assolutamente fondamentale. Ed ò a questo punto che Vattimo introduce la nozione di âsocietà trasparenteâ, unâespressione che ò âintrodotta con un punto interrogativoâ perchè più problematica del previsto. âCiò che intendo sostenere ò: a) che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante ò esercitato dai mass media; b) che essi caratterizzano questa società non come una società più âtrasparenteâ, più consapevole di sè, più âilluminataâ, ma come una società più complessa, persino caotica; e infine c) che proprio in questo relativo âcaosâ risiedono le nostre speranze di emancipazioneâ. Lâinizio della fine della modernità ò segnato â come abbiamo visto â dallo spegnersi dellâunitarietà della storia e del suo monopolico punto di vista: nel passaggio al post-moderno, non câò più un unico punto di vista universalmente valido e accettato, ma, al contrario, vi ò unâautentica esplosione di prospettive, di concezioni e di idee che rendono impossibile pensare la storia come un lineare corso di eventi che scorre unitariamente. Questo proliferare di visioni del mondo trae origine dal ruolo dei mass media e della comunicazione generalizzata, cui Vattimo riconosce il grande merito di aver reso la società non più trasparente e cristallina, ma, viceversa, incommensurabilmente più caotica e irriconducibile ad un centro, ad un punto di vista unico. Lâasserto di Nietzsche â in âCosì parlò Zarathustraâ â: âora che Dio ò morto vogliamo che vivano molti deiâ, si concretizza nella società postmoderna, in cui âradio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondoâ: non più una sola visione del mondo, ma unâesplosione di immagini. Sono stati i mass media a permettere la dissoluzione dei punti di vista centrali, ossia di quelli che â prendendo in prestito le parole di Lyotard â potremmo definire âi grandi raccontiâ: ne segue che proprio l’apparente caos della società postmoderna – la quale, lungi dall’essere una società âtrasparenteâ, cioò monoliticamente consapevole di se stessa, ò piuttosto un âmondo di culture pluraliâ, ovvero una società âbabelicaâ e âspaesataâ in cui si incrociano linguaggi, razze, modi di vita diversi – costituisce la miglior premessa a una forma di emancipazione basata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza ossia a un modello di umanità più aperto al dialogo e alla differenza. Si attua una presa di parola da parte di un numero crescente di sub-culture che, prima dâoggi, erano sempre state messe a tacere e condannate come âdiverseâ e quindi ânon-vereâ. In tale prospettiva, risulta inaccettabile la posizione di Adorno e degli altri membri della Scuola di Francoforte, che nei mass media tendevano a leggere un terribile strumento di appiattimento e di imposizione di un dominio unitario; il proliferare di âimmagini del mondoâ porta con sè la paradossale conseguenza che diventa sempre meno concepibile lâidea di un mondo, di una realtà data unitariamente, cosicchò pare avverarsi la profezia nietzscheana del mondo vero che alla fine diventa favola: non câò più una realtà data, ma vi sono una miriade di realtà o, meglio, di punti di vista diversi, di diverse interpretazioni che rendono incredibilmente babelica la società , generando un diffuso effetto di spaesamento e confusione: âsi fa strada un ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, lâoscillazione, la pluralità , e in definitiva lâerosione dello stesso âprincipio di realtà ââ. Fluttuando in questo mare di interpretazioni che rendono impossibile gettare una luce unitaria sulla realtà , si possono trovare vie emancipative, soprattutto partendo dal presupposto che, venendo a mancare unâinterpretazione unica, ciò significa che la realtà post-moderna, segnata da un indebolimento dellâessere, non ò interpretabile univocamente, ma si fan strada più punti di vista, tutti ugualmente validi. In questo modo, âlâimportanza dellâinsegnamento filosofico di autori come Nietzsche e Heidegger sta tutta qui, nel fatto che essi ci offrono gli strumenti per capire il senso emancipativo della fine della modernità e della sua idea di storiaâ. La società postmoderna può dunque essere fatta coincidere con la società dei media, i quali non sono lo strumento diabolico di un’inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), ma il presupposto in atto del possibile avvento di un’umanità spaesata capace di vivere in un âmondo di culture pluraliâ che â poichè non depositarie della âVerità â in nome della quale dichiarar guerra alle altre â possono avvicinarsi e collaborare pacificamente. In altri termini, rifiutando l’equazione adorniana âmedia = società omologataâ e insistendo sul nesso fra i media e l’assetto pluralistico della società âcomplessaâ, Vattimo ha finito per sostenere che grazie al âmondo fantasmagoricoâ dei media si ò avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti, al punto che la realtà , per i postmoderni, coincide ormai con le âimmaginiâ che tali mezzi distribuiscono. La perdita di centro e l’erosione del principio di realtà (che attuano, sul piano tecnologico, ciò che Nietzsche e Heidegger avevano profetizzato sul piano fìlosofico), implicando la distruzione degli orizzonti chiusi, pongono le premesse sia per un tipo di uomo che non ha più bisogno di recuperare nevroticamente le figure rassicuranti dell’infanzia, sia per quella liberazione delle differenze che ò propria del post-moderno. E così, âse con la moltiplicazione delle immagini del mondo perdiamo il âsenso della realtà â, come si dice, forse non ò poi una gran perditaâ: mettendo sulla bilancia ciò châò perso e ciò châò guadagnato, pare proprio che essa penda a favore del guadagnato, poichè ò sì vero che ci troviamo di fronte ad un dilagante nichilismo che non ò più âalle porteâ, ma che ò tra noi, ad unâimpossibilità di afferrare in maniera decisiva il significato dellâessere, ma da ciò deriva la fine dei âpensieri fortiâ, convinti di avere in pugno la Verità , pronti ad esser chiusi alle âculture altreâ perchè prive di tale Verità , nasce un âpensiero deboleâ che â consapevole dei propri limiti e dellâindebolimento dellâessere â si apre a tali âculture altreâ. Lâ emancipazione che deriva dalla moltiplicazione allâinfinito delle immagini del mondo finisce così per coincidere con lo spaesamento babelico in cui ci troviam gettati nel mondo pluralizzato: assistiamo ad unâautentica liberazione delle differenze, il che ò particolarmente apprezzabile se prendiamo in esame il caso dei dialetti, ossia delle lingue locali che sfuggono ad ogni determinazione univoca e dettata dallâalto e riportano immagini del mondo ognuna diversa dalle altre. Certo, anche i dialetti sottostanno a regole grammaticali e sintattiche â ò evidente -, ma il potenziale liberativo in essi presente riposa sul fatto che possono dar parola a âculture altreâ, diverse e plurali, che si fanno araldi di prospettive e di visuali sul mondo. âSe parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non ò la sola âlinguaâ, ma ò appunto un dialetto fra altri. Se professo il mio sistema di valori – religiosi, estetici, politici, etnici – in questo mondo di culture plurali, avrò anche un’acuta coscienza della storicità , contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mioâ. Questo atteggiamento, coincidente con quello nietzscheano del âcontinuare a sognare sapendo di sognareâ, ò quello proprio dellâOltreuomo zarathustriano, che â morto Dio â crea nuovi dei, in un caleidoscopio infinito di immagini del mondo e di valori sempre rinnovantesi. Il potenziale emancipativo che scaturisce dai dialetti ò rintracciabile, pur con le dovute differenze, anche nellâesperienza estetica, dove â come nota Dilthey – ci troviamo catapultati a vivere in altri mondi possibili, capendo come, in definitiva, il mondo reale in cui siam chiusi ò contingente, relativo, non definitivo. Vivendo lâesperienza estetica, fluttuiamo spaesati tra appartenenza e spaesamento, cogliendo il vero senso della libertà e della pluralità . Scrive Vattimo: âCaduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” – minoranze etniche, sessuali religiose, culturali o estetiche- che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità , di tutte le individualità limitate, effimere, contingentiâ. Ma la libertà derivante dallâesplodere della comunicazione generalizzata ò dunamiV non enteleceia può passare in atto, ma può anche degenerare nella voce del âGrande Fratelloâ e della âbanalità stereotipataâ, del âvuoto di significatoâ; sta a noi far sì che proceda in una direzione anzichè nellâaltra, a noi che siamo ancora legati agli orizzonti chiusi e unitari e che non siamo forse ancora pronti ad una cultura âpluraleâ, a noi che âoggi non siamo a disagio perchè siamo nichilisti, ma piuttosto perchè siamo ancora troppo poco nichilistiâ (âFilosofia al presenteâ). In questâottica, i nostri punti di riferimento devono essere Nietzsche e Heidegger soprattutto, ma anche pragmatisti come Dewey o Wittgenstein, i quali ci hanno mostrato che âlâessere non coincide necessariamente con ciò che ò stabile, fisso, permanente, ma ha da fare piuttosto con lâevento, il consenso, il dialogo, lâinterpretazioneâ e che ci hanno resi âcapaci di cogliere questa esperienza di oscillazione del mondo postmoderno come chance di un nuovo modo di essere (forse: finalmente) umaniâ. Il secondo capitolo dello scritto si intitola âScienze umane e società della comunicazioneâ, avente come tesi portante lo stretto rapporto che intercorre fra scienze umane e società della comunicazione: il tratto comune sta nel fatto che sia le scienze tecniche e sperimentali sia le scienze umane âcostituiscono il loro oggetto più che non esplorino un ârealeâ già costituito e ordinatoâ, il che si inquadra perfettamente con il discorso condotto da Vattimo nel capitolo precedente, in cui si insisteva, appunto, su come nella società postmoderna il mondo âveroâ tenda nietzscheanamente a diventare una âfavolaâ, a cedere il passo ai tanti mondi fatti venire a galla dai mass media. Vattimo sostiene che le cosiddette âscienze umaneâ – dalla sociologia allâantropologia, anche se il termine oscilla nel vago – sono rese possibili, anche se in un rapporto di reciproca determinazione, dal âcostituirsi della società moderna come società della comunicazioneâ: esse sono, al contempo, lâeffetto della nascita della società postmoderna e lâelemento che contribuisce al suo incessante sviluppo. Il risultato ò che â per dirla con lâHeidegger dei âSentieri interrottiâ â ci muoviamo in unâ âepoca delle immagini del mondoâ, ossia in unâepoca in cui, grazie ai supporti tecnici e ai mass media, il mondo si riduce ad immagini, viene svuotato nella sua realtà , non ò più consistente come in passato. La tecnica stessa (o, meglio, le tecniche) si esplicitano pertanto soprattutto nel mondo dellâinformazione, riducendo il mondo stesso ad immagini, più che nel dominio della natura (secondo quel che invece credeva una tradizione che da Bacone giungeva fino a Marx), cosicchò la società tecnica che oggi impera ò essenzialmente la società delle scienze umane, quella che ò conosciuta e studiata da esse e che in esse si esprime. Ciò, se non può essere dimostrato, può tuttavia essere avvalorato da esempi: primo fra tutti, la centralità assunta dalle tecnologie informatiche, che â come la mano secondo Aristotele â sono organon twn organwn âstrumento degli strumentiâ. In secondo luogo, possiamo soffermare la nostra attenzione sulla nozione di âcontemporaneità â, con la quale dobbiamo soprattutto intendere âla tendenza alla riduzione della storia sul piano della simultaneità â (la telecronaca diretta, le informazioni via internet in tempo reale, e così via), una tendenza orientata a raggiungere quella che Vattimo chiama âutopia della assoluta autotrasparenzaâ. Questo atteggiamento programmatico ò venuto chiaramente alla luce nellâetà illuministica, quando lâuomo ha sentito lâesigenza più che mai di conoscere ogni cosa, riconducendola alla scienza; ma non lo troviamo solo nellâetà dei Lumi: ancora Hegel, quando parla di âSpirito assolutoâ, o quando i Positivisti parlano di âprogressoâ, si muovono fermamente lungo questa direttiva; anche Habermas e Apel, se letti attentamente, non sfuggono a questa prospettiva. Se le scienze umane muovessero verso una rigorosa scientificità tale da abolire ogni motivo di parte, ideologico, di interesse, e se la comunicazione ad esse si adeguasse, allora probabilmente la società sarebbe trasparente, come auspicavano gli Illuministi: ma, al contrario, âlo sviluppo intenso delle scienze umane e lâintensificarsi della comunicazione sociale non sembrano produrre un accrescimento della autotrasparenza della società , ma anzi paiono funzionare in senso oppostoâ; prova ne ò lâesplosione di visioni del mondo, di punti di vista diversissimi, che ha colorato lo sviluppo della comunicazione generalizzata, spingendo in direzione di una società meno trasparente e più caotica, sì, ma proprio per questo più propensa da essere un terreno fertile per lo scaturire di unâemancipazione e di una libertà per tutti. Così, se la radio, se la televisione, se internet divulgassero informazioni univoche, appiattite, tutte simili fra loro perchè provenienti da un unico punto di vista, la società sarebbe trasparente, ma refrattaria ad ogni forma di emancipazione e di libertà , sarebbe cioò dominata da un gruppo che pretenderebbe di imporre a tutti il proprio punto di vista, fatto passare per âVerità â; così in passato â quando non câerano i mass media â si sono potute affermare âVerità â quali lâinferiorità della donna e dei neri, lâesser contro natura degli omosessuali, e così via. E il mondo attuale â nota Vattimo â sembra oggi procedere in direzione diametralmente opposta allâautotrasparenza: sembra essersi avviato verso la âfabulazione del mondoâ, ossia al fatto che il mondo reale venga sostituito da un caotico pulviscolo di immagini del mondo, tutte diverse tra loro, per cui â nietzscheanamente – il mondo vero diventa favola e ad esistere non sono più i fatti, ma le interpretazioni. Con ciò Vattimo non intende certo abbandonarsi a nostalgici rimpianti idealistici, per cui il mondo reale non esisterebbe, ma sarebbe una mera produzione del soggetto: al contrario, vuol semplicemente mettere in luce come âciò che chiamiamo la ârealtà del mondoâ ò qualcosa che si costituisce come âcontestoâ delle molteplici fabulazioniâ. Respingendo lâidealismo, Vattimo si discosta anche, in qualche misura, dallo scetticismo e dal relativismo, avvicinandosi invece ad âuna disponibilità meno ideologica allâesperienza del mondo, il quale, più che lâoggetto di saperi tendenzialmente (ma sempre solo tendenzialmente) âoggettiviâ, ò il luogo della produzione di sistemi simbolici, che si distinguono dai miti proprio in quanto sono âstoriciâ â e cioò narrazioni che prendono criticamente le distanze, si sanno collocate in sistemi di coordinate, si sanno e si presentano esplicitamente come âdivenuteâ, non pretendono mai di essere ânaturaââ. Naturalmente, in questo groviglio inestricabile di âvisioni del mondoâ, o â per riesumare unâantica espressione leibniziana – di âpunti di vistaâ, le scienze umane non possono fare affidamento sul metodo scientifico, ma devono trovar rifugio in quello ermeneutico, mirante ad una verità reperibile nel dialogo, nel confronto, nella corrispondenza, e non nella fantasmatica corrispondenza ad un presunto stato di cose. E, poichè tale via ermeneutica sa bene che i punti di vista, in quanto tali, sono vessilliferi di porzioni di verità , mai di una Verità data una volta per tutte, ma, ciononostante, guarda al brulicare di tali punti di vista come ad un forte potenziale emancipativo, essa può essere accostata ad un altro concetto nietzscheano (ripreso dallo stesso Ricoeur): quello di âscuola del sospettoâ; ò vero che non possiamo far strage di ideologie e visioni di parte, sgombrando definitivamente il campo, ma ciò ci permette di capire come la realtà non abbia una sola chiave di lettura, ma, al contrario, si presti a mille, a duemila, a infinite possibili letture, senza che nessuna di esse sia âVeraâ e possa arrogarsi il diritto di combattere le altre in nome della propria âVerità â. Ecco perchè âil sistema dei media-scienze umane funziona, quando funziona al meglio, come emancipazione solo in quanto ci colloca in un mondo meno unitario, meno certo, dunque anche assai meno rassicurante di quello del mitoâ. Il capitolo successivo ò appunto dedicato al mito, nella convinzione che sia necessario definire in che rapporti si trovi con esso lâuomo postmoderno. E Vattimo nota, in prima analisi, come propriamente non sussista nellâepoca contemporanea una soddisfacente teoria del mito, seppure esso rappresenti uno di quei concetti più ricorrenti: secondo Sorel, il mito era quel complesso di immagini spontanee ed istintive che, a differenza dellâutopia (che ò una rappresentazione intellettuale razionalmente esaminabile), ha un effetto pratico dirompente, ò l’espressione immediata per immagini della volontà che attende di tradursi in azione. Secondo Lèvi-Strauss, invece, il mito ò l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio. Proprio muovendo dallâanalisi condotta da Lèvi-Strauss, Vattimo interpreta il mito come una forma di pensiero anti-scientifico, che non fa ricorso alla dimostrazione e al rigore, ma, piuttosto, alla fantasia, alla narrazione e al coinvolgimento, con minore (se non addirittura nulle) pretese di obiettività . La scienza stessa, nel suo costituirsi, si pone come demitizzazione, ossia come disincanto del mondo: ma ciò significa che il mito viene cronologicamente prima della scienza, poichè questâultima nasce appunto come superamento del mito stesso. Su questo punto si trovano dâaccordo anche Lèvi-Strauss, Cassirer e Weber: ma di fronte a questâattenzione per il mito non può non destarsi in noi un senso di âdisagioâ per il fatto che la sua sopravvivenza ò legata a filo doppio allâesistenza di una concezione metafisica che oggi pare scomparsa. Come può esistere il mito se manca la metafisica? Da questa insanabile contraddizione risulta evidente come il mito appaia qualcosa di arcaico e inattuale, che non ha cittadinanza nella società attuale e che risulta collocabile solo in un lontano passato dai contorni indefiniti. Proprio sulla nozione di âarcaismoâ Vattimo si sofferma diffusamente, spiegando come lâatteggiamento âarcaicoâ che guarda con sospetto al mondo scientifico possa in qualche misura anche essere detto âapocalitticoâ: leggendo il mito alla luce della categoria dellâarcaismo, se ne evince che esso non ò un qualcosa di ormai superato, ma ò anzi una forma di sapere più genuino e autentico rispetto a quello proprio della scienza, e che anzi può permettere un distanziamento dalla scientificità imperante. Non ò un caso che la critica della scienza in nome dellâarcaismo e il conseguente recupero del mito e della sua funzione liberatrice stiano alla base della posizione di Nietzsche e di Heidegger, anche se, ad onor del vero, non ò possibile far riferimento ad una corrente filosofica dai confini adeguatamente delineati che si proponga di porre al centro il mito: ò sì unâalternativa, ma che tende a schizzar via, a non trovare i giusti limiti che la contengano e la regolino, cosicchò non può portare a nulla di certo, e anzi può capovolgersi in un nostalgico e reazionario attaccamento per il passato (sfociando così verso posizioni di estrema âdestraâ). Accanto allâ arcaismo come elemento qualificante il mito, Vattimo prende in esame il relativismo culturale di cui ò intrisa la nostra cultura e a cui, in fondo, il âpensiero deboleâ non riesce completamente a sottrarsi: alla base del relativismo sta la convinzione che âi principi e gli assiomi fondamentali che definiscono la razionalità , i criteri di verità , lâetica e in genere che rendono possibile lâesperienza di una determinata umanità storica, di una cultura, non sono oggetto di sapere razionale, di dimostrazione, giacchò da essi dipende ogni possibilità di dimostrare alcunchòâ. Di questo tipo sono, ad esempio, la teoria dei paradigmi nella formulazione di Thomas Kuhn o lâermeneutica che si richiama a Heidegger. La connessione tra il mito e il relativismo risiede nel fatto che questâultimo tende a considerare tutti i princìpi primi – generalmente riconosciuti come razionali â come mitici, ossia oggetto di un sapere sotto forma di mito, esulante dai dettami della ragione. La stessa razionalità scientifica, in definitiva, finisce per assumere la veste del mito. Infine, ancora altra cosa rispetto allâarcaismo e al relativismo ò quello che Vattimo definisce come âirrazionalismo temperatoâ (o anche ârazionalità limitataâ): secondo la prospettiva dellâirrazionalismo limitato, il mito non si distingue dal sapere scientifico perchè ormai sorpassato (âarcaismoâ) o perchè fa del sapere scientifico stesso un mito (ârelativismoâ), ma piuttosto perchè intende come peculiarità del mito il suo carattere narrativo, del tutto assente nel procedere della scienza. Questa prerogativa â peraltro già perfettamente individuata a suo tempo da Platone â fa sì che al procedere argomentativo e serrato, per dimostrazioni e formule, della scienza si opponga il periodare fluente e narrante del mito, che â nota Vattimo â investe soprattutto tre ambiti del sapere: la psicoanalisi, la storiografia e la sociologia dei mass media. Ciò non toglie che, nella loro specificità , queste tre forme di intendere il mito (arcaismo, relativismo, irrazionalismo temperato) condividano un importantissimo aspetto: nascono dalla dissoluzione delle filosofie metafisiche della storia e, al contempo, non riescono a porre rimedio a tale dissoluzione, configurandosi in tal modo inadeguati e, spesso, contraddittori. Se il pensiero metafisico, che Vattimo altrove designa anche come âpensiero forteâ, proponeva come rimedio a tutto ciò una concezione della storia come Aufklà¤rung e emancipazione della ragione, ora questo ò divenuto assolutamente impossibile nel momento stesso in cui si ò verificata quellâesplosione – provocata dai mass media e su cui ci siamo ampiamente soffermati in precedenza â in virtù della quale hanno preso la parola una miriade di gruppi da sempre ritenuti marginali e, perciò, tacitati, cosicchò ora la storia ha cessato di configurarsi come un corso unitario mirante ad un teloV e si ò invece trasformata in un caotico, babelico e spaesante guazzabuglio di immagini portate alla luce da ciascun gruppo. Se prima dâoggi essa era come uno specchio nella sua unitarietà , ora tale specchio ò caduto, si ò spezzato in unâ infinita molteplicità di frantumi che rispecchiano realtà diverse e contrastanti: il progetto portante dellâIlluminismo, del Positivismo e dello stesso Idealismo si ò dunque arenato, poichè âla realizzazione dellâuniversalità della storia ha reso impossibile la storia universaleâ e la âdemitizzazione ò stata riconosciuta essa stessa come un mitoâ. Da ciò deriva una nuova, inquietante domanda: mostrata la miticità della demitizzazione, sono legittimati i tre atteggiamenti – pocâanzi tratteggiati – verso il mito? Dopo aver compreso che lâidea di sbarazzarsi dei miti era essa stessa mitologica, siamo autorizzati a riprendere il mito come prima? Vattimo risponde â quasi giocando la carta dellâAufhebung hegeliano â che âuna volta svelata la demitizzazione come un mito, il nostro rapporto con il mito non ritorna ingenuo, ma rimane segnato da questa esperienzaâ: ritorniamo al mito come colui che sogna sapendo di sognare, e tale atteggiamento può essere etichettato come âsecolarizzazioneâ. Sul versante religioso, questo si esprime come scoperta degli errori e delle mistificazioni della religione ma, al contempo, come sopravvivenza di tali errori: si ò scoperta la loro natura di erramenti, ma non si ha il coraggio di lasciarli alle spalle, quasi come se il progresso rimanesse magicamente vincolato ad essi da un rapporto di nostalgia. Allo stesso modo, â leggendo Max Weber â il capitalismo non ò abbandono, ma trasformazione del cristianesimo. Da ciò deriva che âquando anche la demitizzazione ò svelata come mito, il mito ricupera legittimità , ma solo nel quadro di una generale esperienza âindebolitaâ della verità â: nellâeredità del pensiero debole, dunque, accanto al precetto cristiano della non- violenza, câò anche posto per il mito, il quale però ha carattere indebolito perchè passato sotto il giogo della demitizzazione demolitrice, la quale, a sua volta, si ò rivelata come mera mitologia. Proprio in ciò, nella demitizzazione della demitizzazione, – oltrechò, naturalmente, nella fine dellâunitarietà della storia – si può leggere il passaggio dal moderno al postmoderno: un passaggio inaugurato da Nietzsche che porta alla conclusione che la verità cessa di essere un fundamentum absolutum et inconcussum, per cui lâuomo moderno che ispeziona il proprio animo non rinviene la certezza irremovibile del cogito cartesiano, ma, piuttosto, âle intermittenze del cuore proustiane, i racconti dei media, le mitologie evidenziate dalla psicoanalisiâ. Nellâetà post-moderna, dunque, il mito torna a fiorire, ma profondamente mutato nella sua essenza: non ò più un qualcosa fortemente contrapposto alla razionalizzazione, ma quasi un superamento tra la scissione apertasi tra razionalismo e irrazionalismo, una sorta di punto di sutura tra i due tale da riaprire âil problema di una rinnovata considerazione filosofica della storiaâ. Continuando il nostro percorso tra i sentieri de âLa società trasparenteâ, ci troviamo improvvisamente di fronte al problema estetico, cui Vattimo più volte aveva alluso (pensiamo a quando, riprendendo Dilthey, scorgeva nelle opere dâarte possibili âmondi altriâ): tratto che accomuna il moderno al postmoderno ò appunto lâesperienza estetica come annunciatrice dei âtratti salienti dellâesistenzaâ (il âsenso dellâessereâ heideggeriano). A tal proposito, Vattimo prende in esame lo scritto di Benjamin âLâopera dâarte nellâepoca della sua riproducibilità tecnicaâ (1936), mostrando come â al di là dei clamorosi fraintendimenti a cui ò stato soggetto â esso ci abbia aperto gli occhi, mettendo in chiaro la sostanziale modificazione a cui ò andata in contro lâarte nel suo incontrarsi coi mass media e, più in generale, con la società di massa. Un tempo, lâopera dâ arte era avviluppata da unââauraâ, ovvero da un alone di unicità , originalità , irripetibilità e sacralità che ò stato spazzato via dallâavvento dei mass media: questi, infatti, introducendo la âriproducibilità tecnicaâ (pensiamo al grammofono, alla TV, alla radio), hanno fatto sì che lâopera dâarte cessasse di essere un unicum, un qualcosa di irripetibilmente sacro, facendo di essa un âsempre ugualeâ, un qualcosa di fruibile in ogni istante e in ogni luogo. Questa grande intuizione benjaminiana â alla quale Adorno, Horkheimer e lâintera âScuola di Francoforteâ non ha aggiunto nulla di veramente innovativo â deve essere sviluppata in maniera tale da fornire unâinterpretazione dellâarte nellâetà postmoderna: ed ò quel che Vattimo si propone di fare, imboccando una strada radicalmente nuova, improntata sul confronto tra il saggio di Benjamin e quello â coevo â di Heidegger su âLâorigine dellâopera dâarteâ (in âSentieri interrottiâ). In questâopera, Heidegger respinge lâeventualità che lâ opera dâarte possa essere mera mimesiV e avvia la propria indagine muovendo dalla constatazione che, in primo luogo, lâopera dâarte ò una cosa, arrivando poi â e qui sta la grandezza del genio heideggeriano â a ribaltare la prospettiva, ossia non più a leggere le opere dâarte a partire dalle cose, ma, viceversa, le cose a partire dalle opere dâarte. Eâ infatti nel quadro di Van Gogh in cui vengono rappresentate le scarpe contadine che ci ò dato capire realmente che cosa siano le scarpe, giacchò lì la loro âstrumentalità â ò sospesa in favore della loro âcosalità â. Da ciò deriva che la prerogativa essenziale dellâopera dâarte risiede nel suo âmettere in operaâ la verità , o â come asserisce Heidegger stesso â nel suo aprire un Mondo sul ritirarsi della Terra. Così intesa, lâopera dâarte secondo Heidegger non può che provocare sul suo osservatore un âurtoâ (âStossâ in tedesco): il che ò particolarmente curioso, poichè Benjamin stesso â che ha in mente soprattutto il cinema – parla di âShockâ come caratteristica fondamentale dellâopera dâarte nellâepoca della riproducibilità tecnica: questa âpoeticaâ dello shock era stata anticipata dai Dadaisti, i quali concepivano lâarte come un proiettile sparato verso il pubblico, un proiettile che colpiva al cuore le convinzioni, le abitudini, i modi di vedere comuni. Chi, comodamente seduto su una poltrona al cinema, guarda una rappresentazione ò secondo Benjamin come un pedone che, immerso nel traffico travolgente della città , deve districarsi tra le vetture senza farsi investire, salvando in tal modo la propria vita; in modo incredibilmente vicino, anche in Heidegger lâ esperienza dellâarte ò ai confini con la morte, in bilico tra vita e trapasso, non già nel senso benjaminiano del pedone che deve muoversi nel traffico, quanto piuttosto nellâaccezione â squisitamente heideggeriana â della morte come possibilità costitutiva dellâesistenza. A provocare lo Stoss ò, nella prospettiva heideggeriana, il fatto stesso che lâopera dâarte ci sia anzichè non esserci: e â come ricorderà il lettore di âEssere e Tempoâ â lâesserci sta alla base dellâangoscia, di quello stato emotivo che rende autentica lâesistenza dellâuomo gettato nel mondo. Certo, se soffermiamo la nostra attenzione sui singoli enti del mondo, cogliamo quella rete di infiniti rimandi intenzionali (da Husserl riconosciuta solo a livello coscienziale) che tra essi intercorrono e che ad essi conferiscono un senso: ma se guardiamo al mondo nel suo insieme? Non possiamo non provare un senso di vertigine nellâaccorgerci che esso non rimanda a nullâaltro e che ò assolutamente privo di senso, angosciante. La stessa opera dâarte, sotto questo profilo, trae origine non tanto come ente tra gli altri, correlazionato da una fitta rete di rimandi, quanto piuttosto come aprirsi di un nuovo mondo a se stante, come âmessa in opera della verità â, ed ò per questo che sortisce su di noi un effetto urtante, di Stoss. Lâurto a cui allude Benjamin ò qualcosa di più semplice e immediato, ò la rapida successione delle scene di un film che ci scuote, che ci impone di stare attenti, come il pedone nel traffico urbano. Ma, al di là di queste differenze, câò davvero unâanalogia tra lâarte secondo Heidegger e lâarte secondo Benjamin? E le loro concezioni offrono qualche connessione con la società dei mass media in cui si trova lâuomo postmoderno? A questi interrogativi martellanti Vattimo dà unâunica risposta, che risolve le due questioni e, al contempo, le salda tra loro: sia in Heidegger sia in Benjamin ò fortemente presente lâidea dello spaesamento â tipica della babelica società postmoderna – suscitato dallâ incontro con lâopera dâarte, una sorta di estraniamento urtante che per entrambi i pensatori non va superato tentando una ricomposizione, ma, viceversa, va mantenuto in vita. Ricomporlo â nel caso di Benjamin â sarebbe possibile solo a patto di bloccare le immagini del film: ma ciò sarebbe del tutto assurdo, poichè il film cesserebbe di essere tale, si tramuterebbe in una foto. Nel caso di Heidegger, poi, ricomporre lo spaesamento equivarrebbe a fare dellâopera dâarte un ente fra i tanti, riconducendola ad una mera âcosaâ, quando Heidegger stesso ha spiegato che lâopera dâarte ò qualcosa di più di una cosa (altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, perchè si fanno le esposizioni con le patate o con le melanzane anzichè con i quadri). In rottura con lâintera tradizione occidentale – dalla kaqarsiV aristotelica al kantiano libero gioco delle facoltà , fino alla hegeliana perfetta corrispondenza di interno ed esterno â che aveva sempre concepito lâarte come momento conciliante di sicurezza e di âriappaesamentoâ, Heidegger e Benjamin hanno ravvisato nello âspaesamentoâ il suo tratto costitutivo. Ma se Benjamin ò alquanto fiducioso nei confronti della tecnica e della sua riproducibilità , consapevole di come in essa si annidi un potenziale rivoluzionario, poichè apre alle masse – soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia – l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente, Heidegger ne ò invece un severo critico, muovendo dallâ amara constatazione di arte e tecnica, un tempo coincidenti (nella tecnh dei Greci era compresente sia il significato di âarteâ sia quello di âtecnicaâ, per cui il tempio era frutto tanto di perizia tecnica quanto di estro artistico), sia destinate ad allontanarsi sempre più, fino a che la tecnica non schiaccerà lâarte. Vattimo però nota come sia troppo riduttivo liquidare il problema del rapporto di Heidegger con la tecnica limitandosi ad etichettare il pensatore tedesco come suo nemico: ed ò per questo motivo châegli si propone di approfondire il discorso (addentrandosi nello scritto heideggeriano âIdentità e differenzaâ), scavando in profondità per scoprire se â dietro alla concezione della tecnica come Ge-Stell â non si celi qualcosâaltro. Ciò che affiora da questa indagine ò che âla chance di oltrepassare la metafisica che offre il Ge-Stell ò legata al fatto che, in esso, âuomo ed essere perdono le determinazioni che la metafisica ha loro attribuitoâ (Identità e differenza): la natura non ò più solo il luogo delle leggi necessarie delle âscienze positiveâ, mentre il mondo umano â anchâesso duramente sottoposto alle tecniche di manipolazione â non ò più il complementare e simmetricamente opposto regno della libertà , campo delle âscienze dello spiritoâ. In questo rimescolio di carte, il teatro della metafisica con i suoi ruoli definitivi tramonta, e per questo può darsi una chance di nuovo avvento dellâessereâ. I mass media, dal canto loro, sembrano distruggere lâarte, facendo di essa un evento superficiale e precario, ma mantengono quellâeffetto di âurtoâ riconosciuto da Heidegger e da Benjamin, quella âmobilità e ipersensibilità dei nervi e dellâintelligenza, caratteristica dellâuomo metropolitanoâ (a cui Heidegger e Benjamin guardano, probabilmente, attraverso la mediazione di Simmel), un urto che si esercita anche come spaesante oscillazione tra angoscia e morte. Senza per questo voler riabilitare la società di massa e lâappiattimento da essa generato, Vattimo mette in luce come lâarte prodotta dai mass media possa sì sfociare nel perverso meccanismo di una âfabbrica della culturaâ massificata, ma possa anche deviare verso nuovi orizzonti emancipativi: âlâavvento dei media, infatti, comporta anche una accentuata mobilità e superficialità dellâesperienza, che contrasta con le tendenze alla generalizzazione del dominio, in quanto dà luogo a una specie di âindebolimentoâ della nozione stessa di realtà , con il conseguente indebolimento anche di tutta la sua cogenzaâ. In questo senso, lâarte dellâetà dei mass media, con il suo effetto decisamente urtante e spaesante, capace di gettare confusione e ambiguità anzichè ordine e trasparenza, âpuò configurarsi (non: ancora, ma forse: finalmente) come creatività e libertà â. Con questa constatazione si chiude il capitolo: quello successivo, intitolato âDallâutopia allâ eterotopiaâ, si apre con la dichiarazione che il rapporto tra arte e vita si prospetta oggi non più come utopia (come era negli anni del â68), ma come eterotopia. A proposito di utopia in senso estetico, Vattimo fa una ricca carrellata di pensatori in qualche modo utopisti, fra i quali troviamo Marx, Dewey, Lukà cs, Adorno, Marcuse, Bloch: molti di essi (si pensi a Lukà cs, a Marcuse e ad Adorno soprattutto) essi lâhanno intesa come un riscatto dellâindividuo attraverso lâarte, come un riappropriamento dellâessenza dellâuomo. In questa sua accezione, pertanto, lâutopia devâessere intesa come congiungimento del significato estetico con quello esistenziale, come â per usare le parole di Vattimo â âuna unificazione complessiva di significato estetico e significato esistenzialeâ, dagli esiti tendenzialmente rivoluzionari, il che ò stato vero fino al â68. Dopo tale data, lâutopia ha subito una metamorfosi radicale che le ha fatto perdere le sue caratteristiche portanti: in particolare, con Habermas e il suo costante appellarsi a Kant, pare che si sia decisamente invertita rotta, poichè lâestetico e lâesistenziale sono tornati a correre su due binari paralleli destinati a non incontrarsi mai. Ed ò in questo senso che âHabermas esprime [â¦] la caduta dellâutopia e il ritorno a una tranquilla accettazione della separazione dellâesteticoâ: il suo ritorno a Kant, poi, mette in luce una certa tendenza â non solo habermasiana â emersa dopo il â68, una tendenza (dettata anche dal secco rifiuto del postmoderno da parte di Habermas) al distacco, alla sordità e alla cecità nei riguardi dei processi di massificazione in continuo sviluppo. Lâatteggiamento di cui si fa portavoce il pensatore tedesco di ispirazione kantiana, ma che in realtà finisce per coinvolgere una nutrita schiera di pensatori, può essere definito come un volere a tutti i costi essere ciechi e sordi, un non volersi accorgere che âlâutopia estetica degli anni sessanta, in qualche modo, si sta [â¦] realizzando, in forma distorta e trasformata, sotto i nostri occhiâ. Certo, non si tratta più di unâutopia promotrice di rivoluzioni (quale invece era nel â68), poichè pare essersi adagiata su una sorta di ordine che in passato non câera, ma, piuttosto, di un qualcosa capace di âfare mondoâ e di creare comunità . In tale prospettiva, lâinterpretazione più calzante ed adeguata sarà allora quella formulata da Gadamer, che intende lâesperienza del bello come un riconoscersi in una comunità di fruitori dello stesso tipo di oggetti âbelliâ: essa, infatti, si inquadra perfettamente sullo sfondo della società di massa, nella sua esasperata ricerca dellâ âessere alla modaâ, del vestire come gli altri, del trovare bello ciò che anche gli altri trovano tale, insomma: del bello come esperienza comunitaria. Sarà allora corretto affermare che, crollata lâidea di una storia come processo unitario, con essa ò anche franata la possibilità di unâutopia come sistema unico in cui arte ed esistenza si intrecciano in maniera armonica: da questo cedimento, fioriscono una molteplicità di comunità , ciascuna delle quali riconosce un proprio bello, propri miti e propri modelli, tutti diversi â ma non perciò meno âveriâ – da quelli riconosciuti dalle altre. In ciò si realizza la continua oscillazione spaesante e babelica nella molteplicità , tipica dellâetà postmoderna: non più il bello come esperienza totalizzante propria dellâintera umanità (come era per Kant), ma tante forme di bello promosse da altrettante comunità , poichè quello che chiamiamo âmondoâ ò in realtà una indefinita serie di mondi e di culture, così come quella che siamo abituati a chiamare âstoriaâ altro non ò se non lâinsieme plurale di storie. âIl mondo non ò uno, ma molti; ciò che chiamiamo il mondo ò forse solo lâambito âresidualeâ, e lâorizzonte regolativo (ma con quali problemi) in cui si articolano i mondiâ: da ciò deriva che, più che di unâutopia, si dovrà parlare di unâeterotopia, ossia di un insieme di mondi eteroi, âaltriâ e differenti gli uni dagli altri, poichè âviviamo lâesperienza del bello come riconoscimento di modelli che fanno mondo e che fanno comunità solo nel momento in cui questi mondi e queste comunità si danno esplicitamente come moltepliciâ. Prova ne ò la âmobilità â delle mode, il collezionismo di oggetti di mondi e di culture âaltriâ: ed ò per questo che lâerrore forse più grave che una comunità possa commettere ò avanzare lâassurda pretesa di identificare la propria esperienza, i propri modelli di comunità con quelli dellâumanità intera, scivolando in tal modo nel dogmatismo del âpensiero forteâ. Viceversa, secondo gli insegnamenti di Dilthey e di Heidegger, lâopera dâarte apre mondi diversi e possibili, che non sono solo âimmaginariâ ma che costituiscono lâessere stesso in quanto sono suoi accadimenti implicanti il passaggio dallâutopia allâeterotopia e, accanto a ciò e non senza connessioni, la liberazione dellâornamento e lâalleggerimento dellâessere. Per âliberazione dellâornamentoâ dobbiamo intendere la fine della pretesa dellâarte di essere verità , e, meglio, espressione di una verità metafisicamente intesa che trova spazio sensibile nei versi del poeta, nella tela del pittore o nella sinfonia del musicista: al contrario, lâarte e il bello â lungi dallâessere araldi della verità – sono ornamento, nel senso che aprono rimandi ad altri possibili mondi di vita che, nella fitta rete di collegamenti reciproci, compongono e costituiscono il cosiddetto âmondo realeâ, cosicchò si dovrà definire âKitschâ non ciò che manca di uno stile o di una sua coerenza, ma ciò che avanza la vana pretesa di essere â orazianamente â âmonumentum aere perenniusâ. Ciò ò in perfetta sintonia con quanto ci ha insegnato Heidegger, il quale ci ha messi in guardia smascherando ogni posizione che identificasse tout court – in maniera metafisica – lâessere con i singoli oggetti, facendo dellâessere non âciò che òâ, ma âciò che accadeâ: in questo modo, ò delegittimata ogni nostalgia per lâarte classica e i suoi canoni, lâessere si trova in una situazione di indebolimento e, di conseguenza, dà adito ad una miriade di esperienze estetiche diversificate. Il capitolo che chiude il saggio vattimiano ò intitolato âI limiti della derealizzazioneâ, in apertura del quale il filosofo torinese constata come oramai stiamo vivendo una nuova fase, segnata da grandi innovazioni nel campo dei mass media tali da far appannare lâottimismo mediatico, ossia lâ atteggiamento sinceramente simpatizzante verso il mondo della comunicazione generalizzata: una prima forma di pessimismo, che ha decisamente fatto scricchiolare la fiducia nel mondo mediatico, ò affiorato con la Scuola di Francoforte e con le sue apocalittiche concezioni dei mass media come strumenti di appiattimento della società e soggiogamento ad un potere. Ciò ò anche dovuto al fatto che molti pensatori, ancora legati allâhegelismo (si pensi al marxismo di matrice hegeliana di cui sono imbevuti Marcuse e Adorno), intendono lâemancipazione derivante dalla Bildung come raggiungimento di unâautotrasparenza tale da far sì che il soggetto colga nitidamente, senza interferenze, lâoggetto: ora, i mass media, con il loro produrre un caos labirintico in cui ò possibile districarsi, sembrano andare in direzione opposta e non possono che essere condannati da chi ancora si rifà ad Hegel. Così Adorno guardava con inquietudine alla propaganda nazista attraverso i mass media (soprattutto attraverso la radio), e il âGrande Fratelloâ di Orwell ò lâestrema conseguenza di questo atteggiamento demolitore nei confronti dei media. Eppure â nota Vattimo â con lâavvento dellâelettronica si ò avuto un rovescio della medaglia, poichè al modello unilaterale della radio e della TV degli anni dei totalitarismi, in cui esse erano strumenti meramente univoci, grazie ai quali i grandi dittatori entravano nelle case della gente, ò andato sostituendosi un modello a rete, che ha smarrito ogni centro: così non più una sola radio o una sola TV, ma una molteplicità indefinita di radio e Tv anche locali, in grado di trasmettere unâinfinità di diverse immagini del mondo. La stessa rete internet si configura come una ragnatela che ha sì i suoi gangli vitali, ma che ò assolutamente priva di un centro risalendo al quale sia possibile governare il tutto. Sullo sfondo del clima pessimistico che aleggia in certi ambienti filosofici, si staglia allâorizzonte un nuovo ottimismo, poggiante sulla pluralità mediatica e provato dal recente trionfo dellâermeneutica sulle altre branche della filosofia: lâermeneutica ò assurta a nuova koinh a nuovo linguaggio comune in territorio filosofico, e lâermeneutica ò sovrana solo laddove abbondano le interpretazioni, laddove non vi ò una Verità data, una sorta di stella polare a cui fare costante riferimento; trionfa anzi lâopposizione a tutto ciò che si propone come ritorno allâuno, al singolo, a negazione del plurale ed ò forse seguendo queste orme che Derrida punta tutto sulla decostruzione e sulla dispersione come abbandono di ogni privilegio del âproprioâ. Ma Vattimo nota come lâ ermeneutica, se davvero intende fare del dialogo non un puro e semplice strumento, ma lâobiettivo ultimo, deve portare fino in fondo la âderiva âderealizzanteâ intravista da Nietzscheâ, lâilluminazione del filosofo tedesco secondo cui ânon esistono fatti, ma solo interpretazioniâ. Ma cosa significa, in definitiva, âderealizzazioneâ? Con tale termine Vattimo ci invita a prendere atto di come âil mondo sia un âgioco di interpretazioniâ e niente di più e, in virtù di ciò, come lâermeneutica sia la forma filosofica più adeguata alla temperie culturale in cui ci muoviamo, una forma di filosofia la cui condicio sine qua non ò appunto lâesistenza del mondo mediatico come fabbricatore di punti di vista sul mondo e di sue interpretazioni. La prospettiva venata di pessimismo â propria di Adorno e di parte della Scuola di Francoforte â ò pertanto superata in favore di un nuovo, positivo atteggiamento che â sulla scia di Marcuse e, soprattutto, di Nietzsche vede la tecnologia come strumento di dominio non sullâuomo, ma dellâuomo: âoggi lâumanità deve innalzarsi al livello delle sue possibilità tecnologiche, immaginare un ideale di uomo che tenga conto e utilizzi fino in fondo queste possibilità â. La stessa tecnh – nota Vattimo â si spinge sempre più verso una deriva estetica, abbandonando la sua originaria terra di mera soddisfazione di bisogni e assolvendo una nuova, fondamentale mansione di marca estetica: la tecnica serve sempre più a produrre oggetti volti al soddisfacimento di piaceri e di miglioramento del benessere, dando unâimpronta maggiormente estetizzante alla vita di ciascuno di noi. Non bisogna dunque piangere la derealizzazione come un lutto, ma, viceversa, vedere lâincredibile potenziale emancipativo in essa racchiuso.
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- Filosofia - 1900