Un professore di liceo, dinoccolato, dalla voce suadente, appassionato indagatore di un pensiero filosofico meno canonizzato, più ‘indiscreto’, poetico, fantasioso; un giovane studioso alla ricerca delle parole e dei concetti della filosofia, ma soprattutto della loro emanazione, dell’immagine che ne scaturivano. Era così Henri Bergson quando, a 25 anni, nel 1883 preparò per i suoi studenti un saggio su Lucrezio e il De rerum natura, analizzandone dei brani e lavorando anche sulla lingua del grande poeta-scienziato latino. Poeta, scienziato ma per Bergson soprattutto filosofo e sottile comunicatore di idee, dubbi, stimolazioni intellettuali, al punto che la stessa bellezza dei versi ò come il veicolo gentile di una costante intenzione culturale. ‘ Si figurerà Lucrezio ‘ scrive Bergson nella premessa ‘ come un poeta che ha descritto la vita dei primi uomini, o gli effetti del fulmine, o la peste di Atene, per il piacere di descriverli. Al contrario, Lucrezio ha sempre descritto per dimostrare qualcosa; le sue rappresentazioni meglio riuscite sono destinate unicamente a farci capire, a farci accettare qualche grande principio filosofico ‘. Il poema di Lucrezio ò dunque per Bergson in primo luogo un pensiero con cui confrontarsi, una sfida, anticipatrice di secoli, di una riflessione sulle cose del mondo, della vita, della natura, dei loro fenomeni comprensibili e incomprensibili; una riflessione guidata e sorvegliata da una intelligenza materialistica e atea, attraversata (come ò anche giusto che sia per un poeta vissuto a Roma nel primo secolo avanti Cristo), dall’eco della mitologia e della fascinazione della poesia. ‘ Le idee mitologiche non hanno perso completamente il loro potere sulla mente del poeta. Malgrado egli dichiari che gli dòi non intervengono affatto nel mondo, che tutti gli esseri sono aggregazione di atomi, tutti i fenomeni dei movimenti di atomi, ogni tanto, senza che egli se ne accorga, affiora in lui la concezione pagana di una natura vivente, personificata ‘. Non so se l’inciso bergsoniano ‘ senza che lui se ne accorga ‘ sia l’esatta traduzione del testo (per la prima volta in edizione italiana, Lucrezio ); poichò la lettura plurale che Bergson fa del poema giustifica pienamente l’immaginazione e le finzioni poetiche di Lucrezio come necessarie alla sua visione scientifica e oggettiva della realtà fenomenica. Ed ò evidente che un osservatore come Lucrezio non si lasciasse cogliere di sorpresa da nulla, nemmeno dalla sua poesia. E a questo punto che nell’introduzione di Laura Boella si facesse cenno, per analogia, a Leopardi (che giudicò Lucrezio ‘la prima voce’ dell’epoca latina), avrebbe giovato alla comprensione ‘attuale’ della filosofia tutta particolare e fuori sincrono di Lucrezio, perchò così ò stato anche per il pensiero che struttura la poesia leopardiana. Non a caso Bergson scrive che ‘ ciò che più colpisce nell’opera di Lucrezio ò la profonda malinconia. Il poema della natura ò triste e scoraggiante [… ] I piaceri sono ingannevoli, non vi ò gioia assoluta, e anche da ciò che ò fonte di piacere esala una sorta di amarezza che, in mezzo ai profumi e ai fiori, ci serra la gola. ‘ Tuttavia, di questa natura crudele Lucrezio vuole trarre le ragioni, la ragione del vivere: la poesia può farne cogliere gli elementi angosciosi, la scienza, l’osservazione ne fanno scoprire i misteri e la bellezza. ‘ Particolare ammirevole ‘ scrive Bergson ‘, Lucrezio scorge nella natura, al tempo stesso, ciò che interessa il geometra e ciò che seduce il pittore ‘. Da questa notazione si capisce quanto Lucrezio sia stato la cellula originaria, germinatrice del bergsonismo della ‘materia e memoria’ e della ‘evoluzione creatrice’. Saper vedere più cose in una sola, ò questa la lezione di Lucrezio che Bergson ha estratto come fondamento dello slancio creativo e intuitivo dell’intelligenza umana. Tratto da La Repubblica del 30 agosto 2001.
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