Vita e riassunto generale Nato a Piasco (Cuneo) il 4 febbraio 1918, Luigi Pareyson si laurea in filosofia all’università di Torino nel 1939 e segue i corsi di Karl Jaspers ad Heidelberg. Professore a Cuneo, durante la guerra partecipa alla Resistenza insieme a Pietro Chiodi. Nel 1950 diviene professore ordinario prima a Pavia e poi, dal 1952 al 1988, a Torino, dove insegna Estetica e Filosofia teoretica, succedendo ad Augusto Guzzo. A Torino sono stati suoi allievi Valerio Verra, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Sergio Givone e numerosi altri studiosi italiani. E’ stato accademico dei Lincei, membro delll’Institut international de philosophie e direttore della Rivista di estetica. E’ morto a Rapallo l’8 settembre 1991. Pareyson ò indubbiamente uno dei maggiori filosofi italiani del XX secolo: egli sviluppa l’ esistenzialismo in direzione personalistica, elaborando contemporaneamente un’estetica nella quale ò centrale la considerazione del momento formativo della produzione artistica. Su questo presupposto, egli ha anche costruito una teoria dell’interpretazione come ” conoscenza di forme da parte di persone “, infinitamente molteplice nella molteplicità delle prospettive personali, ciascuna delle quali ò in rapporto costitutivo con la verità . Egli ò approdato infine ad una forma di pensiero “tragico”, preoccupato del problema del male, che ha le sue radici nella libertà che permea la stessa essenza di Dio. Che Pareyson fosse destinato a divenire un grande filosofo lo si comprese presto. Nel 1937, ad esempio, presentò una esercitazione scritta a un seminario universitario del suo maestro Augusto Guzzo, dal 1934 titolare della cattedra di filosofia morale all’Università di Torino. Questi, apprezzandola, la fece leggere a Giovani Gentile, in quanto all’epoca direttore della maggiore rivista italiana di filosofia, il “Giornale critico della filosofia italiana”. Stupito per la profondità e l’originalità del testo, Gentile chiese a Guzzo di quale filosofo torinese si trattasse, non pensando certo ad un diciannovenne. Nel 1938 uscì quindi sulla rivista di gentile la prima pubblicazione di Pareyson, le famose Note sulla filosofia dell’esperienza. E proprio del particolare rapporto di Pareyson con l’esistenzialismo ò possibile avviare un tentativo di comprensione della sua originalità nell’ambito della filosofia novecentesca. Pareyson fu il primo filosofo a far conoscere in Italia la filosofia dell’esistenza, tedesca soprattutto, sviluppando egli stesso una forma personalistica ed ontologica di esistenzialismo. Con irruente purezza e semplicità giovanile Pareyson ruppe l’unico coro neo-idealista (rarissime eccezioni degli isolati, se non esiliati, quali Giuseppe Rensi, Piero Martinetti, Adriano Tilgher) – unente sino ad allora, nelle figure esemplari di Gentile, Croce e Gramsci, accademia soggetta al regime, pubblicistica liberale, opposizione politica incarcerata – presentando l’esistenzialismo non solo come filosofia capace di comprendere le tragiche problematiche contemporanee: fatte di guerra e sofferenza, di fallimento dei totalitarismi politici e intellettuali, dei falsi egualitarismi collettivi, nelle varie versioni borghesi, cameratesche, comuniste, ma anche come antidoto radicale alle filosofie e ideologie ottocentesche all’origine delle catastrofi novecentesche, cogliendo in Kierkegaard il padre dell’esistenzialismo e la vera alternativa a Hegel, così rinvigorendo per giunta le pure fonti religiose dello stesso ateismo esistenzialista novecentesco, nonchè aprendo nuove prospettive di lettura e comprensione di profonde correnti di pensiero e filosofi tacitati dall’hegelismo imperante, quali l’idealismo e il romanticismo, Fichte e Schelling in particolare. Sin dalle sue prime opere: La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers (1939, 1940), Studi sull’esistenzialismo (1943, 1950), Esistenza e persona (1950), Pareyson individua quello che sarà il nucleo incandescente alimentante perennemente il suo pensiero successivo, nei suoi continui approfondimenti ulteriori, ereditandolo dalla concezione di Kierkegaard dell’esistenza come coincidenza paradossale di autorelazione ed eterorelazione. Varco di accesso non solo alla mia vita personale, ma alla realtà in genere, ò l’esistenza: l’esistenza di questo singolo che io sono. Tuttavia il singolo non ò un separato individuo, soggetto assolutamente autonomo e autosussistente. L’esistenza ò, in quanto tale, coincidenza di ciò che parrebbe non poter coincidere – e che ò quindi coincidente in modo paradossale -, paradossale coincidenza cioò non necessaria articolazione o relazione – di autorelazione ed eterorelazione, della relazione con sè, autofondantesi, che ogni singola esistenza ò, e della relazione con altro, che altrettanto imprescindibilmente, seppur coincidente in maniera paradossale, essa stessa ò. L’esistenza ò se stessa e comprende se stessa in quanto ò in relazione con altro e comprende l’altro, e viceversa. Secondo questa profonda radice kierkegaardiana dell’esistenzialismo, Pareyson propone quindi la propria autentica versione di esso come esistenzialismo personalistico e ontologico. Personalistico perchè ò la singola persona vivente, non un astratto a priori trascendentale o esistenziale, a qualificare l’esistenza e la sua inaggirabilità , pena l’intransitabilità di qualsivoglia minimo senso della realtà e della vita umana. Ontologico perchè ò nell’apertura all’essere che ci trascende, che mi trascende, che io posso scegliere ed essere me stesso. Che l’esistenzialismo non possa che essere personalistico e che il personalismo non possa che essere ontologico ci dice allora che l’esistenza ò quia talis apertura di trascendenza, quindi possibilità di esperienza religiosa. Infatti che l’esistenza sia paradossale coincidenza nel tempo di autorelazione e di eterorelazione mostra quanto la relazione con sè, nell’apertura alla relazione con altro, che ogni singolo ò non possa esistere se non in quanto posta, istituita, donata a se stessa e al suo aprirsi all’alterità da una trascendenza che ò tale non in quanto posta dalla autorelazione coincidente con la eterorelazione, ma perchè trascendente la stessa relazione, e nel momento stesso in cui istituisca tale relazione, cioò perchè ò l’irrelativo che pone la relazione fra il relativo e l’irrelativo stesso, quindi senza cessare di essere irrelativo nell’istituire liberamente il relativo come possibile relazione con l’irrelativo. Grazie a questo ritorno a Kierkegaard Pareyson può risalire la nefasta storia degli effetti hegeliana. Leggendo la filosofia e la storia contemporanea come dissoluzione dell’hegelismo, Pareyson ne individua due correnti, quella risalente a Kierkegaard, che conduce all’esistenzialismo, e quella che attraverso Feuerbach giunge sino al marxismo e all’attualismo. Kierkegaard dissolve il sistema hegeliano negando l’identità fra pensiero e realtà , la conciliazione dialettica fra storia ed eternità , ancorando ogni possibile verità alla soggettività del singolo, incoercibile a qualsivoglia sistema assoluto del sapere. Tuttavia, a detta di Pareyson, mantenendo la concezione negativa del finito, tipicamente luterana, già propria a Hegel. Feuerbach risolve invece la filosofia di Hegel antropomorfizzandone gli aspetti più ideali, riducendo a ciò che ò reale il razionale e il reale a ciò che ò sensibilmente percepibile o desiderabile. Tuttavia la posizione atea di Feuerbach e dei suoi epigoni ò ricomprendibile, in un orizzonte più ampio, nella kierkegaardiana, nella concezione dell’esistenza come innanzi tutto autorelazione, che se inospitale giunge alla disperazione, malattia mortale, e se invece aperta nella eterorelazione alla trascendenza, ed eventualmente all’esperienza religiosa, possibile nella sua stessa misura finita e temporale, corrisponde alle questioni stesse dell’ateismo, assumendolo in sè e vincendone tuttavia l’egoismo mortale. Ecco che ritornare a Kierkegaard e all’origine teorica delle vicende contemporanee significa per Pareyson porsi nuovamente e più consapevolmente ancora di fronte al dilemma: pro o contro il cristianesimo? E per Pareyson si tratta di scegliere un cristianesimo tragico, dialettico, paradossale, esso soltanto capace di dare risposta alla deriva atea del pensiero e della storia contemporanea, vivendo e vincendo l’ateismo in sè, sino alla morte in croce per rivelare nella abissale libertà dell’uomo la eterna libertà che ò Dio. L’ontologicità dell’esistenzialismo, la apertura alla trascendenza dell’essere, prima ancora che alla libertà di Dio, dell’autocomprendersi dell’esistenza umana, conduce inevitabilmente Pareyson, come già Heidegger prima di lui, ad approfondire il proprio esistenzialismo in filosofia ermeneutica, che intenda l’esistenza in quanto tale come comprensione dell’essere trascendente. Prima che Gadamer e Ricoeur, i due più noti filosofi ermeneutici dopo Heidegger, Pareyson elaborò negli anni quaranta e cinquanta una propria filosofia dell’interpretazione o ermeneutica. Oltre che in Esistenza e persona (1950) e in articoli precedenti, i risultati maturi di tale elaborazione sono contenuti in Estetica. Teoria della formatività (1954) e infine in Verità e interpretazione (1971), opera che chiude questo secondo periodo ermeneutico nel cammino di pensiero di Pareyson. Se la realtà ò accessibile solo e sempre singolarmente, attraverso l’esistenza personale che io sono, ogni mio atto o pensiero o esserci ò interpretazione, personale incarnazione dell’essere che trascende la mia situazione. Non che l’interpretazione sia parziale attingimento dell’essere, bensì ogni vera e autentica interpretazione ò il darsi stesso dell’essere in essa: essere che non sta quindi come un oggetto intangibile al di là delle proprie interpretazioni, e che tuttavia non si riduce alle interpretazioni, non ne ò esaurito, ma mantiene la propria differenza ontologica. Qui sta lo specifico della posizione di Pareyson rispetto a gran parte delle restanti filosofie ermeneutiche: il mantenimento, anzi la sottolineatura della imprescindibilità della verità per una concezione interpretativa della realtà . L’ermeneutica non solo non mette in crisi, ma cerca di comprendere ed esige ancora più fortemente di ogni altra filosofia la verità . Perchè la verità trascendente e assieme immanente alle sue esistenziali e personali interpretazioni non si riduca a ideologia, a mera espressione della condizionatezza storica dell’interprete, anzichè mostrarsi simultaneamente a ciò anche rivelazione di inesauribile e inoggettivabile ulteriorità , essa non può tuttavia esser semplicemente intesa come fonte incessante eppure imperscrutabile suscitatrice di infinite interpretazioni proprio approfondendo la concezione ermeneutica della verità attraverso un riattingimento delle proprie origini esistenzialistiche, Pareyson nell’ultima tappa del suo pensiero si dedica all’elaborazione di una ontologia della libertà , un discorso sull’essere che lo intenda come libertà . Libertà quindi non solo in quanto primaria essenza della esistenza umana, ma anche nel suo significato originario, metafisico, ontologico: l’essere stesso come libertà . Infatti solo comprendendo l’essere come libertà se ne potrà rivelare pienamente la trascendenza veritativa: una necessità logica o semplicemente eventuale, quale l’inesauribile e inesorabile imperscrutabile darsi dell’essere, ne legherebbe circolarmente al finito ogni possibilità di eccedenza significativa. Solo se l’essere trascendente ò libero di darsi o di non darsi in una forma finita, solo se l’irrelativo ò libero di porsi o di non porsi nella relazione che esso stesso istituisce, e in un istituirla che non sia un vincolarvisi necessitante, la verità non ò fagocitata dall’interpretazione nè l’infinito reso vuoto prodotto del finito. Si raccolgono in estrema concentrazione, lungo tutta l’ultima tappa del cammino filosofico di Pareyson, il suo esistenzialismo personalistico, la sua ermeneutica veritativa e la sua ontologia della libertà (originaria e finita, indivisibilmente), capaci assieme della forza per affrontare la scoscesa realtà della sofferenza e del male. In opere uscite, nella loro complessività , postume, come Dostoevskij (1993), Ontologia della libertà (1995), Essere libertà ambiguità (1998), Pareyson ripropone quindi una coraggiosa teoria dell’essere, una ontologia, ma non nel comune senso necessitaristico della cosa, bensì un’ontologia della libertà , che comprenda l’essere originario stesso come libertà . Libertà assolutamente iniziale, arbitraria, imperscrutabile, eppure ontologica, propria all’essere stesso nella sua eterna positività , indiscutibile e immemorabilmente attuale. Pareyson concepisce paradossalmente e dialetticamente la libertà come inizio e assieme come scelta, unità originaria irrevocabile in Dio di inizio e scelta, di eternità e unicità nell’iniziare, se stessa e ogni altro ente o creatura, e di assolutezza e arbitrio positivo nello scegliere: nel decidere quindi di essere il bene e l’essere dall’eternità e per l’eternità , significante simultaneamente e retroproiettivamente l’esclusione e la vittoria sul male e il nonessere, posti nell’atto di sconfiggerli e senza che alcuna alternativa precedesse tale eterna e irrevocabilmente positiva autooriginazione divina. Ma in quanto ontologica, caratterizzante essenzialmente l’essere stesso, la libertà implica allora l’indivisibilità della libertà umana e divina. E se in Dio la libertà (originaria) ò unità eterna e indissolubile e positiva di inizio e scelta: sconfitta del male e vittoria sul nonessere solo in quanto autoposizione nello scegliersi come bene ed essere, tuttavia nell’uomo la libertà (finita) ò solo coincidenza di inizio e scelta, paradossale coincidenza nella finitezza esistenziale di tempo ed eternità , autorelazione ed eterorelazione. Cosicchè quel male eternamente vinto in Dio, senza che ne precedesse temporalmente o ontologicamente l’eterna autopositività , nell’uomo dallo stato latente può essere riattivato, essendo l’eterna e irrevocabile unità divina nell’uomo solo coincidenza temporale sempre faticosamente da realizzare. Da qui la sofferenza quale creaturale schiavitù alla caducità , il male come realtà pienamente umana, frutto di esistenziale libertà : non corrodente l’essere divino stesso, al punto da farne fallire il progetto di autooriginazione come positività , irrevocabile anche nel suo estendersi alla creazione dell’altro da Dio facendo kenotico spazio in sè, dell’universo creato con a suo radicalmente libero vertice l’uomo, tuttavia capace di sospenderne indefinitivamente la compiuta realizzazione. Eppure, elaborando intrecciata alla propria esistenza una ermeneutica filosofica dell’esperienza religiosa cristiana, Pareyson riesce con estremo e umile atto esistenzialmente speculativo ad ascoltare la tacita presenza del Cristo sulla terra come rivelazione, attraverso la sofferenza, dell’unione cosmoteandrica che vincola uomini, creature, Dio in un’unica vicenda segnata sì tragicamente dall’abissalità della morte e del male, ma anche riscattabile mediante l’energia e la scommessa del balzo della libertà . Il pensiero Personalismo ontologico, espressione e rivelazione, interpretazione: Il panorama filosofico in cui si muove Luigi Pareyson (Piasco 1918, Milano 1991) ò l’ esistenzialismo (o, forse più propriamente, la filosofia dell’esistenza); non però un esistenzialismo vittimistico, nè materialistico o immanentistico, nè spiritualistico, nè nichilistico. Pareyson adotta il termine di personalismo ontologico: l’uomo, da un lato, ò costitutivamente apertura verso l’essere, rapporto ontologico; dall’altro, non ò nè individuo singolo nè funzione della società , bensì propriamente persona, ovvero fusione di apertura ontologica (aspetto universale) e di carattere storico (aspetto particolare). Non unicamente trascendenza (perderemmo la ricchezza e l’unicità della singola esistenza concreta), non unicamente storicità (perderemmo la speranza del dialogo alla luce di un qualche principio universale). L’uomo ò persona, e la persona ò rapporto verso l’essere, ed ha storia (non ha l’essere, non lo possiede interamente; non ò storia, non si riduce alla storicità dell’esistenza). La stessa filosofia non può essere semplice pensiero espressivo, portavoce unicamente dell’aspetto storico e particolare dell’esistenza umana, ma deve essere invece pensiero rivelativo, al tempo stesso ascolto dell’essere e considerazione della storicità umana. Dimentico della verità dell’essere, il pensiero espressivo distorce la natura dell’uomo e diviene pensiero strumentale, vuota ideologia, occasione per la volontà di potenza. Come può essere conosciuta la verità ? Non la si può possedere interamente, in quanto trascendente; ma non siamo neppure condannati all’assoluto silenzio, poichè ò la verità stessa che si offre al nostro ascolto. D’altro canto, non ò che la conoscenza della verità sia talmente ardua da divenire sostanzialmente vana ed impossibile: nel conoscerla, la possediamo davvero, per quanto non la esauriamo, così come ad una sorgente inesauribile ci si abbevera davvero, ma non la si finisce. La verità si dona a noi, ma nessuno può dire di possederla del tutto, nè di essere l’unico a possederla; la verità si nasconde, ma nessuno deve scoraggiarsi dal cercarla ponendosi in ascolto. Una tale forma di conoscenza ò l’ interpretazione. E’ interpretazione della verità , non arbitraria espressione del soggetto; ò sempre personale, cioò accompagna l’aspetto rivelativo con quello espressivo, per cui la storicità del soggetto, lungi dal corrompere la conoscenza o dal farci cadere nel relativismo, ò piuttosto lo strumento prezioso con cui possiamo penetrare la verità ; ò dialettica di presenza e nascondimento della verità ; ò rispettosa delle altrui interpretazioni, essendo il dialogo possibile (unica ò la verità ) e necessario (come strumento della sociabilità umana); ò testimonianza personale, richiedendo che il soggetto scelga, scommetta, metta in gioco se stesso, senza sufficienza, presunzione, scetticismo. Una siffatta conoscenza interpretativa mette capo ad una teoria ermeneutica dal carattere insieme ontologico e personalistico (sulla quale Pareyson ha modellato anche una originale teoria estetica della formatività , su cui non ci soffermiamo). Probabilmente, il rischio costante di tale impostazione ò quello del relativismo; ma non si deve chiedere alla filosofia di essere ricetta univoca e sistematica per risolvere le controversie, altrimenti cadremmo di nuovo in un pensiero strumentale, tecnico, ideologico. Ogni interpretazione ò un impegno personale, e il dialogo fra gli uomini ò cosa ardua senza soluzioni precostituite, con il costante rischio della sconfitta. La risposta va cercata di continuo, questa ò la responsabilità dell’esistenza. Filosofia della libertà ed ermeneutica dell’esperienza religiosa: Ora, alla luce di quanto detto a proposito di personalismo ontologico, di pensiero rivelativo e di ermeneutica, qual ò la filosofia possibile? Innanzitutto una filosofia che sia universalizzante e rivelativa, e non solo storicistica ed espressiva dei tempi che cambiano; e ciò ò possibile, ammettendo la presenza non muta della verità . In secondo luogo, la filosofia non può più ambire ad essere oggettivante, assolutamente razionalistica, astratta. Non oggettivante perchè l’essere e la verità non possono venire rinchiusi nelle definizioni e nelle categorie umane; l’uomo partecipa dell’essere, ò rapporto con l’essere, benchè non sia l’essere, da cui invece ò sempre trasceso, e incommensurabilmente distanziato. Non razionalistica, in senso assoluto ad acritico, perchè di nuovo l’essere non può essere limitato negli angusti recinti della ragione umana; e non si può muovere a tal proposito l’accusa di irrazionalismo o superstizione, giacchè ò semmai il razionalismo acritico a peccare irrimediabilmente di cecità , nel momento in cui non vuole, anzi non può riconoscere la premessa gratuita e non razionale che ne sta alla base, ovvero il principio che tutto sia conoscibile razionalmente (se non ora, in futuro). Non astratta, poichè la filosofia deve in primo luogo rendere conto dell’esistenza concreta dell’uomo, senza perdersi in fantasiosi sistemi totalizzanti che pretendono di spiegare l’universo e Dio, mentre finiscono per dimenticare chi ò l’uomo, con le sue speranze e i suoi drammi. Soprattutto, per poter sperare di capire la natura delle vicende dell’intero universo e della storia umana in particolare, la filosofia non può più essere necessitaristica. La necessità ò uno strumento comodo per imbrigliare la realtà e l’essere stesso in un qualche principio di ragione, per alleggerire la coscienza morale affidandosi all’inevitabilità del fato, per eludere l’incombente problema del male, per giustificare azioni prepotenti. E’ un peso legato al collo di Dio, del cosmo e dell’uomo. Ciò che invece va riscoperta – e Pareyson lo fa rileggendo e correggendo l’ultimo Schelling e Heidegger – ò la libertà . Libero ò l’agire di Dio, le cui azioni arbitrarie l’uomo non ò degno di giudicare; libertà ò l’essenza di Dio, che fu libero di scegliere il suo stesso essere, senza essere vincolato da alcuna legge di necessità ; libertà ò il cuore del reale, senza alcun fondamento metafisico, a cui si oppone semmai il nulla, non in senso nichilistico, ma come abisso assoluto che precede il primo atto libero di Dio, la sua autooriginazione (così come dire che Dio ò il nostro nulla, cioò ò totalmente altro dall’uomo, non implica alcuna caduta nichilistica); libera ò la caduta dell’uomo, e tutta dell’uomo la responsabilità del peccato e del male reale; libero ò il sacrificio di Cristo per assumere su di sò il peccato e la sofferenza dell’uomo e per redimerli; libero ò ogni atto umano, nella scelta per l’essere o contro l’essere; libero ò ogni evento, e cioò irruzione nella realtà , non prevista da alcuna possibilità e non schiava di alcuna necessità ; la stessa situazione storica in cui l’uomo vive va pensata non tanto come prigione ed impedimento, quanto come occasione, spunto, suggerimento, appello alla libertà , punto di partenza e non di arrivo; la realtà non ò com’ò perchè così deve essere, ma deve essere com’ò perchè così ò. Naturalmente ò evidente la natura tragica della libertà , della costante scelta fra le alternative, dell’inevitabile responsabilità delle proprie azioni, dell’incombente rischio del fallimento. E la stessa rinuncia alla libertà , ò già una presa di posizione, una scelta, un atto di libertà . Siamo allora non in una ontologia della necessità , e nemmeno in una ontologia del nulla, ma in una ontologia della libertà , più agile e più fedele alla tragicità dell’esistenza umana del necessitarismo, più costruttiva del nichilismo. Se la libertà ò il cuore del reale, allora la filosofia non può essere dimostrativa, non deve cercare leggi necessarie che spieghino alcun determinismo. La realtà , divina ed umana, ò costituita di fatti, di eventi, ò una storia libera di cui non si può teorizzare, ma di cui invece si deve narrare. E quando ci si avvicina all’agire divino e alla sua relazione con l’uomo, il compito di narrare gli eventi ò affidato al mito. Mito non inteso come espressione irrazionale, arbitraria, superstiziosa: invece come unico modo di parlare di fatti che sfuggono alla ragione umana, senza però disperderne la carica rivelativa. Come nell’interpretazione, il mito fonde armonicamente la verità rivelata e l’espressione storica, artistica, fantastica. Il mito non fa violenza alla ragione, ma diventa l’unica via di accesso ad una verità che non può essere dimostrata, pena fare violenza alla verità . E senza ancora uscire dalla filosofia, che resta pensiero razionale e rigoroso, possiamo indagare la rivelatività del mito cercando di interpretarlo, cercando di attingere alla verità non già per trasformarla in dimostrazione scientifica, bensì per problematizzarla, interrogarla, universalizzarla. Questo ò quanto si propone di fare Pareyson negli ultimi scritti, attraverso l’ ermeneutica dell’esperienza religiosa (del cristianesimo in particolare). Il problema del male in Dio, nell’uomo e nel mondo: Questa filosofia, che chiaramente si contrappone alla tradizione metafisica culminata in Hegel, porta in dote la capacità di ammettere l’esistenza del male, di comprenderlo, di darne ragione. Finchè il pensiero ò ancorato all’idea della necessità , e dell’essere come qualcosa di oggettivo a cui affibbiare le varie idee umane di perfezione, il male non può esistere: tutto ò razionale, tutto ò previsto, tutto ò necessario alla storia, tutto ò giustificato, tutto ò com’ò perchè così deve essere. Al più il male ò semplice sofferenza, al più ò privazione dell’essere. Ma il male che si presenta nel mondo quale forza negativa e distruttrice, che non dovrebbe essere ma ò, non viene e non può venire ammesso. Ciò che avviene invece nell’ontologia della libertà : ogni atto ò atto di libertà , ò scelta, e la scelta può avvenire per l’essere, o contro l’essere. Ecco il male reale: non come semplice privazione dell’essere, ma come consapevole rivolta contro l’essere. Il male compare a livello di pura possibilità già nell’autooriginazione divina: scegliendo di esistere Dio sceglie il bene, e scarta il male (non esistere); Dio esclude per sempre la possibilità del male che gli si presenta; Dio vince per sempre il male. Ma questo male possibile ò come un’ombra in Dio, nel senso che ò una possibilità sopita pronta ad essere ridestata (Pareyson usa l’espressione efficace ma ambigua di “male in Dio”, rischiando di far credere in un Dio demonizzato). Sarà l’uomo, liberamente, a cogliere questa possibilità , a ribellarsi a Dio, a realizzare realmente il male, finora solo possibile; e con la caduta dell’uomo fallisce la creazione, subentrano la storia e la morte, il male si insedia nel cuore della realtà . Il male si accumula sempre più, travolgendo il mondo, e l’umanità intera ne ò responsabile, ò solidale nel peccato. Ma il male può essere vinto. Da parte dell’uomo, l’unica opposizione al male ò data dalla sofferenza: che non ò solo punizione per il peccato commesso, ma diviene strumento di espiazione, al di là della logica retributiva per cui ogni uomo dovrebbe soffrire solo per le colpe individuali e determinate commesse da lui stesso. Invece nessuno ò innocente, e ciascuno deve soffrire per lavare la colpa dell’umanità intera. Ma l’uomo da solo non potrebbe compensare il male commesso ed accumulato con la sofferenza patita; occorre che addirittura Dio si faccia carico del male destato dall’uomo, assuma su di sò il peccato, divenga sofferente, si faccia mortale e patisca sulla croce; e qui, al culmine del sacrificio divino, il Cristo grida, chiede ragione al Padre, e ottiene solo silenzio: Dio abbandonato da Dio, Dio contro Dio. E’ qui che la sofferenza, di per sò negativa, viene completamente ribaltata e diventa strumento per fare il bene, per riscattare il male, per tornare all’essere. E’ la sofferenza di Dio stesso, ò la passione di Cristo a rendere sopportabile la sofferenza umana, altrimenti disperata e vana. Così, il solo modo per dare ragione del male e della tragedia umana (e divina) ò nel cristianesimo (altre filosofie negano il male; altre religioni negano non solo il male ma l’intera realtà , che sarebbe illusoria); e il cristianesimo trova una vera risposta positiva al problema del male, e pure un autentico rapporto con Dio, solo attraverso la cristologia, e non tramite una metafisica oggettivante. Il cristianesimo indicato da Pareyson ò quello arricchito dalle meditazioni di Pascal e Kierkegaard e dalla sensibilità di Dostoevskij; ò un cristianesimo attuale e problematico, che deve capire i problemi dell’uomo moderno per dare loro la risposta più convincente; ò un cristianesimo della sofferenza, ma non masochistico o lamentoso, in contrapposizione a certo spiritualismo annacquato; ò un cristianesimo consapevole della tragicità dell’esistenza, in contrapposizione a certo facile ed ingenuo ottimismo; ò un cristianesimo che si rende conto della scelta sofferta e continua che richiede la testimonianza di fede, in contrapposizione ai molti cristiani nominali per abitudine; ò un cristianesimo dialettico, non nel senso hegeliano, per cui ci sarebbe sempre una sintesi pronta a dissolvere lo scontro dei contrari, ma nel senso del dualismo pascaliano, per cui permane la tensione dei contrari, ciascuno dei quali ò veritativo solo se accostato al proprio opposto (così la sofferenza e il sacrificio di Cristo sono inseparabili dalla redenzione e dalla resurrezione); ò un cristianesimo non fatalistico, e quindi necessitaristico, ma consapevole della libertà di Dio e dell’uomo, e delle conseguenze che derivano dalle libere scelte (Dio ha vinto il male per sempre, l’uomo ha scelto il male); ò un cristianesimo che si oppone con forza al tentativo di essere secolarizzato e ridotto ad una morale e ad una espressione storica. Cristianesimo e pensiero tragico: Siamo quindi all’interno di un pensiero tragico, nel senso che non risolve le contraddizioni radicate nella realtà (anzi si ispira al paradosso kierkegaardiano come categoria logica della verità rivelata), ammette l’esistenza sia di Dio sia del male, e vede nella sofferenza, umana e divina, il solo modo per riscattare e vincere il male. Questo pensiero tragico si oppone alla teodicea, sistema filosofico tradizionale che cerca di conciliare l’onnipotenza di Dio con la sua infinita bontà , tramite la concezione del male come semplice privazione dell’essere; la teodicea ha un duro avversario in quell’ateismo che arriva a negare Dio in forza dell’esistenza del male, un male reale, che sarebbe incompatibile con l’esistenza di Dio. Ma il fatto ò che l’esistenza di Dio non ò incompatibile con quella del male, anzi ne ò imprescindibile: il male reale esiste in quanto rivolta contro Dio; e il Dio-libertà e non necessario, il Dio vivente, prevede la possibilità (scartata da lui, accolta dall’uomo) della trasgressione e quindi del male. Allora, combinando i termini “esistenza di Dio” ed “esistenza del male” nelle varie possibilità , otteniamo quattro tipiche correnti di pensiero: nel cristianesimo esiste Dio ed esiste il male; nella teodicea esiste Dio ma non esiste il male (reale); nel nichilismo classico esiste il male ma non esiste Dio (termini che come visto sopra sono in realtà inseparabili); infine, c’e’ la possibilità dell’inesistenza tanto di Dio quanto del male. Quest’ultima ò la via del nichilismo consolatorio, dell’ateismo confortevole: non più tragicità , non più sofferenza, non più negatività . Resta da vedere quanto questa visione del mondo possa realmente essere compatibile con l’esperienza concreta dell’uomo. A meno di invocare l’illusorietà del dolore e infine della realtà stessa, come in molte religioni orientali; o di degradare il peccato a semplice senso di colpa, come nello psicologismo; o di sostituire la responsabilità con la necessità del fato, come nel paganesimo; o di dissolvere la tragicità in un disincantato naturalismo secondo cui la morte e il dolore sono eventi semplicemente naturali e necessari. Non così nel cristianesimo, il quale non nega la realtà tragica, ma la accetta, e le offre una soluzione grazie alla salvezza in Cristo; e non rifiuta la sofferenza, ma la assume, senza evitarla, e senza tentare di annullarla in una rassegnazione stoica in fondo più facile della sopportazione e della accettazione della propria condizione di peccatori sofferenti. Le lezioni di Napoli Schema riassuntivo delle Lezioni tenute da Pareyson presso l’Istituto italiano per gli studi filosofici dal 26 al 30 aprile 1988, sul tema “Filosofia della libertà “. Queste lezioni sono significative in quanto costituiscono un denso ma chiaro compendio del principale nucleo speculativo del pensiero pareysoniano, quello facente capo all’ontologia della libertà . Questi miei appunti sono evidentemente alquanto schematici, ed hanno appunto la funzione di evidenziare in maniera immediata le principali considerazioni avanzate da Pareyson. Per una lettura più piacevole e completa, rimando naturalmente alla fonte originaria, in particolare alla versione che appare in Ontologia della libertà (versione a sua volta basata sulle registrazioni delle Lezioni, sugli appunti utilizzati da Pareyson durante l’esposizione e su quelli manoscritti da A. Magris e F. Tomatis: le uniche tracce di quel convegno, altrimenti inedito). Nella I lezione si discute dell’esistenza umana fra attività e passività , dono e consenso, e come rapporto verso l’essere, e quindi di essere e libertà ; nella II lezione si tratta di libertà originaria, in Dio e nell’uomo; nella III lezione invece la libertà ò vista in quanto scelta, da Dio e dall’uomo; infine la IV lezione affronta il problema della dialettica fra eternità e storia, chiarendo il ruolo della sofferenza. Alcune note. Le considerazioni antropologiche della I lezione risalgono ad Esistenza e Persona; invece le argomentazioni che riguardano più specificamente l’ontologia della libertà e il problema del male sono state approfondite durante gli anni 80. Considerazioni ulteriori sull’escatologia sono riportate come “frammenti” in Ontologia della libertà . L’ermeneutica religiosa specificamente affrontata da Pareyson riguarda Ebraismo e Cristianesimo. Altrove (La filosofia e il problema del male, in Ontologia della libertà , pag. 165-66) l’autore osserva: “… qui non si tratta d’un’indagine di storia della cultura, ma d’un’ermeneutica esistenziale… se fossimo in Asia cominceremmo col non parlare di fallimento della filosofia e di necessario ricorso al mito, perchè queste due operazioni sono pensabili solo all’interno della nostra tradizione cristiana nè avrebbero alcun senso all’interno dell’induismo o del buddismo… l’ermeneutica della coscienza religiosa qui proposta suppone che la riflessione sia portata non su una scena culturale oggettivabile e astratta, ma su un’esperienza esistenziale, concreta e personalmente vissuta… fa parte dell’essenza stessa della religione il suo nesso esistenziale con chi la professa. Per prospettarla nella sua vera natura bisogna vederla come assunta all’interno d’una tradizione storica e d’una situazione personale, come adottata con una scelta esistenziale inseparabile dalla nostra sostanza personale e storica… “. I riferimenti di sapore gnostico che hanno fatto pensare a Pareyson quale pensatore non molto ortodosso (rispetto al Cattolicesimo in particolare) sono quelli del male in Dio (vedi lezione III; mi pare che sia evidente la limitazione del male in Dio a mera possibilità , come dire che il male in Dio ò banalmente l’opportunità data all’uomo di rivoltarsi a Dio, di non sceglierlo: una cosa inevitabile, direi, solo per il fatto dell’esistenza di Dio, e per la libertà donata all’uomo; se Dio non fosse, non si parlerebbe di male poichè tutto sarebbe indistintamente male; quindi il male come possibilità ò figlio dell’esistenza di Dio e della libertà dell’uomo) e dell’apocatastasi (vedi lezione IV; personalmente non vedo l’esigenza teorica dell’introduzione di questo argomento da parte di Pareyson; mi pare anzi che l’annientamento del male possa essere una violazione alla libertà umana di non scegliere Dio, contraria allo spirito che accompagna le riflessioni fin lì fatte; naturalmente Pareyson stesso se ne avvede, ma insiste nel ritenere incompleta la redenzione senza questo ulteriore passo). ——————————————————————————– Lezione I: Libertà e Situazione La filosofia della libertà inizia con Cartesio, restando però legata ad idee necessitaristiche (meccanicistiche, oppure razionalistiche e monistiche, ad esempio con Spinoza ed Hegel). Dopo Hegel, la filosofia della libertà segue le orme dei prehegeliani Kant e Fichte da un lato, e dei dissolutori dell’hegelismo Kierkegaard e Feuerbach dall’altro; Schelling riassume entrambe le posizioni. Uomo vs Essere: l’essere ò irrelativo, pone il rapporto con l’uomo l’uomo ò relativo, ò rapporto con l’essere (non conosco mai l’essere direttamente, ma sempre attraverso l’uomo: per Jaspers conosco la trascendenza solo attraverso la mia esistenza; per Marcel l’essere non ò “problema” ma “mistero” che mette in questione noi stessi) quindi abbiamo coincidenza di autorelazione ed eterorelazione Due interpretazioni: Attività vs Passività c’ò passività nella situazione, ma pure nella libertà (a cui siamo costretti) questa passività , se vista come appello alla libertà , apertura ontologica, diventa attività quindi nell’uomo c’ò sintesi di recettività e attività Dono vs Consenso la libertà ò ad un tempo iniziata (data all’uomo) e iniziativa (dell’uomo), e ciò accade all’unisono, non l’una prima dell’altra: dono e consenso insieme (dono di me a me) di nuovo, abbiamo sintesi di recettività e attività Ma la passività ò solo un diaframma tra l’atto di libertà come donazione e l’appello alla libertà donata: c’ò comunque solo libertà nell’esistenza, non necessità . Libertà ed Essere: inseparabili (la libertà non ò puro agire abbandonato a se stesso, ma ò legata all’essere: suo consenso o suo rifiuto; l’essere si affida alla libertà , non perchè le si abbandoni, ma perchè le fa appello per essere accettato o rifiutato; ma questa libertà ò sempre illimitata, ò rischio costante di negarsi: non c’ò alcuna legge o garanzia razionalistica; solo la libertà precede la libertà ) anzi convertibili fra loro Fin qui giunge la filosofia. Per andare oltre si deve ricorrere all’ermeneutica del mito, ovvero alla riflessione sull’esperienza religiosa, per trarne non contenuti, ma significati da universalizzare; non sostituendo il logos al mito: il mito dice cose che solo così si possono dire, cose di cui si può solo narrare; la filosofia ne trae solo spunto per problematizzare. Lezione II: Libertà e Trascendenza Esperienza religiosa: ò tutta una vicenda di libertà , umana e divina, indivisibili Libertà (in Dio e nell’uomo): come inizio originario (questa lez. ) come scelta (v. lez. III) Libertà originaria: nell’uomo: ogni evento ò imprevedibile, preceduto solo dal nulla della libertà ; non esistono nè la “possibilità nè la “necessità “, ma solo la “realtà ” dirompente ogni evento ò irrevocabile: ciò che ò stato non può non essere; ma di nuovo questa non ò necessità in Dio: autogenesi di Dio come primo atto libero “Ego sum qui sum”: va letto non come identità di un essere statico, ma come libertà di essere come Dio stesso vuole (Plotino, Schelling: libertà rispetto al proprio essere; Dio non ò “libero”, ma ò libertà !) abissalità di Dio = abissalità del nulla (solo Dio prima di Dio, non c’ò un prima senza Dio, ma c’ò comunque un inizio in Dio: abisso!) uomo e Dio: le loro libertà non sono in contrasto, non si limitano a vicenda non c’ò nemmeno prescienza divina (determinismo teologico): Dio lascia la scelta all’uomo, sa contemporaneamente alla scelta umana; non ha nemmeno bisogno di sapere in anticipo; al limite sa nella sua dimensione eterna il nucleo in cui si riduce la dimensione temporale dell’uomo Lezione III: Libertà e Negazione Libertà (in Dio e nell’uomo): come inizio originario (lez. II) come scelta (questa lez. ) Libertà come scelta: ò libertà positiva (scelta per l’essere) o negativa (scelta per il non essere: il male) libertà negativa: all’origine ò possibilità di non essere, scartata da Dio dopo l’origine ò l’uomo che sceglie il non essere quando che già esiste l’essere, e quindi c’ò anche un aspetto distruttivo; in realtà l’uomo distrugge solo se stesso, autonegandosi; non manicheismo: la libertà negativa non ò equipollente alla libertà positiva; non pessimismo, ma pensiero tragico, ambiguità dell’esistenza, coesistenza di bene e male nell’uomo libertà positiva: Dio sceglie il bene, che non ò a lui preesistente, come neppure lo ò il male: entrambi cominciano ad essere con l’atto stesso della scelta in Dio: Dio sceglie la libertà positiva, non perchè gli sia necessario, ma per suo libero volere la sua scelta istituisce: il bene come realtà , vincitore ab aeterno, e il male cone possibilità non scelta sia pure come possibilità , il male resta un’ombra inquietante, un’ambiguità in Dio, pronto ad essere risvegliato (dall’uomo) non esiste la possibilità di un Dio cattivo: se Dio avesse scelto il male, avrebbe scelto il non essere, e non esisterebbe; invece il bene scelto ò la sua stessa esistenza nell’uomo: l’uomo sceglie la libertà negativa, non per necessità , ma per suo libero volere; storicamente, ò l’uomo ad aver scelto il male (peccato originale, caduta, nascita della storia) la sua scelta istituisce: il male come realtà , da mera possibilità che era in Dio la sua scelta non ò irrimediabile, però ò progressiva: il male ingrandisce per atti negativi che si accumulano il male, il peccato non ò tanto negare Dio, quanto volersi mettere al suo posto (Dio come rivale); ò peccato di orgoglio e di invidia (questo ò il peccato più diabolico, mentre c’ò poi il peccato dell’uomo mediocre: mediocre sia nel bene, che non riesce ad essere bene, sia nel male, che non riesce ad esser male; alla mediocrità si contrappone la forza morale del santo e dell’uomo diabolico, ed ò la forza della libertà piena; queste due figure finiscono per rasentarsi; ò più facile la conversione del grande peccatore che nell’uomo mediocre) diverso ò il caso della sofferenza: ò negatività che riesce a mutarsi in positività (v. lez. IV) Lezione IV: Libertà e Dialettica Problema: come conciliare eternità e tempo storico? Tempo storico: dalla caduta dell’uomo alla sua morte lotta incerta fra bene e male elemento eterno: ò storia della salvezza, intervento divino che impedisce di rientrare nel nulla Eternità : si divide in protologia (prima della caduta) ed escatologia (dopo la fine dei tempi) il male ò vinto fin dall’inizio: l’escatologia non fa che confermare la protologia, non c’ò dialettica in Dio verso la perfezione elemento temporale: non ò intemporalità o totalità puntuale, ma ò una storia con i suoi tempi, le sue epoche (un “Dio vivente”) Dialettica eterna: Dio ò dialettico nel senso della libera scelta, della opposizione bene-male Dialettica temporale: tensione, lotta fra bene e male, non distinti ma confusi fra loro (non la dialettica triadica hegeliana della conciliazione, bensì la dialettica diadica pascaliana della contraddizione) Legame fra le due dialettiche: la storia della salvezza (ripristinare escatologicamente la situazione protologica, vincendo la lotta tramite l’espiazione e la redenzione) Hegel: confonde e unisce storia eterna e storia temporale (la vittoria escatologica ò storica); propone una dialettica della necessità (negatività necessaria, non libera scelta) sofferenza: ò ciò che capovolge, nella storia umana, il male in bene non ò solo espiazione, ma pure redenzione e riscatto: unica forza che può vincere il male non ò fato, ma conseguenza della colpa originaria (che accomuna tutti: solidarietà nella colpa, responsabilità reciproca) ò sopportabile solo in quanto anche Dio condivide la sofferenza umana (culmine nel grido di Cristo in croce, “momento ateo” della divinità ) tragicità : solo nella sofferenza c’ò collaborazione fra uomo e Dio Epoche eterne: protologia: autooriginazione divina creazione (libertà come liberalità ) caduta dell’uomo escatologia: morte (essenzializzazione dell’uomo, della sua personalità storica) giudizio (separazione di bene e male, personalità umana eventualmente arricchita dalla misericordia divina) apocatastasi (annientamento del male, ripristino ultimativo dell’origine) apocatastasi: contradditoria, impensabile (sorta di incarnazione nell’intera natura, panteismo, totalità , immanenza: cose normalmente inconciliabili con libertà e trascendenza) escatologia: indicibile, non solo per il linguaggio razionale, ma pure per quello fantastico; apice di filosofia e teologia, sorgente di problemi fondamentali, quali i seguenti non può esserci intervallo temporale fra creazione e caduta, nè fra morte e giudizio (“illusione ottica” che nasce solo dalla prospettiva umana che guarda l’eternità dalla storia) dal punto di vista dell’uomo, immerso nella storia, il centro dell’universo non può che sbilanciarsi verso l’uomo stesso: non può essere direttamente Dio, ma il rapporto uomo-Dio (teandria, Cristo) Conclusioni: “Dio esiste” significa “l’uomo ò peccatore; il mondo ha un senso; il male finirà ” Dio ò presenza scomoda, assillante, angosciante: “ò terribile cadere nelle mani del Dio vivente”
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