Purgatorio: XVI Canto - Studentville

Purgatorio: XVI Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Il terzo girone appare avvolto

da un fumo densissimo e acre, che circonda le anime degli iracondi, secondo una evidente legge di contrappasso. Dante, che

avanza guidato da Virgilio, ode la preghiera dell’ “Agnus Dei”, che viene recitata in armonico accordo da tutti i penitenti,

uno dei quali si rivolge improvvisamente al Poeta, essendosi accorto che egli si comporta come un vivo: è Marco Lombardo, il

quale dichiara la sua profonda conoscenza del bene e del male degli uomini e il suo amore per la virtù. Poiché Marco ha

ricordato la corruzione morale che si è diffusa nel mondo, Dante chiede che gli venga risolto un dubbio nato in lui durante il

colloquio con Guido del Duca: il male che dilaga sulla terra è dovuto a malefici influssi degli astri o all’azione umana?

Attraverso una lunga esposizione, Marco dimostra che i cieli muovono nell’uomo gli istinti, ma nulla possono contro la ragione

e la libera volontà di cui egli è dotato e che dipendono direttamente da Dio, loro creatore. Perciò la causa del male risiede

negli uomini stessi: infatti l’anima, che esce dalle mani di Dio senza nulla conoscere, viene attirata solo da ciò che dà

gioia e incomincia a seguire i beni terreni, se non è frenata da una guida (l’imperatore e le leggi che egli ha il compito di

far osservare). Ma l’intervento in campo temporale della Chiesa ha provocato una confusione di poteri che è all’origine

dell’attuale degenerazione, la quale è particolarmente avvertibile nell’Italia settentrionale, dove pochi sono i

rappresentanti rimasti della nobile generazione passata.

Introduzione critica

Il secondo dei canti

dottrinali che occupano la parte centrale del Purgatorio, si contrappone idealmente per più motivi a quello che lo precede: nel

XVI, infatti, temi e modulazioni del XV sono ripresi quasi in dialettica antitesi, per cui il complesso di queste pagine può

introdurre ad un discorso critico non privo di prospettive feconde. Alla presenza costante di una fenomenologia della luce

lungo tutto l’arco del XV – intesa a caratterizzare tanto un discorso agevolmente risolubile in termini di racconto, di

oggettivo succedersi dei fatti, quanto l’arduo tendersi del pensiero, per via di metafore, ai domini di una verità remota

ancora e per troppo fulgore abbacinante – fa riscontro, nel XVI, il motivo di una passione che offusca il pensiero e ostacola

il cammino, rende incerti i passi del viandante e della sua guida, ne paralizza il fervido dialogare. Proposta, analogamente a

quanto avveniva per quella della luce nel canto precedente, nell’orchestrazione complessa dell’esordio, la tematica delle

tenebre dell’ira ricompare – prima di tradursi nello sviluppo alto e metafisico della cecità dei vivi, dal quale la

trattazione ampia di Marco Lombardo prenderà l’avvio – a determinare anzitutto le circostanze concrete degli eventi narrati,

nei versi 25, 28, 35, 36. Il buio d’inferno determina sia l’organizzarsi spontaneo dell’invenzione epica, in quelle che ne

sono le componenti più fertili di sviluppi (la sorpresa rappresentata dal fatto di udire voci senza poterle attribuire a figure

umane, donde la domanda a Virgilio del verso 22, le modalità complesse dell’incontro con l’uomo di corte ghibellino), sia la

tonalità più segreta e vibrante, folta di riferimenti ad una tradizione augusta di pensiero e di stile (dalla Bibbia ai Padri

della Chiesa, ai dottori della Scolastica), del colloquio con l’anima espiante. Il grosso velo di tenebre suggerisce così fin

dall’inizio, per via di analogici rimandi, la perplessità della mente di Dante di fronte al problema delle responsabilità

umane, quella cecità dolorosa che Marco Lombardo additerà poi in lui per definirla inseparabile dalla condizione del vivere,

non meno della brusca, risentita impazienza dell’uomo di corte ghibellino, spirito che, espiando l’ira, nei modi dell’ira

ancora si esprime, per quanto questa affezione dell’animo non alteri in lui la compostezza che al dignitario di corte compete

e si definisca come ira riscattata da una profonda sollecitudine per le sorti del mondo sviato. Il personaggio di Marco

Lombardo risulta profondamente permeato dei motivi morali e simbolici che presiedono alla composizione del canto; se, come ha

notato il Cosmo, è vero che esso non si isola nella compattezza statuaria e tragica del vincitore di Montaperti, ciò discende

direttamente dalle diverse realtà che i due primi regni dell’oltretomba dantesco propongono. La passione, che nei dannati

appare come irrigidita in una negazione sterile di ogni alterità o comunicazione, nel rifiuto pervicace di considerarsi

imperfetta, parziale (la considerazione politica di Marco Lombardo, pur motivata dall’ira, ha un’ampiezza pacata di visuale

ed una solidità di motivazioni logiche del tutto assenti nel disperato insistere del magnanimo eretico del sesto cerchio sulle

costanti del suo vivere terreno), è invece nel Purgatorio colta nel vivo, temporale dispiegarsi di un processo d’integrazione

in quella realtà sovrannaturale che le comunica la consistenza dell’essere e del significato. Ancora per un altro verso si

stabilisce un legame e come un armonico contrappunto – tra i canti XV e XVI. L’insegnamento di Virgilio nel XV aveva per

oggetto uno di quei problemi di natura eminentemente teorica, che lo spietato agire mondano o ignora o esclude dall’ambito

delle sue interrogazioni, un tema che il diffondersi immateriale e casto della luce allontanava, per virtù di un complesso

dispiegarsi di analogie, dalla sostanza opaca del nostro percepire terreno. La parola del poeta latino era essa stessa, non

meno dell’oggetto del suo discorso, fervida e luminosa, schiusa ad una pura dedizione, che la sua malinconia di esule nel

limbo rendeva dolente e consapevole senza offuscarla. L’argomentare di Marco Lombardo invece, volto alla denuncia di uno stato

di cose nel mondo – ove l’errore è non soltanto possibile e accidentale (versi 103-105), ma risulta sostanziale alla

definizione del mondo stesso – si carica dello sdegno che dalia visione dell’umano errare nel mondo scaturisce, per cui la

metafora del fummo dell’ira risulta ricca di implicazioni feconde per il definirsi del carattere di questo- personaggio, per

la stessa cadenza amara delle sue parole. Indipendentemente da quello che è il pregio formale di queste pagine, il canto XVI è

di grande interesse per la definizione del punto di vista del Poeta sui rapporti tra Chiesa e Impero, sempre che si accetti la

tesi, avanzata dalla maggior parte degli interpreti ed accuratamente svolta in uno studio del Maccarrone, che le idee di Marco

Lombardo coincidano con quelle di Dante al momento della composizione della Commedia. Questa tesi è stata combattuta dal

Montano, per il quale il punto di vista di Marco Lombardo rispecchierebbe soltanto la mentalità di questo personaggio ancora

parzialmente immerso nell’errore: “È chiaro che Marco Lombardo… è lontano dalle posizioni puramente ghibelline. Ma quello

che egli dice non è certamente la voce della fede di Dante, la cui prima espressione troveremo nella rappresentazione simbolica

del paradiso terrestre”. Appare tuttavia difficile non considerare Marco Lombardo essenzialmente un portavoce delle idee

dell’autore, sia per la corrispondenza di espressioni e modi stilistici del suo discorso con passi della Monarchia e del

Convivio, sia per la forte carica emotiva che ne lievita le parole, sia infine per le considerazioni nostalgicamente orientate

verso un passato di luminose virtù (soleva Roma… solea valore e cortesia trovarsi) che il Poeta gli attribuisce.

  • La Divina Commedia

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