Il problema fondamentale che John Stuart Mill si propone di affrontare nella sua filosofia (soprattutto in Sistema di logica deduttiva e induttiva ) ò la logica, in particolare il rapporto tra la deduzione e l’induzione. Che tra le due intercorresse un rapporto era cosa certa: tradizionalmente, o si ò convinti che vi siano idee innate da cui dedurre tutto, oppure, come fa Mill, si segue la tesi empiristica, secondo cui al momento della nascita la nostra mente ò (secondo la celebre concezione aristotelica) una “tabula rasa” da riempire con le esperienze. In questo secondo caso, naturalmente, senza l’apporto di idee innate, il problema si complica esponenzialmente. Come aveva sottolineato Aristotele, il più grande empirista dell’antichità , la deduzione (=dall’universale al particolare) ò la forma più pura di ragionamento, ma per potersene avvalere servono princìpi generali da cui dedurre facendo preventivamente un’induzione (=dal particolare all’universale): si deve cioò partire dal particolare per conquistare l’universale e con quest’ultimo costruire i sillogismi. Questo ò il grande problema su cui si arrovella Mill, il quale, oltre ad essere positivista, ò empirista. In primo luogo, egli effettua una distinzione tra termini denotativi e termini connotativi (riprendendo quell’attenzione per il linguaggio tipica di Bacone e della tradizione inglese in generale): i termini denotativi mi permettono di individuare una cosa, mentre i termini connotativi me la individuano e in più mi danno informazioni sulle caratteristiche di essa. Classico esempio di termini denotativi ò dato dai nomi propri, che individuano con precisione la cosa a cui si riferiscono, ma non danno informazioni sulle sue caratteristiche. Esempi di termini connotativi sono, ad esempio, l’aggettivo “razionale” o “bianco”: dicendo che “questo essere ò razionale” o che “quel libro ò bianco”, “connoto” l’oggetto in questione con delle caratteristiche. Ma Mill fa notare che sono sempre connotativi anche tutti i nomi comuni e che denotativi sono solo i nomi propri (che indicano una cosa e basta); i nomi comuni, infatti, non sono solo un’etichetta, ma forniscono precise indicazioni sulle cose a cui si riferiscono. Se infatti dico che “Marco ò un uomo” il termine “uomo” sembra denotativo, perchò non sembra dare suggerimenti sulle caratteristiche di Marco, ma se ben analizzato, si scopre che le dà eccome. Dicendo che “ò un uomo” sto dando suggerimenti sulle caratteristiche di Marco (non ò una pianta, nò un vegetale); alla distinzione tra termini denotativi e termini connettivi ò connessa quella (di forte sapore kantiano) tra proposizioni reali (legate ai termini connotativi) e proposizioni verbali. Le proposizioni verbali sono quelle proposizioni che non dicono nulla di nuovo (“tutti gli uomini sono razionali”) e corrispondono per questo ai giudizi analitici a priori di Kant; con le proposizioni reali (corrispondenti ai giudizi sintetici a posteriori di Kant), invece, si dicono cose nuove e arricchenti e, proprio per questo, sono connotative (“il libro ò blu”). A questo punto il problema centrale che Mill si pone riguarda l’inferenza, ovvero il ragionamento: bisogna stabilire quale valore abbiano soprattutto le inferenze che si avvalgono di proposizioni reali. E Mill sulle orme di Kant vuole, in sostanza, sapere come siano possibili i giudizi sintetici a priori, ovvero come sono possibili i ragionamenti che portano ad un ampliamento delle conoscenze. Come ò possibile il ragionamento arricchente “Socrate ò uomo, l’uomo ò mortale, dunque Socrate ò mortale”? In altre parole, come faccio a sapere che Socrate morirà ancor prima di aver empiricamente constatato la sua morte effettiva? E’ un ragionamento valido? E se sì, perchò? Mill, da buon empirista, tende a non credere che siano possibili i giudizi sintetici a priori, poichò essi implicano in qualche modo la presenza innata di concetti nella mente: al contrario, ogni conoscenza (perfino quella matematica) passa attraverso l’esperienza; se le cose stanno così, però, resta da chiedersi come si possano giustificare proposizioni reali che siano valide ed universali. In altri termini, Mill perviene alla presa di coscienza che se si ammette la validità del metodo induttivo (=dal generale al particolare) le possibilità sono due: la prima consiste nell’ ammettere che, attraverso l’induzione, si giunga a verità generali da cui dedurne altre particolari già implicite; in questo caso, la deduzione funziona ma ò del tutto inutile. Infatti, quando, ad esempio, considero i 12 apostoli e dico che ciascuno ò ebreo, arrivo all’affermazione generale che i 12 apostoli sono tutti ebrei e da essa potrò dedurre che uno qualsiasi dei 12, proprio perchò apostolo, ò ebreo. Il che ò perfettamente logico, ma anche totalmente inutile: questa deduzione, infatti, ha carattere tautologico, giacchò non dice nulla di nuovo che non fosse già implicito in partenza. E Mill fa notare che le deduzioni interessanti sono quelle che ampliano la conoscenza, quelle cioò che predicano qualcosa di nuovo: ed ò questa la seconda possibilità . Quando dico che tutti gli uomini sono mortali e che Socrate, in quanto uomo, ò anch’egli mortale, amplio per davvero la mia conoscenza, dal momento che affermo che Socrate morirà ancor prima che egli sia effettivamente morto. Nel caso dei 12 apostoli, si parte da verità particolari per approdare a verità generali per poi far ritorno a verità particolari; nel secondo caso, invece, si constata empiricamente la mortalità degli uomini e per induzione si arriva a dire che, poichò tutti gli uomini presi in esame sono morti, allora tutti gli uomini sono mortali. Quella degli apostoli (che Mill definisce “enumerazione completa” per il fatto che non si ò tralasciato nessun elemento), per dirla con Kant, ò una verità analitica, certa ma tautologica; quella di Socrate, invece, (che Mill designa col nome di “enumerazione semplice”, poichò non si esaminano tutti gli uomini esistenti, ma solo una parte di essi) ò sintetica, ovvero arricchisce la conoscenza; tuttavia questo secondo tipo di induzione, a differenza del primo tipo, crea dei problemi. Infatti, quella degli apostoli ò un’induzione per enumerazione completa, dove cioò affermo che tutti e 12 gli apostoli sono ebrei perchò l’ho appurato empiricamente esaminando ciascuno di essi; con il caso dell’induzione per enumerazione semplice (il caso di Socrate), la situazione cambia, visto che si predica la mortalità di Socrate mentre egli ò ancora in vita, il che equivale a dire che si predica un qualcosa senza averlo constatato empiricamente. E del resto, nota Mill, effettuare un’enumerazione completa su tutti gli uomini per dire che sono tutti (dal primo all’ultimo) mortali sarebbe impossibile: dovrei infatti analizzare uno ad uno tutti gli uomini del presente, del passato e del futuro per vedere se sono effettivamente morti; e anche fatta questa operazione, resterei fuori dall’enumerazione io che la sto facendo. Tuttavia, quando ci si trova di fronte ad una miriade di casi (come per la mortalità degli uomini), si ò costretti, nell’impossibilità di esaminare uno ad uno i singoli casi, a ricorrere all’enumerazione semplice: ma che cosa legittima questo tipo di induzione? Infatti, se l’enumerazione completa si giustifica da sò, quella semplice (basata su pochi casi) implica la deduzione per Socrate di ciò che si ò dedotto per altri. Questo procedimento può essere legittimato solo se si ricorre ad una logica di tipo realista, che ammette cioò l’esistenza reale degli universali: in tale situazione, in cui non esistono solo gli individui, ma pure gli universali, si può ricorrere (nell’esempio della mortalità degli uomini) all’universale “umanità “, intesa appunto come universale di cui partecipano tutti i singoli esseri umani, per cui ciascuno può dire di essere umano perchò partecipa dell’universale “umanità “. E l’ammissione degli universali permette di effettuare affermazioni generali: attraverso l’esperienza di un numero limitato di casi (A, B, C), diceva Aristotele, posso cogliere non solo i tre casi presi in considerazione (A, B, C), bensì anche le caratteristiche inerenti all’essenza universale di uomo. Il caso estremo di questo procedimento ò rappresentato dalla geometria, in cui una volta fatta la dimostrazione del teorema di Pitagora per un singolo triangolo rettangolo, si ha la certezza che esso sia valido per tutti gli altri triangoli rettangoli possibili ed immaginabili. Ne consegue che, in una prospettiva realista che ammette gli universali, si può dire che, attraverso una serie di casi limitati si perviene all’universale, anche se magari i casi esaminati sono pochissimi, cosicchò potrò affermare che tutti coloro i quali partecipano della forma uomo saranno necessariamente mortali, proprio perchò tutti gli uomini singoli esaminati sono morti. Il problema risiede però nel fatto che, da Ockham in poi, la logica realista ò stata sostituita da quella nominalista (che non ammette l’esistenza degli universali): questo esclude la possibilità che da pochi casi si possa pervenire ad un’affermazione generale valida universalmente, proprio perchò nulla esiste all’infuori dei casi singoli. E, saltato l’universale, salta anche la possibilità di fare il gioco (lecito nell’ambito di una logica realistica) per cui passo dalla mortalità di A, B e C alla mortalità dell’universale uomo e, infine, a quella di Socrate. E nel caso della logica realista, l’universale altro non era se non la mediazione che mi consentiva di passare dalla mortalità di A, B e C a quella di Socrate, proprio perchò ammettevo che A, B e C e Socrate avessero in comune il fatto di partecipare dell’universale “umanità “. Come giustifica, dunque, Mill il processo di enumerazione semplice nel nominalismo? Nella concezione nominalista, egli dice, non esistono realtà universali, ma, ciononostante, esistono cose che hanno funzioni universali: ed ò il caso dei nomi comuni, per cui quando dico “uomo” non alludo all’universale “uomo”, ma a tutti quegli enti dotati di determinate caratteristiche comuni, quali l’avere due gambe, due occhi, una testa, ecc. Nella definizione di uomo come essere avente due gambe, due occhi e una testa, attenzione, non rientra la mortalità : considerando tre uomini, A, B e C, ci accorgiamo che tutti e tre muoiono e per induzione affermiamo che tutti gli uomini sono mortali; dopo di che, esaminiamo Socrate e ci accorgiamo che, alla pari di A, B e C, ò dotato di due gambe, due occhi e una testa, ma ò vivo e vegeto: come possiamo affermare che anch’egli ò mortale? Che sia un uomo lo so dal fatto che ha due occhi, due gambe e una testa e, spiega Mill, posso arrivare a dire che ò mortale attraverso il principio dell’uniformità delle leggi di natura, secondo cui quando dei singoli casi presentano costantemente un gruppo di caratteristiche comuni (occhi, gambe, testa) più un altro gruppo (la mortalità ), allora anche l’ennesimo caso considerato (Socrate) che presenterà il primo gruppo di caratteristiche, avrà anche il secondo gruppo. Ma allora si torna al passaggio mediato dall’universale, obietterà qualcuno. E invece no, dice Mill, poichò al posto dell’universale c’ò il principio, il quale implica che la natura non si comporti a caso, ma con regolarità ( ” ò una legge che in natura ci siano leggi “, dice Mill), per cui tutti gli uomini del passato, oltre ad avere la testa, le gambe e gli occhi, sono morti e dato che la natura si comporta secondo una certa regolarità , anche gli uomini del futuro dotati di gambe, occhi e testa saranno pure loro mortali. Si deve però legittimare tale principio di uniformità delle leggi di natura e la risposta di Mill ò paradossale: egli dice che lo si fonda induttivamente, ovvero da quando siamo nati abbiamo sempre sperimentato che la natura segue una regolarità definita. Al che si potrebbe obiettare che, in fin dei conti, tale principio altro non ò se non un postulato; già Hume si chiedeva con insistenza che cosa facesse sì che ciascuno di noi nutra in sò la certezza di vedere ogni mattina sorgere il sole e rispondeva dicendo che ò l’abitudine di vederlo sorgere ogni mattina; ora Mill si chiede, in modo analogo, “che cosa mi garantisce che, visti morire tutti gli uomini finora considerati, anche Socrate un giorno dovrà morire? ” Se Hume rispondeva servendosi dell’abitudine, Mill invece si serve del principio dell’uniformità delle leggi di natura, che a suo avviso non ò un mero postulato, bensì ò fondato sull’esperienza. Però egli commette l’errore di fondare induttivamente la verità del principio quando dovrebbe essere questo principio ad autorizzare l’uso dell’induzione; si tratta, evidentemente, di un circolo vizioso, visto che Mill ricorre al principio per legittimare l’induzione e poi fonda tale principio sull’induzione stessa! Ma Mill obietta che si tratta di un’induzione talmente vasta che possiamo considerarla non per enumerazione semplice, ma per enumerazione completa, giacchò il numero di esperienza su cui si fonda tale principio non le esaurisce tutte, ma ò comunque talmente vasto (si tratta di tutte le esperienze fatte nella storia!) che, se in teoria appartiene all’enumerazione semplice, in pratica finisce per appartnere a quella completa. E, come abbiamo visto nel caso dei 12 apostoli, l’enumerazione completa si autolegittima, per cui il principio dell’uniformità delle leggi di natura non ò un postulato e può fondare l’induzione per enumerazione semplice senza propriamente appartenere ad essa. Si ò pertanto superato il circolo vizioso e si ò fondata l’induzione per enumerazione semplice sulla base di quella per enumerazione completa. Certo, in termini strettamente matematici, sarebbe errato dire che il principio dell’uniformità delle leggi di natura ò per enumerazione completa, poichò, pur essendo assai vasto, non esaurisce tutte le esperienze possibili; ma tuttavia, sul piano pratico (che ò quello che sta a cuore ad un positivista quale ò Mill) si può approssimare e legittimare l’idea (su cui si fonda il sapere umano) secondo la quale dai casi particolari ò lecito effettuare generalizzazioni per poi trarne delle conclusioni. Una volta giustificata l’induzione semplice, sorge il problema di indicare quale ò il metodo per indagare la realtà e a tal proposito Mill riprende la tradizione empirista inglese di stampo baconiano: proprio Bacone, infatti, aveva elaborato la teoria delle tre tavole, volta a render praticabile un’induzione che si effettuasse attraverso un numero relativamente limitato di casi. Mill resta fedele alle tre tavole ma, per così dire, ne aggiunge una quarta, una sorta di nuovo principio che prescrive l’uso di uno strumento efficace per individuare la causa di un fenomeno; nel constatare che, in due situazioni pressochò analoghe, il fenomeno esaminato si verifica solo in una delle due, si deve cioò individuare quell’unica differenza che distingue le due situazioni: tale elemento (presente solo nella situazione da cui si ò verificato il fenomeno analizzato) sarà appunto la causa dell’evento. Facciamo un esempio concreto: nel Settecento scompare definitivamente dal mondo occidentale la peste, che però continua a flagellare quello orientale; sia l’Oriente sia l’Occidente hanno pressochò le stesse condizioni (guerre, climi simili, etc), ma vi ò una differenza imprescindibile ed ò lo Stato assoluto, presente in Occidente e non in Oriente. Se ne ricava che ò lo Stato assoluto la causa della scomparsa della peste dal mondo occidentale. Dopo di che, Mill concentra la sua attenzione sulla psicologia, che Comte si era rifiutato di annoverare fra le scienze: il pensatore inglese, invece, assume un atteggiamento diametralmente opposto e non si limita a riconoscere che la psicologia ò una scienza legittima, ma arriva addirittura a ravvisare in essa il fondamento delle scienze. Tutta la conoscenza umana, infatti, secondo Mill, si struttura attraverso l’acquisizione per via empirica di idee semplici che si aggregano per via associazionistica (Mill conosceva benissimo le tesi formulate in merito da suo padre) attraverso norme psichiche. Ne consegue che la conoscenza umana non può non passare attraverso la psiche e, pertanto, la psicologia assurge a vera e propria scienza fondatrice delle altre scienze. A questo punto, poi, Mill si pone un annoso problema su cui da sempre si interroga la filosofia: si tratta del problema della prevedibilità dell’agire umano. Come ò possibile creare le scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia) se l’uomo (a differenza degli altri enti) ha un comportamento non rigorosamente prevedibile? Le risposte possibili sembrano essere due: o si presuppone (sulla scia di Cartesio, Hobbes e Spinoza) che gli uomini siano macchine del tutto prevedibili e prive di libertà e pertanto si ammette la possibilità di fondare delle scienze umane davvero rigorose; oppure si ammette la libertà umana e, in questo caso, salta la prevedibilità del comportamento e, con essa, la possibilità di creare delle scienze umane. Mill dà una risposta che si distacca dalle due appena proposte: si tratta di una risposta che molto risente della lezione positivistica ed ò, per molti versi, semplice e coerente. Mill non fa altro che fare una distinzione tra metafisica e vita quotidiana: se anche ammettiamo che l’uomo (tanto il singolo quanto i gruppi), metafisicamente, sia libero, ciò non toglie che egli, nella vita di tutti i giorni, si comporti con una certa regolarità e che tale regolarità possa essere espressa sotto forma di norme. Pertanto, Mill, pur riconoscendo la libertà metafisica all’uomo, riconosce una certa prevedibilità del comportamento nella vita pratica ed ò proprio su questo che, egli afferma, diventa possibile studiare le leggi di comportamento degli individui (psicologia), della collettività (sociologia), e così via. E Mill ò convinto di dover usare, nel campo delle scienze sociali, quello che lui definisce metodo deduttivo concreto, il quale si fonda sul fatto che le realtà sociali sono le più complesse e sul fatto che su di esse non si possono fare esperimenti, come invece avviene nei laboratori chimici. Nel caso delle scienze sociali, egli dice, a fungere da esperimento ò la storia stessa: il che significa che, di fronte alla domanda “che cosa causa quel determinato fatto sociale? “, la prima cosa da fare ò elaborare un’ipotesi su quale combinazione di cause potrebbe averlo determinato; e poi bisognerebbe effettuare la verifica sperimentale, che, nel caso delle scienze sociali, ò inattuabile: si deve pertanto ripiegare sulla storia, esaminando dove si ò verificata storicamente quella data combinazione di cause e se ha generato lo stesso evento sociale che stiamo esaminando. La verifica sperimentale cede il passo a quella storica. Accanto alle considerazioni logiche, Mill si ò anche occupato molto di politica, cercando di organizzare un movimento radicale che coinvolgesse l’ala progressista del partito liberale inglese: egli si fa portavoce di ideali definibili, in senso lato, di “liberalismo radicale”. In un’epoca e in uno Stato in cui il liberalismo aveva attenuato ogni punta rivoluzionaria e, anzi, era divenuto la struttura portante del sistema, ò significativo che il filosofo inglese ne dia una lettura in chiave progressista: egli separa la politica e l’economia, condannando (da buon liberale) il socialismo, inteso come ingabbiamento del libero corso dell’economia e brutale collettivizzazione dei mezzi di produzione; se Mill non condivide il socialismo, ò però un dato di fatto che il socialismo novecentesco condividerà (e farà sue) le teorie politiche di Mill. L’economia, secondo il filosofo inglese, può solo funzionare in una situazione di libero mercato e, pertanto, bisogna riconoscere piena libertà all’economia; ma (e qui sta la novità ) altra cosa ò la politica e, in particolare, la distribuzione delle ricchezze: si deve, dice Mill, creare una volontà umana tale da creare una maggiore equità sociale. Da ciò ben si intuisce come la politica e l’economia risultino divise: economicamente deve regnare la massima libertà in modo che si produca il più possibile; sul piano politico, però, si deve far sì che si attui una più equa distribuzione dei beni. Proprio da queste considerazioni traspare l’ utilitarismo (maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di persone) che informa la filosofia milliana: non solo si deve fare una specie di calcolo dei piaceri, ma all’interno di tale calcolo bisogna anche inserire piaceri di tipo spirituale, tra cui l’ altruismo, ovvero l’idea che diffondere il piacere ad altre persone crei piacere anche a se stessi. Interessante ò il fatto che il liberalismo inglese di ispirazione lockeana aveva insistito sul principio che si dovesse fare di tutto per difendere la libertà dell’individuo dalla potenziale autorità statale, servendosi soprattutto di strutture della società civile: l’idea era che l’individuo, lasciato in balia di se stesso, viene sopraffatto dallo Stato e pertanto deve essere protetto da tali sopraffazioni attraverso organismi intermedi (le corporazioni, gli ordini, la famiglia, i partiti, i sindacati, ecc). Mill, invece, stravolge la tradizione liberale e scopre che la vera minaccia per la libertà dell’individuo non ò più lo Stato, ma ò quella società civile che i liberali classici vedevano come strumento di difesa: in particolare, il vero pericolo ò rappresentato dalla pressione sociale verso il conformismo, pressione che tende ad uniformare la società intera. La libertà dell’individuo, dice Mill, deve assolutamente essere garantita non solo perchè ò un principio della morale liberale, ma anche perchè la libertà di non essere conformisti, oltre ad essere un vantaggio per l’individuo, ò anche un bene per la società . Una società condannata ad essere omogenea, infatti, non potrebbe sperimentare nulla di nuovo e ciò nuocerebbe sia ai singoli sia alla società nel suo complesso. E così lo Stato, non solo cessa di rappresentare una minaccia per la libertà degli individui, ma anzi ne diventa il garante; ò infatti lo Stato che garantisce la libertà contro le pressioni sociali. Se del resto ci chiediamo da che cosa ò garantita la parità dei sessi al giorno d’oggi non possiamo certo rispondere che ò garantita dalla società : ò lo Stato ad assicurarla. Per quel che riguarda la religione, la filosofia milliana, così impegnata in ambito politico e sociale, riprende la remota idea, di ascendenza platonica, di Dio come puro e semplice artigiano che si limita a plasmare e ad ordinare il mondo. Il Dio di Mill, dunque, non ò onnipotente, poichè si limita ad ordinare un materiale che non ò stato da lui creato: e dalla non-onnipotenza divina, Mill deduce l’idea secondo la quale Dio ci chiama tutti a collaborare con lui per rendere migliore il mondo. Del resto, se Dio fosse onnipotente, non si spiegherebbe perchè il mondo non ò perfetto e ogni nostra azione perderebbe di significato. Questa riflessione religiosa ò il coronamento generale di una filosofia orientata in tutto e per tutto all’azione utile.
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