Hannah Arendt viene considerata tra i più grandi scienziati della politica nel 1900 ed alcune sue opere restano come pietra miliare della analisi e della ricerca. Il volume realizzato nel pieno della sua maturità e incentrato sull’esame delle motivazioni politiche, sociali, psicologiche ed economiche dei moti rivoluzionari ò una ricca miniera di sapere alla quale tutti gli studiosi devono attingere per le elaborazioni e le interpretazioni dei fatti storici e per una comprensione pressochè esaustiva delle radici dei fenomeni rivoluzionari. “Sulla rivoluzione” di Hannah Arendt ò dunque un trattato fondamentale per qualunque opera scientifica di indagine sulle componenti e le risultanze delle vicende attorno a quel determinato accadimento definito come rivoluzione. ” In una situazione internazionale che contrappone la minaccia di totale distruzione attraverso la guerra alla speranza di emancipazione di tutta l’umanità attraverso la rivoluzione, non resta altra causa se non la più antica di tutte, la causa della libertà contro la tirannide “. Nell’opera di Hannah Arendt, lo scritto “Sulla rivoluzione” occupa una posizione centrale, insieme riflessione teorica ed esperienza morale della sua piena maturità . In questo libro, ormai considerato un classico, confluiscono i motivi fondamentali della sua ricerca e appare in tutto il suo significato l’idea alla quale ò rimasta fedele tutta la vita, secondo cui la sola ragion d’essere della politica ò la libertà , e suo compito ò produrre situazioni che ne allarghino gli spazi, cioò produrre istituzioni e corpi politici ” che garantiscano lo spazio entro cui la libertà può manifestarsi “; la politica fallisce invece allorquando per scelta o costrizione sia portata a deviare da questa strada. Di qui il giudizio sul sostanziale fallimento delle due rivoluzioni francese e russa; e sulla sostanziale riuscita della rivoluzione americana, la prima delle rivoluzioni moderne. Il senso profondo del libro, come del resto di tutta l’opera della Arendt, dolorosamente segnata dall’esperienza del totalitarismo, sta nella coraggiosa rivendicazione dell’autonomia della politica (e, in polemica con Marx, del primato del pensiero), nel suo martellante richiamo alla responsabilizzazione individuale e alla socializzazione, ma istituzionalizzata, del potere, spinta fin quasi a toccare i confini di un antistatalismo libertario, nella perseveranza a individuare e combattere il mito ricorrente della violenza, la cui inevitabile conclusione ò stata ogni volta il terrore, la deviazione e la fine della rivoluzione, la disfatta in primo luogo degli ideali in nome dei quali era stata iniziata. ” E’ forse ozioso precisare che liberazione e libertà non sono la stessa cosa; che la liberazione può essere una condizione della libertà , ma ò assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente; che il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio di libertà . Tuttavia, se queste ovvietà vengono frequentemente dimenticate, ò perchè la “liberazione” ò sempre apparsa come una cosa grandiosa e la fondazione della libertà ò sempre stata incerta, se non del tutto inconsistente. La libertà inoltre ha svolto un ruolo di gran peso, e abbastanza controverso, nella storia del pensiero sia filosofico sia religioso, e lo ha fatto per tutti quei secoli – dal declino del mondo antico alla nascita del mondo moderno – in cui la libertà politica non esisteva e, per ragioni che qui non ci interessano, gli uomini neppure se ne curavano. Così ò divenuto quasi assiomatico, persino nella teoria politica, intendere per libertà politica non un fenomeno politico ma al contrario l’insieme più o meno libero di attività non politiche che un determinato stato ò disposto a consentire e garantire a coloro che lo costituiscono ” (“Sulla Rivoluzione”). In questa opera la Arendt, attraverso il confronto tra le due suddette rivoluzioni, mette in luce come esse rappresentino due diversi modelli di fenomeni rivoluzionari, manifestando al contempo la sua concezione della politica, con la chiara adesione ai princìpi che hanno ispirato la rivoluzione americana. La rivoluzione francese, nonostante il suo fallimento, ò diventata il modello di riferimento per giudicare le rivoluzioni. Non altrettanto ò accaduto per quella americana, che invece riuscì perfettamente La Arendt si chiede perchè la prima sia diventata la rivoluzione per eccellenza mentre quella americana sia stata trascurata, se non addirittura misconosciuta come “vera” rivoluzione. La risposta più convincente ò che un tipo di cultura che considera la politica essenzialmente come economica ed esclusivamente rivolta alla risoluzione di problemi materiali non poteva che rispecchiarsi maggiormente nei fatti francesi. Per la Arendt dopo la rivoluzione francese, il fenomeno rivoluzionario e più in generale la politica stessa, sarebbero stati identificati rigidamente con quella che lei chiama “la questione sociale”. Si può allora capire perchè la rivoluzione americana, dove fu del tutto assente una rilevante questione sociale, non rappresenti agli occhi di molti una rivoluzione in senso completo. Al contrario, per la Arendt, la fortuna della rivoluzione americana risiede proprio nell’assenza di una questione sociale. La rivoluzione fu essenzialmente politica ed ebbe esiti politici poichè non ebbe preoccupazioni sociali. Infatti, la condizione di vita degli uomini delle colonie, soprattutto nel centro – nord, era mediamente lontana sia dalla grande ricchezza sia dall’indigenza più nera, fatta eccezione per la condizione degli schiavi. La mancanza di un gran numero di poveri stupiva gli osservatori stranieri Se per un abitante di Parigi e Londra non era possibile distogliere lo sguardo dalla miseria, nelle colonie invece lo spettacolo quotidiano della povertà non era così diffuso. Secondo la pensatrice tedesca, le finalità della politica non si esauriscono esclusivamente nella necessità di trovare soluzioni a problemi materiali e contingenti ma al contrario si esprimono nella partecipazione e nella libera manifestazione delle capacità progettuali dell’uomo. Non a caso, infatti, la politica nasce nella poliV greca, per merito di uomini liberi dalle necessità della vita quotidiana. Il riferimento alla poliV non serve certo alla Arendt per rievocare nostalgicamente una mitica età dell’oro ormai tramontata, ma solo per sottolineare la natura della politica e dell’agire libero che in essa si deve esplicare. Per la Arendt la libertà politica richiama il concetto di libertà proprio dei greci. Per essi l’uomo non nasceva nè libero nè uguale ma acquistava la propria libertà solo nel consesso dei pari. La poliV ò dunque per la nostra autrice un’istituzione artificiale capace di rendere uguali uomini che per natura non lo sono. La libertà politica non si deve confondere con quella naturale, che si configura come semplice libertà dagli impedimenti, ma presuppone l’esistenza di istituzioni artificiali capaci di renderci liberi. La Costituzione americana ha creato lo spazio politico, come la poliV in Grecia, all’interno del quale i cittadini possono essere liberi. La rivoluzione americana ò perciò riuscita nell’intento di liberare le colonie dall’oppressione della madrepatria, e al tempo stesso ha creato un nuovo ordine politico all’interno del quale fosse possibile essere liberi. Durante la rivoluzione francese la miseria enorme delle masse fece sì che i problemi costituzionali e politici divenissero secondari. La rivoluzione francese non conobbe perciò un esito di libertà poichè la politica fu scavalcata dai problemi sociali. D’altronde anche esperienze a noi più vicine hanno dimostrato come il persistere di gravi condizioni di miseria costituisca la premessa per esperienze politiche autoritarie. La critica della Arendt alla rivoluzione francese non va confusa con quella di Burke. L’anglo-irlandese ha criticato la rivoluzione francese poichè questa aveva voluto stravolgere tutto ed aveva preteso di ricominciare ogni cosa da capo. Questa presunzione, secondo Burke, sarebbe contraria alla natura stessa delle cose, la quale impone che i cambiamenti di strutture complesse avvengano gradualmente. Per la Arendt, invece, l’aspetto negativo della rivoluzione francese ò il mancato esito politico e costituzionale della stessa, legato, come si ò già detto, alla situazione sociale della Francia. Il problema, per la Arendt, non sarebbe tanto l’astratto razionalismo dei rivoluzionari, perchè anche la Costituzione americana ò pur sempre qualcosa di completamente nuovo e di deliberato razionalmente. Burke condanna la rivoluzione per aver voluto mettere le mani su ciò che ò il prodotto della storia e in ultima analisi di Dio. Hayek ò convinto che concepire la società come un sistema artificiale comporti rischi gravissimi in quanto si può alterare il frutto di un’evoluzione secolare. Il problema per la Arendt non ò invece voler disegnare le istituzioni ma farlo in maniera sbagliata. La critica di Burke e quella della Arendt alla rivoluzione francese muovono perciò da posizioni diverse. Il primo nega di fatto il concetto stesso di rivoluzione, poichè questa con la sua volontà di cambiamento totale spezzerebbe i vincoli sacri esistenti tra le generazioni, tra i vivi e i morti mentre per la Arendt il problema ò che il cambiamento avvenga in maniera corretta. Alla luce di quanto detto, appare allora chiara la peculiarità della Arendt. Critica la rivoluzione francese ma non ò ostile al concetto di rivoluzione e alla possibilità del cambiamento radicale. Mentre spesso si ritiene che opporsi alla rivoluzione francese voglia dire essere schierati su posizioni conservatrici, la Arendt rifiuta non la rivoluzione ma la sua identificazione con quelle esclusivamente “sociali” come quella francese o quella russa. Per la Arendt la rivoluzione ò legittima e appartiene alla politica, nella misura in cui non devia mai dal suo scopo principale ovvero la creazione di spazi di partecipazione politica e di libertà . La polemica della Arendt con il marxismo ò evidente nella sua stessa concezione idealistica della politica. Ma non ò solo verso il marxismo che si rivolge la sua critica. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che nella Germania degli anni Trenta da cui questa autrice scappò, il partito nazista si era imposto sfruttando la disastrosa situazione economica e sociale. Dunque quello della Arendt ò un rifiuto di un modo generalmente moderno di intendere il fondamento e lo scopo della politica. I rivoluzionari francesi, espressero più volte l’idea che la rivoluzione fosse mossa da un moto proprio irresistibile. La Arendt non crede invece nella necessità dell’accadere umano perchè questa convinzione sarebbe limitativa della libertà e della responsabilità umana. La Arendt si rende conto che nella storia la libertà , come possibilità illimitata di scelta, ò qualcosa di impossibile. Infatti, sottolinea che la specifica condizione sociale francese ha influenzato i rivoluzionari in un senso anzichè in un altro. Rimane però il fatto che la responsabilità degli esiti della rivoluzione dipende dalle concezioni e dai modelli politici di riferimento dei rivoluzionari e non da una qualche necessità storica. La Arendt crede alla politica come espressione della libertà umana e come primato del pensiero. Perciò ò convinta che il successo della rivoluzione americana risieda nella saggezza politica dei suoi protagonisti e non solo nelle favorevoli condizioni sociali ed economiche in cui si svolse. Dopo la rivoluzione francese e dopo Marx in particolare, ò prevalsa invece la tendenza a considerare la rivoluzione come qualcosa di necessario e il rivoluzionario solo il profeta di una nuova era che comunque sta per realizzarsi. La Arendt depreca il fatto che la necessità e non più la libertà sia diventata la categoria principale del pensiero politico rivoluzionario. Secondo Arendt, Machiavelli si pose il problema, comune ai rivoluzionari, di come fondare un nuovo potere e di come renderlo autorevole. Il potere per secoli si era legittimato facendo ricorso all’assoluto, cioò al volere divino. Aver sostituito questa fonte di autorità ha comportato presso Machiavelli e i rivoluzionari, il problema di ricercare un assoluto altrettanto autorevole su cui fondare il potere. In Francia come in America questo problema dell’assoluto si presentò quando i rivoluzionari dovettero sostituire la volontà del monarca, che per secoli era stata capace di assicurare al potere quella forza e quell’autorevolezza che si ritenevano necessari, con qualcosa d’altro. Per la Arendt, gli Stati Uniti risolsero il problema con l’assolutizzazione della Costituzione e con il “mito della fondazione”. Resero cioò quasi sacra la Costituzione, come ebbe a lamentarsi Jefferson, e trovarono nella fondazione della repubblica l’autorità di cui necessitava il nuovo organismo politico. Fondarono un nuovo stato e trovarono l’assoluto nella fondazione stessa. In Francia invece nessuna Costituzione era durata a lungo, la volontà delle Assemblee non era sufficientemente autorevole ed il monarca era stato decapitato. Secondo la Arendt il problema di Robespierre e di molti rivoluzionari era di come assicurare che le conquiste della rivoluzione non andassero perse. La proclamazione della festa dell’Ente Assoluto, espressione di un certo deismo illuminista, sarebbe come la prova di questa necessità di un assoluto a cui ancorare la rivoluzione. Un altro aspetto importante di cui si ò occupata la Arendt ò sicuramente quello del terrore rivoluzionario. L’analisi della Arendt fa appello a ragioni tra loro molto diverse per cercare di cogliere la natura del terrore nei suoi aspetti più sottili. In primis, mette in luce la connessione tra le teorie politiche di Rousseau, la questione sociale e la deriva terroristica della rivoluzione francese. Oltre questa prima spiegazione ne fornisce un’altra di ordine psicologico. Non ò un mistero che le teorie politiche che avevano ispirato maggiormente gli uomini della rivoluzione, come Robespierre, erano quelle di Rousseau. L’influenza maggiore il ginevrino la eserciterà con il suo capolavoro “Il contratto sociale”. In quest’ opera Rousseau sviluppa le concezioni contrattualistiche del ‘600 fino ad esiti democratici. Il contratto sociale, secondo Rousseau, fa nascere una volontà generale. Quando gli uomini si spogliano dei propri interessi individuali e accettano che le deliberazioni avvengano solo a maggioranza, allora si può essere sicuri che la volontà generale sarà sempre buona. Questa enfasi sulla nocività degli interessi individuali ò propria del giacobinismo e di altre correnti politiche a noi più vicine. Se l’interesse personale ò il nemico della democrazia, allora la spirale del sospetto e del terrore può facilmente innescarsi. Il terrore giacobino era rivolto in definitiva verso l’uomo in quanto tale, poichè ogni uomo ò portatore di un’individualità non riconducibile ad una “astratta” generalità . Per capire le dinamiche del terrore ò utile dire qualcosa di più sulle caratteristiche della volontà generale di Rousseau. La volontà generale doveva essere unica ed indivisibile poichè non ha senso che la volontà deleghi ad altri i propri compiti e nemmeno, se vuole agire, che sia divisa. Robespierre diceva, infatti ” Il faut una volontò UNE”. Per combattere la lotta rivoluzionaria non bastava il consenso ma era necessaria una volontà unica e capace, in quanto fermissima, di agire. La somma degli interessi dei singoli porta per Rousseau al consenso ma la volontà generale ò qualcosa di molto di più. Si affermava nella rivoluzione, visti i problemi che si dovevano risolvere, il concetto che il potere dovesse essere una volontà capace di volere e non di discutere. Constant, successivamente, vide il limite di questa concezione politica nel fatto che non erano posti limiti a ciò che per sua natura tende a degenerare: il potere. Per Constant i rivoluzionari erano convinti che il potere fosse stato per secoli cattivo e loro non dovevano far altro che renderlo buono. Per Rousseau un potere senza limiti non era per forza negativo. Un potere illimitato che nasce ed ò sorretto da buoni princìpi e da un corretta procedura di fondazione non può che esser buono. Perciò non sentiva di dover porre alcun limite al potere. Anzi, ogni limitazione della volontà generale ò contraria al buon senso. Infatti, la legge non esiste prima che gli uomini diano vita al contratto sociale, perciò porre un limite legale al fondamento stesso della legge sembrava al ginevrino un controsenso. Per Rousseau non ha senso appellarsi contro la volontà generale perchè non solo non vi sono leggi che non scaturiscano da essa ma le decisioni di questa volontà non potranno che essere buone e rivolte al bene della collettività . Il potere che Rousseau immagina ò qualcosa di molto simile a quello assoluto dei monarchi francesi: indivisibile, assoluto, concentrato in una solo organo. Per Rousseau il potere appartiene alla collettività , ma, di fatto, non appartiene a nessuno poichè questa realtà astratta e impersonale che ò la volontà generale si costituisce spogliandosi di ogni residuo di individualità e dunque di umanità . Il potere è di tutti ma nessuno, dirà Constant, può esercitarlo, visto che al governo non ò assicurata nessuna stabilità , e così finisce per cadere nelle mani delle “balie”. Le leggi liberticide e oppressive che videro la luce nel periodo della rivoluzione, basti pensare alla legge sui sospetti, sono il frutto del fatto che la legge fosse identificata con il volere della volontà generale e in definitiva, visto quanto abbiamo detto, con il volere arbitrario di alcuni. Rifiutando la teoria della divisione dei poteri, e non riuscendo a dare nessuna autorità alle Costituzioni che furono promulgate, la rivoluzione francese si condannò ad una lunga navigazione senza riuscire a scorgere un qualche approdo sicuro. Coerentemente alla sua impostazione, la Arendt non vede il terrore o le epurazioni come frutto della necessità o come fisiologiche alla lotta politica ma come l’esito di una precisa inclinazione di coloro che lo generano. L’inclinazione in questione ò la pietà . Arendt non vuole certo affermare che un tale sentimento sia negativo ma vuole dire che il prevalere di una concezione sentimentale della politica può avere effetti disastrosi. La miseria del popolo francese era senza dubbio immensa ed immensa era la pietà di molti uomini verso di essa. Una pietà sconfinata, incapace di limitarsi può rendere tuttavia gli uomini inumani e la storia ci ha dimostrato che a volte davanti al desiderio di realizzare un grande bene alcuni abbiano visto come necessaria la durezza e il sacrificio di altri uomini. Il male necessario per raggiungere le splendide mete che gli uomini intravedono ò una costante in molti rivoluzionari successivi. Per Robespierre la fedeltà alla rivoluzione non si esprimeva con la semplice adesione ad un programma o ad alcune scelte. La fedeltà era prima di tutto una qualità del cuore, un’ inclinazione alla virtù che doveva permeare il rivoluzionario fin nei suoi più intimi pensieri. Questo amore per la virtù ò il motivo per cui in Robespierre sarà forte l’ossessione per l’ipocrisia. Il concetto che la persona significhi sostanzialmente una maschera era del tutto rifiutato da Robespierre. Socrate invitava i suoi amici ad essere come volevano apparire agli altri, ma i virtuosi della spontaneità pretendono che l’uomo sia e non appaia. La conseguenza di questa volontà , di scrutare fin in fondo al cuore di ogni uomo, ò il sospetto. Ogni uomo ò sospettabile perchè imperscrutabile ò la sua coscienza. Il sospetto ò dunque la conseguenza di un’assolutizzazione della virtù. L’epurazione come rimedio dell’ipocrisia diviene così una costante della rivoluzione francese.
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- Filosofia - 1900