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Orazio

La filosofia di Orazio.

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Orazio In età angusta anche Orazio si professa epicureo. Ha però sostituito la carica polemica e l’intento pedagogico di Lucrezio con una riflessione più sottile e raccolta. Il tema della fuga da se stesso è frequente in Orazio. Nell’epistola a Bullazio, alla strenua inertia, l’inguaribile incapacità di vivere, il poeta contrappone l’animus aequus, l’equilibrio che ci fa apprezzare la quotidianità. Così la serenità ci appare come una ricerca più che un’acquisizione. Nelle epistole.il poeta svela il suo lato nascosto: malinconia, insoddisfazione, precarietà esistenziale, fino a quella malattia dell’anima che è il funestus veternus della lettera a Celso Albinovano. Orazio scrivendo a Bullazio gli, manifesta quella depressione inquieta che doveva essere il male del tempo: vv.32 strenua nos exercet inertia (ci tormenta un inerzia spossante ). Possiamo notare, inoltre, che “strenua ínertia” ci appare da un punto di vista retorico come un accostamento di parole semanticamente antitetiche ed ossimoriche: strenuus, infatti, indica dinamismo, al contrario di inertía che vuol dire inattività (da inars). Emergono. infine, ben due facce dell’angoscia esistenziale il tema, dell’affannoso peregrinare alla ricerca di quella felicità che solo l’animus aequus può dare fu di grande attualità nella società augustea, quando la pacificazione dopo le guerre civili insieme alla crescente ricchezza avevano reso di gran moda i viaggi. Ma, se da una parte, vi era la presenza di molte coscienze tormentate dall’assenza di grandi ideali, dall’altra viaggiare in continuazione testimonia la vita insoddisfatta; eppure la ricerca di un angolo, che sia tranquillo e, comunque, costituito di vecchie cose familiari dimostra la paura del cambiamento. Troppo spesso e con troppa facilità Orazio viene indicato come il poeta epicureo che invita a godere la vita nei suoi aspetti materiali, finché l’età e la salute lo permettono, senza preoccupazioni per il domani che sarà come gli dei lo vorranno. Troppo si insiste sul motivo del carpe diem presentandolo come programma di edonismo volgare, che identifica la felicità con i piaceri di una vita gaudente, il cui simbolo è per eccellenza, il banchetto, se non addirittura la crapula. Questo però è l’ideale di vita epicureo solo nel senso vulgato del termine, che a ben altro invitano gli insegnamenti di Epicuro, da Orazio imparati alla scuola di Napoli. Del resto esso non si adatta neppure alla natura seria e pacata del poeta, alla sua indole ragionativa e al suo innato buon gusto alieno da tutto ciò che sia volgare ed eccessivo. Il carpe diem e l’esortazione a godersi la vita tra le gioie del banchetto e dell’amore sono invece la concentrazione, sempre dalla poesia antica, del principio morale di non vale la pena amareggiarsi per cose destinate a scomparire ben presto o, nell’ipotesi migliore a mutarsi. Probabilmente Orazio pensa più alla tranquillità e alla serenità dell’animo che al Tripudio del vero banchetto: la sua massima tende perciò ad un “vivi in serenità”. La posizione di Orazio, dunque, ben diversa da una gaudente volgare e sfrenato, senza inibizioni morali. Spesso egli parla di aurea mediocrítas di modus (misura) e di fínis ( limiti), al di là e al di qua dei quali non può stare il buono e il giusto e la posizione mediana in ogni campo, che evita gli estremismi pericolosi. Orazio insiste soprattutto sulla mediocritas in morale: egli non è un filosofo, anche se intellettualmente è cresciuto nel circolo epicureo di Napoli, ma è un uomo che ragiona seguendo quel buon senso, che il padre gli ha istillato ad ogni occasione, mostrandogli nel comportamento degli uomini gli eccessi dannosi e disonoranti. Perciò l’argomentazione a sostegno delle sue teorie non sono ragioni ideologiche, tratta da un sistema filosofico, ma osservazioni spicciole, corredate da esempi tolti perlopiù dalla mitologia e dalla tragedia greca. Nel suo personale viaggio, Orazio va alla ricerca di un centro di gravità: (segue nel file da scaricare)

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