Vita e filosofia di Adam Smith - Studentville

Vita e filosofia di Adam Smith

Vita e pensiero del filosofo Adam Smith.

Introduzione Uno dei maggiori rappresentanti della filosofia scozzese del Settecento ò Adam Smith. Nato a Kirkcaldy, presso Edimburgo, nel 1723, Smith studiò a Glasgowcon Hutcheson e, qualche anno dopo la morte di quest’ultimo, gli succedette sulla cattedra di Filosofia morale. Nel 1763 lasciò l’insegnamento per andare in continente in qualità  di precettore privato: durante questo viaggio soggiornò a Parigi, dove entrò in contatto con l’ambiente della fisiocrazia francese, in particolare con Quesnay e con Turgot. Ritornato in patria, condusse a lungo vita privata, poi divenne commissario alle Dogane e infine Rettore dell’università  di Glasgow. Morì nel 1790. La prima opera di Smith, la Teoria dei sentimenti morali (1759), risente ampiamente della frequentazione di Hutcheson e di Hume. Il principio fondamentale della vita morale ò infatti il sentimento della simpatia: gli uomini sono naturalmente portati a giudicare positivamente le azioni che contribuiscono alla socievolezza reciproca e negativamente quelle che la ostacolano. Questo giudizio riguarda non solo le azioni degli altri, ma anche le nostre proprie. Ciascuno di noi ha infatti uno “spettatore imparziale ” dentro di sè, che gli consente di valutare le sue azioni con gli occhi degli altri, in base quindi dell’utilità  che esse presentano per la sua persona, ma alla loro accettabilità  dal punto di vista sociale. La stessa coscienza morale non ò quindi per Smith un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l’uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo. Il sentimento della simpatia permette così di introdurre un principio di armonizzazione nell’apparente conflitto tra gli impulsi sociali e quelli egoistici. Infatti la felicità  di ognuno ò possibile soltanto attraverso la realizzazione del bene degli altri. Un analogo principio armonicistico guida l’analisi dei processi socio-economici che Smith compie nel suo capolavoro, l’ “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni ” (1776). Testimone delle trasformazioni che investono la vita economica dell’Inghilterra, nella quale si stanno affermando, sia pure in forma embrionale, i meccanismi del moderno capitalismo industriale, Smith non nega che l’elemento propulsore di ogni attività  economica ò l’interesse individuale. Apparentemente, la comparazione di questi interessi descrive una condizione di aspra conflittualità  sociale: gli imprenditori hanno interesse a pagare il meno possibile il lavoro dei loro operai e questi ultimi, viceversa, vogliono percepire il salario più alto possibile. Ma quando si considerino gli interessi individuali e i processi socio-economici cui essi danno luogo da un punto di vista generale, anzichè particolare, si vede che essi trovano la loro armonizzazione nel tutto e conducono pertanto a un vantaggio generale da cui traggono profitto anche coloro che sono apparentemente più svantaggiati. Esiste dunque una mano invisibile che guida i singoli interessi al di là  delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una totalità  che sfugge allo sguardo parziale dell’individuo. Smith condivide pertanto i presupposti ottimistici dell’illuminismo in generale e della fisiocrazia francese in particolare – da lui frequentata, come si ò visto, durante il viaggio in Europa – in base ai quali i processi socio-economici rivestirono, come tutte le altre attività  umane, un carattere naturale che garantisce la loro bontà , almeno finchè non interviene l’uomo con un improvvido intervento artificiale. Per questo Smith ritiene – ancora una volta riprendendo un suggerimento dei fisiocrati parigini – che l’azione dello Stato in fatto di economia, vuoi regolamentando i processi produttivi, vuoi introducendo restrizioni nella libertà  di commercio, sia del tutto dannosa: essa rischia infatti di compromettere quel vantaggio generale che che necessariamente si acquisisce quando si lascia che le cose seguano il loro ordinario corso naturale. In alternativa alla politica economica del mercantilismo seicentesco, che prevedeva massicci interventi dello Stato, soprattutto in direzione della difesa della produzione nazionale con dogane o divieti di importazione di merci estere, Smith e i fisiocrati francesi caldeggiano l’instaurazione del più completo liberismo economico. L’unico intervento legittimo da parte dello Stato ò quello di prelevare imposte dai guadagni privati degli individui in modo da poter garantire quei servizi pubblici che ridondano poi a beneficio di tutti e di ciascuno. Smith non ritiene che i meccanismi socio -economici da lui illustrati o le regole da lui raccomandate in fatto di economia siano semplici teorie: al contrario egli pensa che esse rispecchino leggi del tutto assimilabili a quelle che determinano il carattere, la concatenazione e lo sviluppo dei fenomeni naturali. Con Smith l’economia politica, cioò l’arte di bene amministrare la vita economica dello Stato, esce quindi dall’ambito della precettistica empirica per aspirare allo statuto di una vera e propria scienza. Smith, in un periodo in cui si discuteva ampiamente se la vera ricchezza fosse nell’ agricoltura o nell’ industria, si chiese: ma che cosa è che fa il valore di una cosa? La risposta che trovò fu sostanzialmente questa: la cristallizzazione del lavoro presente nella merce in questione. Di fatto tutte le cose che abitualmente compriamo o vendiamo sono incommensurabili e sarebbe quindi impossibile effettuare vendite o acquisti: un fruttivendolo che vada da un calzolaio quanti kg di patate dovrebbe dargli per avere un paio di scarpe? E’ assurdo ! Teoricamente si potrebbero solo scambiare merci uguali: patate con patate e scarpe con scarpe. Eppure noi sappiamo che le scarpe e le patate hanno un loro valore, che è dato dal lavoro presente in esse: un tot di lavoro per fare le scarpe e un tot per le patate. Tra le varie ” scoperte ” di Smith c’è anche quella dell’ importanza della divisione del lavoro: contò che per produrre uno spillo occorrevano 19 passaggi e capì che facendo fare un solo passaggio ad una sola persona si ottenevano due effetti positivi: innanzitutto costava meno perchò si trattava di manodopera meno qualificata, dovendo fare solo un passaggio. Poi si accorse che effettuando un solo passaggio l’ operaio finiva per diventare bravissimo. Smith, tuttavia, si accorse anche dei limiti della suddivisione del lavoro: un fabbricatore di liuti ha un rapporto soggettivo con ciò che produce, lo fa con amore perchò lo vede nascere e poi lo vede finito; un operaio al quale spetti un solo passaggio non può avere questo rapporto con ciò che produce e, per di più, il compiere sempre e solo lo stesso passaggio causa in lui un abbrutimento fisico. Riprendiamo ora in modo più approfondito la questione della mano invisibile: per Smith lo stato non deve assolutamente intervenire nell’ economia ( egli è quindi un liberista ) e le cose vanno lasciate al loro destino senza interventi statali: ciascuno deve fare i propri interessi; d’ altronde Smith diceva: ” non è dalla generosità  del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi “. Ma allora, dirà  qualcuno, ci sarà  chi si arricchisce e chi si impoverisce sempre più ! Per Smith non è così: se tutti fanno i propri interessi è ovvio che aumenterà  in qualche misura la ricchezza collettiva e tutti godranno dei vantaggi, sebbene in maniera diversa: è ovvio che chi investe guadagnerà  di più del povero, ma tuttavia anche quest’ ultimo avrà  un incremento positivo di ricchezza: ” cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’ industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società … egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, egli ò condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Nò per la società  ò un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società  in modo più efficace di quando intende realmente realmente promuoverlo. ” Quello che può essere considerato un vizio nel campo privato, ossia il fare i propri interessi, diventa una virtù nel campo pubblico. Vita e opere Adam Smith nasce nella piccola cittadina di Kirkcaldy, sulla costa orientale della Scozia, nel 1723. La data esatta non ò nota; sappiamo solo che dev ‘essere successiva alla morte del padre, avvenuta in gennaio, e antecedente di poche settimane al 5 giugno, che ò il giorno del battesimo. Il giovane Smith trascorre un‘infanzia tranquilla, allevato dalla madre Margaret con l’aiuto dei parenti fin quando nel 1737 si trasferisce a Glasgow per frequentare la locale università . Fra i suoi docenti il preferito ò Francis Hutcheson (1694-1746), autore di un Sistema di filosofia morale pubblicato postumo nel 1755. Hutcheson considera l’uomo come un animale essenzialmente sociale, tanto da rifiutare la separazione tra etica e politica; inoltre, ò noto per aver coniato la famosa frase “la massima felicità  del massimo numero”, talvolta impropriamente attribuita al filosofo utilitarista Jeremy Bentham (1748-1832), il cui pensiero ò in realtà  assai lontano da quello degli esponenti dell’illuminismo scozzese. All’epoca, quattordici anni non erano un’età  insolita per iscriversi all’Università , che era in realtà  un istituto di istruzione superiore. La caratteristica del sistema d’istruzione scozzese, a tutti i livelli, era che gli studenti pagavano corso per corso i docenti. La retribuzione complessiva di questi ultimi dipendeva quindi dal giudizio del pubblico sulla bontà  del loro insegnamento: un sistema che lo stesso Smith sperimenterà  da professore, e che dichiara di considerare nettamente preferibile a quello delle grandi università  inglesi come Oxford, finanziate da fondi pubblici e da lasciti privati e dove i docenti, ricevendo un regolare stipendio, non erano incentivati a fare il loro mestiere con impegno. Proprio a Oxford, al Balliol College, Smith prosegue i suoi studi a partire dal 1740, con una borsa di studio (la Snell) che garantiva 40 sterline annuali per undici anni, come preparazione per una carriera ecclesiastica. Come si ò accennato, Smith non trova di suo gradimento la celebre università  inglese, tradizionalista e autoritaria; ad esempio, il giovane Adam e’ punito per essere stato sorpreso a leggere il Trattato della natura umana (1739- 40) di David Hume (1711-1776), considerato sostenitore di un vago teismo, che più tardi diventerà  uno dei suoi migliori amici. Forse queste stesse letture lo inducono a respingere l’idea di una carriera ecclesiastica. Così, dopo sei anni difficili, nel 1746 Smith decide di tornare in Scozia, a Kirkcaldy, dove trascorre due anni studiando per suo conto e scrivendo alcuni saggi di argomento letterario e filosofico. Per tre anni, dal 1748 al 1751, Smith tiene conferenze pubbliche a Edimburgo, sulla retorica e sulla letteratura inglese, con discreto successo di pubblico e finanziario (un centinaio di persone pagano una ghinea l’anno ciascuno per ascoltare il giovane conferenziere, mentre gli sponsors, tra i quali Lord Kames, pagano le spese). Sulla scia della fama ottenuta con queste conferenze, nel 1751 Smith diviene professore all’università  di Glasgow, dapprima di logica (ma le sue lezioni riguardano essenzialmente la retorica, come le conferenze di Edimburgo), e successivamente di filosofia morale. – Di quegli anni ci restano gli appunti di un suo corso di lezioni di retorica, presi da uno studente nel 1762-63, ritrovati nel 1958 e pubblicati nel 1963, e quelli di due corsi di “giurisprudenza” (del 1762-63 e del 1763-64, ritrovati rispettivamente nel 1958 e nel 1895, e pubblicati nel 1978 e nel 1896). Si tratta di testi che, oltre ad avere un notevole interesse di per sè — come studio della natura umana e delle forme di comunicazione, e come analisi delle istituzioni e del loro sviluppo nel corso della storia —, mostrano come l’autore avesse già  in quegli anni, e dunque prima di entrare in contatto con i flsiocrati francesi, ben chiari i temi principali che confluiranno nella Ricchezza delle nazioni. Nello stesso periodo Smith scrive e pubblica il suo primo libro, la Teoria dei sentimenti morali (1759). In esso propone una “morale della simpatia”, secondo la quale le azioni di ogni individuo dovrebbero essere guidate dal giudizio che di esse darebbe uno “spettatore imparziale”, ben informato delle circostanze. Ciascun individuo, infatti, desidera l’approvazione degli altri, proprio perchè ciascuno vive non isolato ma come membro della società . Questo libro ha un notevole successo, giungendo ad avere sei edizioni prima della morte di Smith nel 1791. Fra i lettori del libro vi ò Chades Townshend, patrigno del giovane duca di Buccleuch, che propone a Smith di fare da tutore al giovane aristocratico, accompagnandolo in un viaggio nel continente. La proposta ò attraente, non solo perchè accompagnata da un vitalizio di 300 sterline annue, ma anche per la prospettiva di entrare in contatto diretto con il nucleo più vivo della cultura dell’epoca. Smith accetta, e all’inizio del 1764 si dimette dalla sua cattedra di Glasgow. I viaggi nel continente sono l’occasione di incontri con Voltaire a Ginevra, con d’Alembert, Quesnay e tanti altri a Parigi. Dobbiamo ricordare che all’epoca la Scozia ha una discreta vita culturale, relativamente libera (specie in confronto all’autoritarismo e al conformismo prevalenti nelle università  inglesi) e ricca di solido buon senso, soprattutto nel campo delle scienze sociali; ma il vero centro intellettuale ò rappresentato dalla Francia, in particolare Parigi. Glasgow ò ancor più periferica di Napoli, dove nel 1754 viene istituita per l’abate Antonio Genovesi (1712-1769) la prima cattedra di economia politica e dove ò attivo l’abate Fernando Galiani (1728-1787), autore di un celebre Trattato della moneta (1751), che in ogni caso trascorre volentieri molti anni a Parigi. Quando Smith arriva nella capitale francese, Fra ncois Quesnay (1694-1774), medico di Madame de Pompadour alla corte di Luigi xiv ha da pochi anni pubblicato il suo Tableau èconomique (1758), mentre Anne Robert Jacques Turgot (1 727-1 781), che sarà  Ministro delle finanze dal 1774 al 1776, deve ancora pubblicare le sue Riflessioni sulla formazione e distribuzione delle ricchezze (1769-70). La cultura dell’Encyclopèdie (la cui pubblicazione inizia nel 1751), la fiducia nella ragione e nel progresso si riflettono anche negli altri paesi europei; ma il fervore del dibattito dei celebri salotti parigini ò imputabile altrove, e offre a Smith stimoli che egli rielaborerà  negli anni successivi. Al termine dei viaggi nel continente, infatt4 grazie al vitalizio del duca di Buccleuch, Smith può dedicarsi a tempo pieno alla stesura della Ricchezza delle nazioni, nella tranquillità  della sua nativa Kirkcaldy dove abita con la madre tra il 1767 e il 1773. Nel 1773 si trasferisce a Londra per seguire da vicino la stampa del libro, che comunque richiede altri tre anni di lavoro. Finalmente, il 9 marzo 1776, il più famoso libro di economia di tutti i tempi arriva nelle librerie, incontrando una calorosa accoglienza da parte del pubblico, con cinque edizioni nel giro di dodici anni. Hume, suo grande amico, gli scrive una lettera entusiastica. Da tempo malato, David Hume muore lo stesso anno. Smith scrive un resoconto dell’ultimo periodo di malattia dell’amico, sottolineandone il coraggio stoico: il resoconto, pubblicato nel 1777, gli procurerà  “dieci volte più malevolenza di quella suscitata dai violenti attacchi [della Ricchezza delle nazioni] al sistema commerciale della Gran Bretagna” (come scrive lo stesso Smith in una lettera ad Andreas Holt dell’ottobre 1780). Nel 1778, consultato sulla situazione americana, Smith scrive un memorandum in cui sostiene l’opportunità  di adottare un sistema uniforme di tassazione per la Gran Bretagna, l’Irlanda e le colonie americane, accompagnato dall’elezione in Parlamento di rappresentanti di queste popolazioni (sulla base del principio “no taxation without representation”, niente tasse senza rappresentanza politica). Inoltre, Smith prevede la perdita delle colonie americane (tranne il Canada) e il graduale spostamento del baricentro economico e politico dall’Inghilterra all’America. Sempre nel 1778 Smith viene nominato Commissario delle dogane per la Scozia, e si trasferisce a Edimburgo, seguito dalla madre. Lì vive tranquillamente (pur profondamente rattristato, nel 1784, dalla morte della madre), svolge con scrupolo il suo incarico e cura con la consueta meticolosità  le nuove edizioni dei suoi libri, fino alla morte che sopravviene il 17 luglio 1790. Le teorie I contributi di Smith riguardano vari campi: la retorica, la filosofia morale, la giurisprudenza, l’economia. Naturalmente, non possiamo considerare ciascuno di questi campi specifici, ma solo quello al quale Smith deve la sua fama, l’economia. Tuttavia ò importante ricordare che le sue riflessioni su questo argomento (e quindi il libro in cui sono esposte) sono parte di una ricerca più generale sull’uomo e sulla società : due elementi che, come insegnava il suo maestro Hutcheson, costituiscono in realtà  un unico oggetto di studio. Il punto di partenza della riflessione economica di Smith ò costituito dalla divisione del lavoro. Il suo obiettivo, dunque, ò spiegare come funziona un sistema economico in cui ogni persona ò impegnata in un compito specifico e ogni impresa produce una merce specifica. La divisione del lavoro non ò un fenomeno nuovo, sul quale Smith per primo richiami l’attenzione. Come dice un grande storico del pensiero economico, Joseph Schumpeter (1883 -1 950), si tratta di “un eterno luogo comune della teoria economica”, di cui avevano già  parlato autori della Grecia classica come Senofonte o Diodoro Siculo, o autori del secolo precedente quello di Smith come William Petty (1623-1687)1. Smith tuttavia ò il primo a porre la divisione del lavoro alla base della riflessione analitica con cui cerca di spiegare quali fattori determinano il tenore di vita di un paese, e le sue tendenze a progredire o a regredire. La tesi di Smith può essere riassunta come segue. Innanzi tutto, la ricchezza delle nazioni” viene identificata con quello che oggi chiamiamo il reddito pro capite, cioò in sostanza con il tenore di vita dei cittadini di un paese. Si tratta di un ‘identificazione che ormai consideriamo scontata, ma che non era affatto tale quando Smith la introdusse. Con essa infatti viene superata la tendenza degli economisti cameralisti e mercantilisti, “consiglieri del principe” nei decenni precedenti, a considerare come obiettivo la massimizzazione del reddito complessivo di un paese, in quanto fonte di potere economico e quindi di potere militare e politico (una concezione per la quale la Svizzera sarebbe meno “ricca” dell’India). In secondo luogo, ricordiamo che il reddito nazionale ò pari alla quantità  di prodotto ottenuta in media da ciascun lavoratore (o produttività  del lavoro) moltiplicata per il numero dei lavoratori occupati nella produzione. Se dividiamo il reddito nazionale per la popolazione, otteniamo il reddito pro capite; di conseguenza, il reddito pro capite risulta eguale alla produttività  del lavoro moltiplicata per la quota dei lavoratori attivi sul totale della popolazione. In altri termini, il tenore di vita della popolazione dipende da due fattori: la quota di cittadini impiegati in un lavoro utile, e la produttività  del loro lavoro. Qui entra in gioco la divisione del lavoro. Infatti, secondo Smith, la produttività  dipende soprattutto dallo stadio raggiunto dalla divisione del lavoro. A sua volta, questo dipende dall’ampiezza dei mercati. Un ‘impresa che aumenta le sue dimensioni per realizzare al suo interno una migliore divisione del lavoro deve infatti collocare sul mercato un prodotto che ò cresciuto sia per l’aumento del numero dei lavoratori impiegati sia per l’aumento della loro produttività . Di qui il liberismo di Smith: tutto ciò che ostacola i commerci costituisce anche un ostacolo allo sviluppo della divisione del lavoro, e quindi all’aumento della produttività  e alla crescita del benessere dei cittadini, cioò della ricchezza delle nazioni. Gli “aritmetici politici” come Gregoty King (1648-1 712) e Charles Davenant (1656-1714), noti per i loro tentativi di descrivere in termini quantitativi la società  dell’epoca, avevano illustrato la situazione economica dell’Inghilterra utilizzando una divisione del sistema economico nazionale in geografiche: un modo di procedere comprensibile per un ‘epoca in cui aree commerci erano assai ostacolati dalle difficoltà  dei trasporti. Successivamente, invece, si afferma il criterio di suddividere la società  in classi sociali Sulla scia di Richard Cantillon (c. 1680-1734), autore del Saggio sulla natura del commercio in generale (pubblicato postumo nel 1755) e di Quesnay, Smith considera una società  divisa in tre classi. Tuttavia la sua tripartizione — lavoratori, capitalisti, proprietari terrieri (con le tre forme di reddito corrispondenti: salari, profitti e rendite) — ò diversa da quella dei suoi predecessori — agricoltori, artigiani, nobiltà  e clero —. Quest’ultima classificazione rispecchia una società  in transizione dal feudalesimo al capitalismo, quella di Smith una società  capitalista (pur se oggi la classe dei proprietari terrieri ha ormai perso in pratica tutta la sua importanza, mentre si sono affermati i ceti medi). Anche per quest’aspetto, dunque, Smith segna l’affermazione dello schema concettuale che caratterizzerà  la scienza economica moderna. Date le differenze di potere contrattuale tra i capitalisti e i lavoratori, questi ultimi ricevono un salario appena sufficiente a mantenere se stessi e le proprie famiglie. Il reddito dei capitalisti e dei proprietari terrieri, cioò profitti e rendite, ò pari nel complesso al sovrappiù ottenuto nel sistema economico. 11 sovrappiù — un concetto che Smith riprende da Petty, Cantillon e Quesnay — ò pari a quella parte del prodotto che eccede quanto serve a ricostituire le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Questo concetto ò il perno della rappresentazione classica del funzionamento dell’economia come “produzione di merci a mezzo di merci”. Periodo dopo periodo, nel sistema economico le imprese utilizzano le scorte iniziali di mezzi di produzione (e i lavoratori utilizzano le scorte iniziali di mezzi di sussistenza) nel corso del processo produttivo; al termine di esso ottengono un prodotto che serve innanzitutto a ricostituire quelle scorte iniziali per permettere il ripetersi del ciclo; quel che avanza, il sovrappiù, può essere utilizzato per accrescere le scorte di mezzi di produzione e di sussistenza, aumentando il numero di lavoratori impiegati nella produzione e quindi il prodotto, oper consumi “improduttivi” (oltre ai consumi di lusso, i consumi di sussistenza di quanti non lavorano o di quanti svolgono un lavoro che non dà  risultati concreti, cioò non mette capo a merci vendibili sul mercato). Smith attribuisce notevole importanza al processo di accumulazione, cioò all ‘impiego produttivo del sovrappiù, ma soprattutto attribuisce importanza centrale come fattore di sviluppo economico alla crescita della produttività  derivante dal progresso nella divisione del lavoro. Come si ò accennato, la divisione del lavoro pone un problema di coordinamento tra i vari soggetti economici. Ogni impresa produce una merce o un gruppo di merci, e per continuare a produrre ha bisogno di cedere almeno una parte di quanto ha prodotto in cambio dei mezzi di produzione che le sono necessari per continuare la sua attività . Allo stesso modo i lavoratori ottengono un salario che devono poter convertire nei mezzi di sussistenza di cui necessitano. Il “miracolo del mercato” consiste appunto nel fatto che le forze spontanee della concorrenza assicurano questo coordinamento, per cui merce per merce le quantità  prodotte dall’insieme delle imprese operanti in ciascun settore corrispondono grosso modo alle quantità  domandate in condizioni normali dagli acquirenti. Il meccanismo di aggiustamento che permette di raggiungere questo risultato consiste nei movimenti dei “prezzi di mercato”, cioò dei prezzi effettivi ai quali si verificano gli scambi. In una situazione di squilibrio, questi prezzi si muovono in modo tale da indurre acquirenti e produttori a modificare i loro comportamenti spingendo il sistema economico verso l’equilibrio. Infatt4 quando per una qualche merce la domanda supera l’offerta, la concorrenza tra gli acquirenti che rischiano di restare insoddisfatti spinge il prezzo di mercato verso l’alto. Viceversa, quando l’offerta supera la domanda, la concorrenza tra i produttori che rischiano di non riuscire a vendere la propria merce spinge il prezzo verso il basso. Quel che Smith essenzialmente intende mettere in luce ò che, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti il comportamento dei singoli individui, l’economia di mercato nel suo complesso riesce a funzionare in modo più o meno soddisfacente. I meccanismi di mercato operano come una “mano invisibile” che guida l’economia in modo da assicurare quel benessere materiale che ò precondizione indispensabile per una vita civile. In questo modo Smith dà  una precisa risposta a tre dibattiti che si intersecano nel XVIII secolo: quello sul diritto all’autodeterminazione individuale, almeno in campo economico, quello sugli effetti indesiderati dell’agire umano e quello sulle motivazioni degli individui. Per questi due ultimi temi, la sua risposta ò per vari aspetti analoghi a quella di Bernard de Mandeville (1670-1733), che nella celebre Favola delle api (1714) sostiene che i vizi privati indirizzano le azioni umane in modo da avere come esito le pubbliche virtù; di conseguenza non vi ò da preoccuparsi se gli uomini non sono mossi da stimoli altruistici, ma dall’interesse personale. Il tema ò ricco di sfumature, perse di vista da quanti hanno troppo frettolosamente attribuito a Smith una concezione stereot4pa di homo oeconomicus, freddamente razionale e intento unicamente alla ricerca del proprio tornaconto. Questa concezione ò attribuibile piuttosto ai filoni più estremisti dell’utilitarismo benthamita, che individuano in un meccanico “calcolo felicifico” dei piaceri e delle pene la guida dell’agire umano. La costruzione benthamita ò stata in effetti accolta e utilizzata nella costluzione di teorie economiche. Tuttavia ciò non ò avvenuto ad opera degli economisti classic4 da Smith stesso a David Ricardo (1772-1823) e John Stuart Mill (1806-1873), che pure fu allievo diretto di Bentham, ma che se ne scostò esplicitamente proprio su questo punto. L’idea del “calcolo felicifico” ò stata invece ripresa dagli economisti marginalisti come William Stanley Jevons (1835-1882), prevalenti a partire dal 1870 circa; òsulla scia di questa impostazione che Lionel Robbins (1898 -1984) ha proposto la fortunata definizione del problema economico come un problema di utilizzazione razionale delle scarse risorse disponibili, di fronte alla scelta tra una molteplicità  di desideri. àˆ opportuno sottolineare che Smith parla di “self-interest” (interesse personale), non di “selfishness” (egoismo), e che la teoria sugli effetti positivi del perseguimento dell’interesse personale sviluppata nella Ricchezza delle nazioni va letta alla luce di — e non in contraddizione con —quanto lo stesso Smith aveva scritto nel suo precedente lavoro, la Teoria dei sentimenti morali. In esso, come si ò già  accennato, Smith propone una “morale della simpatia”, per la quale l’individuo ricerca continuamente l’approvazione dei suoi simili. Questa propensione morale agisce da contrappeso alle motivazioni più egocentriche: il perseguimento dell’interesse personale avviene all’interno di un quadro di regole morali, oltre che giuridiche (Smith ricorda che le seconde hanno scarsa efficacia, se non sono sostenute dalle prime), che garantisce un esito socialmente positivo. Cosi, Smith può affermare che “non ò certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse” (oltre, p. 73), escludendo implicitamente un esito negativo causato dal diffondersi di sofi •sticazioni alimentari o frodi in commercio. Nel perseguire l’arricchimento personale, dice Smith, “ognuno può correre con tutte le proprie forze, sfruttando al massimo ogni nervo e ogni muscolo per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. E una violazione del fair play che non si può ammettere” 2 Proprio su questi temi — l’importanza delle fondamenta sia giuridiche sia culturali e morali dell’economia di mercato — ò tornata recentemente a soffermarsi l’attenzione degli studiosi di Smith, che propendono ormai per una lettura integrata delle sue opere anzichè per una cesura netta dell’analisi economica dalle riflessioni etiche e dallo studio delle istituzioni giuridiche 3. Questi temi si riflettono anche nel dibattito sulla concezione smithiana del liberismo. Le tesi di Smith poggiano su una petizione di principio che ha valenza generale, e non solo economica, contrapponendosi alpatemalismo tipico della struttura sociale e della cultura di una società  feudale, e più precisamente all’idea che il comportamento degli individui debba essere regolato dall’alto: “Ogni uomo ò certamente, da ogni punto di vista, più capace e più adatto di ogni altra persona a prendersi cura di se stesso” ~. Smith muove da una concezione realistica e non idealizzata degli uomini, che non sono considerati nè santi nè onniscienti, ma neppure abietti e incoscienti; d’altra parte, ricorda Smith, anche i governanti sono uomini. La concretezza dell’analisi smithiana porta così, in campo più strettamente economico, a un atteggiamento generalmente ostile all’intervento pubblico, ma in modo tutt’altro che dogmatico. Come altri temi del pensiero smithiano, comunque, anche quello del liberismo ò stato oggetto di vivaci dibattiti interpretativi. La mano invisibile La tesi di una sostanziale continuità  della ricerca di Smith trova conferme anche prestando attenzione alla persistenza di specifici temi nell’arco della sua produzione. Così il tema della “mano invisibile” non ò affatto confinato — come si crede comunemente — nella “Ricchezza delle Nazioni” in collegamento con l’ analisi della produzione della ricchezza in una società  economica caratterizzata dal rifiuto del mercantilismo. Questo tema, molto probabilmente derivato dalle riflessioni sugli Stoici, ò presente anche in altre opere di Smith. L’attenzione continua di Smith per tutti quegli equilibri che non possono essere spiegati come risultato di azioni consapevoli dei soggetti coinvolti, ò testimoniata proprio dall’uso ricorrente di questa metafora di una “mano invisibile”. Così in SF alla “mano invisibile di Giove” si ricorre come a una delle possibili fonti per spiegare i fenomeni naturali, una fonte che non fu per altro esplicitamente riconosciuta nel mondo antico. Nella “Teoria dei Sentimenti Morali” si ricorre ancora alla “mano invisibile” per sostenere che i ricchi sono da essa spinti a realizzare una distribuzione dei beni necessari per la vita quasi identica a quella “divisione eguale” che favorisce gli interessi della società . Probabilmente ò corretto sostenere che uno dei contributi offerto da Smith con le sue ricerche ò quello di avere richiamato l’attenzione sugli equilibri. Così si esprime Smith circa la dottrina della mano invisibile (dottrina che sarà  accettata dallo stesso Hegel e confutata da Marx): “In effetti egli [l’individuo] non intende, in genere preseguire l’interesse pubblico, nè ò consapevole della misura in cui lo sta perseguendo. Quando preferisce il sostegno dell’attività  produttiva del suo paese invece di quella straniera, egli mira solo alla propria sicurezza e, quando dirige tale attività  in modo tale che il suo prodotto sia il massimo possibile, egli mira solo al suo proprio guadagno ed ò condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni. Nè il fatto che tale fine non rientri sempre nelle sue intenzioni ò sempre un danno per la società . Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l’interesse della società  in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo. Io non ho mai saputo che sia stato fatto molto bene da coloro che affettano di commerciare per il bene pubblico. In effetti, questa ò un’affettazione non molto comune tra i commercianti, e non occorrono molte parole per dissaderli da questa fisima” (“La ricchezza delle nazioni”).

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