I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 10
Analisi del Capitolo 10 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Il capitolo 10 conclude la struttura ad anello iniziata nel capitolo 11, collocando Lucia nel monastero e lasciandola lì per dedicarsi, nel capitolo successivo, alle esperienze di Renzo a Milano.
Tema del capitolo è il potere dell’inconscio sulla personalità di un individuo.
Il capitolo si apre con l’entrata in scena del principe padre, di cui finalmente si conoscono, in presa diretta, metodi e abilità diabolica.
Gertrude è autentica, istintiva, gli si butta in ginocchioni davanti, supplicando il perdono e chiedendogli amore, mentre il padre agisce come un principe machiavellico, dosando perfettamente le parole, il tono della voce e le espressioni del volto. In questa scena prevalgono i discorsi, diretti e indiretti, soprattutto del principe, che sfoggia tutta la sua eloquenza: come sottolinea il narratore, la subdola coercizione sulla figlia è una scelta da principe, non da padre.
Anche la madre e il fratello sono definiti per il loro ruolo sociale di principessa e principino, privati del loro ruolo familiare e ridotti a marionette nelle mani del padre – principe – regista. La famiglia non esiste se non come entità sociale e politica.
Il principe intende bloccare l’emotività e la razionalità della figlia, ma non potendo agire sul piano razionale, perché dovrebbe rivelare alla figlia le vere ragioni che la costringono alla monacazione, cerca allora di sollevarne la vanità, festeggiandola come se dovesse andare a quelle nozze che le sono state negate. Viene rappresentato in pieno lo spettacolo dell’ipocrisia, in cui il dovere consiste nel congratularsi con una ragazza destinata ad una vita di reclusione e nel farne, in climax, l’idolo, il trastullo, la vittima; la presentazione finale in cui tutti se n’andarono senza rimorso, appare come un doppio senso, perché gli ospiti vanno via senza rimorso per aver fatto i complimenti alla sposina, ma anche senza il rimorso di essere complici del sacrificio di una vittima.
A completare l’opera di stordimento interviene la governante del principino, una di quelle comparse tratteggiate con grande vivacità realistica.
Il risveglio di Gertrude è subito angoscioso: la vecchia ciarliera le pone davanti l’immagine del fratello, già prepotente e prevaricatore come dovrà essere quando sarà principe e che appare addirittura come la vittima che deve disturbarsi per causa sua, con la solita inversione tra apparenza e realtà.
La madre di Gertrude appare assolutamente ignara delle manovre del marito e l’unica volta che si sente investite di una qualche responsabilità e crede di essere incaricata di scegliere la madrine, la sua unica battuta in tutto il romanzo viene stroncata dal principe per dare “libertà di scelta alla figlia”. Loda la figlia perché ha tanto giudizio, ma in realtà vuole dirle di avere giudizio nello scegliere la madrina.
All’ultimo atto della tragedia (rr. 296-380), anche il principe appare teso, ma sua intelligenza non deraglia mai, perché non è soggetta all’irrazionalità e all’emotività e, quasi leggesse nel pensiero della figlia, le blocca ogni dubbio sul nascere: fino ad ora ogni passo è stato una scelta libera di Gertrude, che avrebbe avuto la possibilità di cambiare idea in ogni momento, ma ora non più.
Se sarà titubante, il vicario potrebbe pensare che il padre l’abbia forzata ed egli, per salvare l’onore proprio e della casata, sarebbe costretto a infangare quello di Gertrude, rivelando la vera causa che l’ha spinta a chiedere la monacazione, cioè la tresca con il paggio. Il ricatto non potrebbe essere più esplicito e apparentemente legittimo quasi, se non fosse inficiato dalla premessa errata che sia la tresca con il paggio, e non la volontà paterna, a costringere Gertrude alla monacazione; l’istinto la porterebbe a rivelare la verità al vicario, ma la logica del padre è inoppugnabile e il prelato, per quanto autorevole, non può aiutarla.
La figura del vicario, d’altronde, appare piuttosto equivoca e molto diversa da quella del cardinale Borromeo, che messo di fronte ad un caso simile reagirà in modo opposto (cap. XXII, rr. 224 e ss.): egli si lascia influenzare dall’autorità del principe e interroga la ragazza nella forma prescritta dalle regole, senza adeguare le regole alla persona che ha davanti, visibilmente a disagio.
Il sommario della vita di Gertrude in attesa della monacazione, sottolinea ancora una volta il conflitto della sua anima: lo spazio all’aria aperta è descritto come elemento di coppia spaziale simbolica, di cui l’altro elemento è il chiuso del monastero.
La seconda parte del capitolo e la trattazione della vita della monaca in convento sono introdotti da uno snodo narrativo costituito da una riflessione sul valore della religione cristiana che riecheggia un passo della Morale cattolica.
In convento Gertrude, libera ormai dalla presenza paterna, anche se costretta alla clausura potrebbe trovare un senso alla propria vita, invece rimane in balia dell’incoerenza dei suoi sentimenti, che la fanno passare da un eccesso all’altro senza darle soddisfazione né pace.
Il giudizio di condanna del narratore sull’atteggiamento di Gertrude è mitigato dall’uso di espressioni di umana comprensione, con l’aggettivo giudicante infelice.
Segue un brano che tratta i fatti riguardanti l’incontro e la relazione di Gertrude con Egidio, che nel Fermo e Lucia avevano largo spazio. Racconta lo storico secentesco nelle Historiae Patriae che Gian Paolo Osio, il personaggio a cui si ispira la figura di Egidio, “giovane e ricco ozioso……mise gli occhi per caso su una di esse e amorosamente si parlavano”.
Manzoni riduce al minimo la fase di seduzione, limitandosi ad indicare che da una sua finestrina, Egidio vide Gertrude e un giorno osò rivolgerle il discorso.
Altrettanto taciuta è la passione di Gertrude, di cui ci è dato conoscere solo gli effetti su di lei e tocca al lettore ricostruire la sua vicenda interiore.
L’ellissi dell’omicidio della conversa viene rivelata solo dall’indicazione che se ne sarebbe potuto saper di più se, invece di cercar lontano, si fosse scavato vicino.
Conclusa la lunga analessi, il narratore riprende il racconto dove lo aveva interrotto nel capitolo precedente, anche se il clima è cambiato. Il lettore, dopo il dramma e l’orrore, si ritrova improvvisamente in un’atmosfera quotidiana, sebbene turbata dall’atteggiamento equivoco di Gertrude, ancora più inquietante vista dal punto di vista di Lucia.
La metalessi finale funge da snodo narrativo, che preannuncia un passo indietro alla mattina della stessa giornata ed evoca i sentimenti di don Rodrigo prima ancora di presentarlo in scena.
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