I Promessi Sposi – Analisi del Capitolo 15
Analisi del Capitolo 15 dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni
Luoghi: Milano, osteria della luna piena, il palazzo di giustizia, le strade cittadine.
Il tempo: notte di sabato 11 e mattina di domenica 12 Novembre 1628.
La struttura tripartita di questo capitolo vede protagonisti, in ognuna delle tre parti, due dei tre personaggi principali del capitolo, diversamente accoppiati: Renzo e l’oste, l’oste e il notaio, il notaio e Renzo.
La presenza di Renzo all’inizio e alla fine del capitolo rende circolare la struttura e collega l’inizio di questo capitolo con il precedente e la fine con quello seguente. L’ambientazione oscilla negli spazi dell’oste e del notaio, entrambi estranei a Renzo.
L’oste mette Renzo a letto
L’oste rivela già nell’esordio una dose di moralità che lo spinge a portare Renzo a letto e a farsi pagare onestamente, senza approfittare dell’ubriachezza del giovane, oltre a dimostra di essere prudente e previdente: chiude l’uscio a chiave, per non far scappare Renzo, bada che l’ostessa lascia i figliuoli in guardia a una loro servetta e, attento agli affari, la esorta a badar che gli avventori paghino e a far vista di non sentire.
Se c’è una buona dose di opportunismo nel suo comportamento, egli dimostra anche una sua coscienza: occupa il tempo del suo breve viaggio con un soliloquio e però critica l’ingenuità di Renzo: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Il conflitto tra città e campagna si riconferma così come coppia spaziale di rilievo nel romanzo. Dopo averlo messo a letto, l’oste si ferma a contemplare Renzo addormentato ed è in questa scena che la parola amore è usata nel suo senso erotico, in una similitudine che rimanda al mito di Eros e Psiche.
L’oste al palazzo di giustizia
Con un sommario di sintetizzano i piani per prevenire nuovi disordini: si produrrà più pane e lo si farà distribuire sotto il controllo dei nobili, che si rivelano alleati della polizia. L’ossimoro reo buono uomo rivela che quel che ci voleva era solo un poveraccio, il più semplice da incastrare, per di più nuovo affatto del paese.
Nel dialogo tra l’oste e il notaio criminale il gioco sulla lingua si fa spassosissimo: l’oste mostra un’abilità straordinaria nel manipolare la lingua per deviare le domande intimidatorie del notaio che, da parte sua, usa il linguaggio modellato a metà strada tra quello burocratico delle gride e quello arcaico dei nobili, con espressioni ricercate. Lo scontro tra i due è l’emblema dello scontro tra due classi, il notaio esponente della nobiltà, in un cui parole e realtà non coincidono, l’oste del popolo, che ristabilisce la verità con cognizione di causa, con competenza in fatto di leggi, addirittura maggiore di quella dell’avversario.
Il risveglio di Renzo
Renzo, con quello stupore quasi infantile mostrato di fronte alla gran macchina del duomo o ai pani sparsi lungo le vie, resta come incantato di fronte al notaio e ai due sbirri armati dopo essersi svegliato a fatica, come rivelano le frasi cadenzate dalla ripetizione del polisindeto e. tuttavia, pur comprendendo la situazione e cercando di prendere tempo per riflettere, è ancora così ingenuo da credere di avere diritto ad esser condotto da Ferrer, perché è ancora convinto che sia un galantuomo. Il notaio non può permettersi di ridere alla richiesta di Renzo, perché fuori lo aspetta la folla già in fermento, tenta di non far sembiante di essere preoccupato, ma persino l’ingenuo Renzo si accorge della sua preoccupazione.
Da uomo di potere ricorre all’ipocrisia e alla buone parole, ma Renzo ha imparato a non fidarsi e cerca di tirare in lungo e persino di tentare un colpo, provando a farsi condurre alla piazza del duomo, per trovare aiuto nella folla. La maturazione di Renzo è messa in evidenza dal climax ascendente (sentiva, vedeva e pensava), segno della sua nuova capacità di ascoltare, osservare e ragionare.
Renzo in manette
Per potenziare la suspense, il narratore interrompe continuamente l’azione. Il colpo di scena dell’ammanettamento di Renzo viene bloccato dal ragguaglio extranarrativo sui manichini e dalla breve metalessi metanarrativa in cui il narratore dichiara di preferire la chiarezza realistica piuttosto che la gravità e solennità che allontana dalla verità storica.
Con il discorso del notaio, che pretende di essere furbo e finisce invece per suggerire a Renzo il modo di scappare, riprende la suspense e il lettore si chiede se e come l’eroe riuscirà a fuggire. La scena si blocca di nuovo con la metalessi, un altro ragguaglio narrativo con cui il narratore informa che il notaio era un furbo matricolato.
In strada
La scena propone l’eroe in azione. È una delle poche scene davvero romanzesche dei Promessi sposi e Renzo ne è protagonista, orami furbo abbastanza per aspettare il momento opportuno, prima di chiedere aiuto. L’ironia massacra il notaio, con quel suo sussurrare, e gli sbirri, tanto stupidi da doversi consultare con l’occhio per arrivare alla conclusione sbagliata.
Il tempo narrativo passa al presente, le frasi si fanno brevi, coordinate per asindeto e concitate; in seguito, inquadrando il notaio, la scena rallenta con l’uso dell’imperfetto durativo ( bisbigliava al notaio), poi torna al presente con la reazione della folla ( voci più chiare di protezione s’alzano in risposta), mentre i birri, con un anticlimax, sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano fino a fuggire.
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