Deleuze e Guattari hanno pubblicato in Francia il saggio “Che cos’ò la filosofia? “, in cui presentano in forma sistematica le loro idee sulla produzione teorica della seconda metà del XX secolo. Secondo loro, ò questa una domanda che deve essere concepita in vecchiaia, nel farsi sera di una giornata di lavoro. E’ così, affaticati per il lungo cammino, e con molti bagagli, che possiamo tentare di incontrare ciò che ci interessa in mezzo alla diversità della produzione filosofica e porre a noi stessi la domanda oracolare: che cos’ò la filosofia? La risposta data dai pensatori francesi, lo sappiamo, ò che la filosofia ò attività di creazione di concetti. Attività nel senso wittgensteiniano del termine, che richiama la nozione di filosofia come un fare, nel suo aspetto materiale. Ma non qualsiasi attività , piuttosto una attività di creazione, perchè alla filosofia tocca creare e non scoprire, incontrare. Infine, una attività di creazione concettuale, perchè il concetto ò la materia e il prodotto della filosofia, la sua specificità . Scrivono che ” Il filosofo ò l’amico del concetto, ò in potenza di concetto. Ciò vuol dire che la filosofia non ò una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, perchè i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, ò la disciplina che consiste nel creare concetti. [â¦] Creare concetti sempre nuovi ò l’oggetto della filosofia. E’ proprio perchè il concetto deve essere creato, che esso rinvia al filosofo come a colui che lo possiede in potenza o che ne ha la potenza e la competenza. [â¦] I concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come fossero corpi celesti. Non c’ò un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano “. Intendendo la filosofia come creazione di concetti, Deleuze e Guattari sottopongono a dura critica tre prospettive molto comuni quando oggi cerchiamo di definire la filosofia: secondo loro, la filosofia non ò nè contemplazione, nè riflessione, nè comunicazione. I filosofi francesi non stanno in alcun modo esercitando il disprezzo per la diversità delle filosofie e tentando di imporre un’unità ; stanno piuttosto cercando una definizione possibile e plausibile di attività filosofica che possa essere applicata a tutte le filosofie, per quanto diverse e distinte esse siano. In questa impresa, tentano anche di dimostrare che determinate “definizioni” di filosofia non colgono, di fatto, la sua specificità . La filosofia non ò contemplazione, come per molto tempo – per ispirazione soprattutto platonica – si ò ritenuto, perchè la contemplazione, anche dinamica, non ò creativa; consiste nella visione della cosa stessa, considerata preesistente e indipendente dal proprio atto del contemplare, e non ha nulla a che vedere con la creazione di concetti. E neppure ò comunicazione, e questo ò detto contro due figure emblematiche della filosofia contemporanea: Habermas, con la sua proposta di una razionalità comunicativa, e Rorty e il neopragmatismo, che propongono una “conversazione democratica”. Perchè la comunicazione può mirare soltanto al consenso, mai al concetto; e il concetto, molte volte, ò più dissenso che consenso. E, in ultimo, la filosofia non ò riflessione, semplicemente perchè la riflessione non ò specifica dell’attività filosofica: a chiunque ò possibile (e non soltanto al filosofo) riflettere su qualsiasi cosa. Poichè tra noi ò davvero cosa comune intendere la filosofia come una forma specifica di riflessione su determinati problemi, la critica di Deleuze ò radicale, perchè dice che la filosofia può riflettere, ma non ò questo che la rende filosofia e non un’altra cosa. ” Non ò riflessione perchè nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere su una cosa qualsiasi: si crede di concedere molto alla filosofia facendone l’arte della riflessione, ma al contrario le si sottrae tutto, perchè nè i matematici hanno mai atteso i filosofi per riflettere sulla matematica, nè gli artisti sulla pittura o sulla musica; dire che quando ciò accade essi diventano filosofi ò uno scherzo di cattivo gusto, tanto la loro riflessione appartiene alle rispettive creazioni “. Non possiamo identificare la filosofia con nessuno di questi tre atteggiamenti perchè nessuno di essi ò specifico della filosofia, ” la contemplazione, la riflessione, la comunicazione non sono discipline, ma macchine per formare degli universali in tutte le discipline “. D’altra parte, ò proprio della filosofia creare concetti che consentano la contemplazione, la riflessione e la comunicazione, senza cui questi atteggiamenti non potrebbero esistere. Se la filosofia guadagna in densità e identità come impresa di creazione concettuale, allora perde ogni senso la questione sempre discussa della utilità della filosofia o lo stesso annuncio, spesso ripetuto, della sua morte, del suo superamento: ” quando ò il caso e il momento di creare dei concetti, l’operazione che ne consegue si chiamerà sempre filosofia, anche se le si desse un altro nome “. In un’altra occasione Deleuze aveva affermato che ” la filosofia consiste sempre nell’inventare concetti. Non mi preoccuperei affatto del superamento della metafisica o della morte della filosofia. La filosofia ha una funzione che rimane pienamente attuale, creare concetti. Nient’altro può far questo al suo posto. Certo la filosofia ha sempre i suoi rivali, dai ‘rivali’ di Platone fino al buffone di Zarathustra. Oggi sono l’informatica, la comunicazione, la promozione commerciale ad essersi appropriate dei termini ‘concetto’ e ‘creativo’ e sono questi ‘campioni del concetto’ a presentarsi come una razza spavalda che esprime l’atto di vendere come il supremo pensiero capitalista, il cogito della merce. La filosofia si sente piccola e sola danti a così grandi potenze, ma, se proprio deve morire, che almeno muoia dal ridere. ” Un’altra critica interessante ò quella che Deleuze e Guattari rivolgono alla discussione. Siamo abituati a vedere la filosofia come una forma di dibattito, di discussione, fedeli all’agonismo greco delle origini della filosofia. Ma Deleuze e Guattari dimostrano che, nella prospettiva della filosofia come creazione di concetti, la discussione può fornire elementi per la creazione di nuovi concetti, ma non ò nella discussione che consiste l’attività filosofica. ” E’ per questo che il filosofo non ò molto incline a discutere. Qualunque filosofo fugge quando sente la frase: adesso parliamo un poco. Le discussioni vanno bene per le tavole rotonde, ma ò su un’altra tavola che la filosofia getta i suoi dadi cifrati. [â¦] La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare. Non sopporta il dibattito, ma non perchè sia troppo sicura di sè: al contrario, sono le sue incertezze che la spingono verso altre e più solitarie vie. Eppure Socrate non faceva della filosofia una libera discussione fra amici? La conversazione degli uomini liberi non ò forse il culmine della socievolezza greca? In realtà Socrate non ha mai smesso di rendere impossibile qualunque discussione, sia con il rigido scambio di domande e risposte, sia con il lungo rivaleggiare dei discorsi. Ha trasformato l’amico in amico del solo concetto, e il concetto nel monologo spietato che elimina uno dopo l’altro i rivali “. Bene, non abbiamo tempo e non ò nostro proposito presentare qui i principi topici dell’opera di Deleuze e Guattari. Vorrei però mettere in risalto alcuni punti che mi sembrano fondamentali per giustificare alcune considerazioni sull’esercizio dell’insegnamento della filosofia come attività con i concetti, ed anche di creazione di concetti. Il primo di questi aspetti riguarda la critica alle forme che normalmente le lezioni di filosofia assumono nelle nostre scuole. Non sono poche le metodologie di insegnamento della filosofia che, richiamandosi a Socrate e alla maiueutica, difendono e definiscono le lezioni di filosofie come lezioni fondate sul dialogo. In questo dialogo, ciascuno espone la sua opinione e cerca di ottenere consenso sulle tesi in discussione. Ma, se torniamo alla figura classica di Socrate, come colui che fa nascere la verità che ò di fatto già dentro ciascuno, le lezioni di filosofia produrranno esperienze nelle quali si confrontano le differenti opinioni, fino a passare attraverso queste ai concetti? O si rimarrà soltanto al livello della confronto di opinioni? In questo caso la lezione non avrà nulla di filosofico, perchè anche Socrate e Platone cercavano di passare dalla “doxa” (opinione) all’ “episteme” (scienza). D’altra parte, come abbiamo visto nel brano prima citato, Deleuze e Guattari osano porre in questione la figura “immacolata” di Socrate: non sarà , al contrario, un abile e astuto retore, che riesce a sconfiggere qualsiasi avversario nel dialogo, trasformandolo in un monologo? Se intendiamo Socrate in questo modo, che cosa resterà della lezione di filosofia come dialogo? Ecco un altro problema in relazione al concepire la lezione di filosofia come basata sulla metodologia del dialogo: su che cosa si deve dialogare? O, detto in altro modo: quale deve essere il contenuto del dialogo? Qualsiasi tema va bene, quel che importa ò la forma, o vi sono temi che possono essere trattati filosoficamente ed altri che non possono esserlo? O, ancora, abbiamo qui la necessità intrinseca di coniugare forma e contenuto? Conosco molti professori che si accontentano, nelle loro lezioni di filosofia, di promuovere dibattiti e discussioni. Si parte dal principio che l’uso della metodologia del dibattito, del dialogo, o qualsiasi sia il termine che vogliamo usare, ò sufficiente a far sì che la lezione “diventi filosofica”⦠Ma in una lezione come questa gli allievi “producono” qualcosa? E il professore stesso “produce”? In una lezione come questa ò garantita l’attività con i concetti? Saranno prodotti concetti, o almeno gli allievi avranno accesso ai concetti, nel senso in cui Deleuze usa questo termine? Ho seri dubbi al riguardo. Un’altra forma che le lezioni di filosofia assumono ò quella della contemplazione, e qui assistiamo alla completa negazione della filosofia come attività creatrice, perchè la contemplazione, almeno a questo livello didattico- filosofico, porta quasi invariabilmente a una stasi, a una paralisi. In questo modello gli allievi sono spinti a contemplare determinate questioni così come sono concepite dai filosofi, e da questo trarre alcune conclusioni. Queste questioni da contemplare possono essere presentate in forma storica o problematica, ma in entrambi i casi non c’ò da sperare in un’attività più produttiva. Infine, abbiamo la lezione di filosofia come lezione di riflessione, con la possibilità di una presentazione più tematica o più storica – o anche con un misto di entrambe le prospettive -, che ha l’obiettivo di indirizzare gli allievi verso una attività di riflessione su questi temi o problemi. Non vorrei riprendere le critiche che abbiamo già visto alla filosofia come riflessione, ripeterò soltanto che nella prospettiva deleuziana nessuna riflessione ò, solo per questo, filosofica e, quindi, non sarà per il fatto di esercitare la riflessione in classe che avremo una lezione di filosofia. In questo modo a me sembra che la cosa più importante per le lezioni di filosofia sia intendere la filosofia come una attività , il che ci riporta al classico dibattito tra Kant ed Hegel: insegnare filosofia (cioò un contenuto) a il filosofare (cioò un metodo)? Intendere la filosofia come attività ci colloca in una dimensione in cui il processo non si separa dal prodotto. Quindi concepire la lezione di filosofia come un dialogo o un dibattito o anche come riflessione (in ogni caso come metodo) non garantisce la sua specificità , la sua identità filosofica. Manca qualcosa. Manca quello che Deleuze e Guattari identificano come il concetto, che ò metodo e prodotto allo stesso tempo. Bene, se stiamo lavorando adesso sulla proposta di Deleuze e Guattari di concepire la filosofia come attività di creazione concettuale e quindi che le lezioni di filosofia nell’insegnamento medio siano centrate sul concetto, va chiarito che cosa ò il concetto. In primo luogo, vale la pena ripetere che per questi autori soltanto la filosofia produce concetti. La scienza non opera con concetti, ma con quelli che loro chiamano “prospetti”, percezioni del reale espresse in proposizioni o funzioni; l’arte, da parte sua, lavora con “percetti” e “affetti” espressi in opere (siano esse plastiche, letterarie, musicali, e così via). Non ha quindi senso parlare di “concetti artistici” o di “concetti scientifici”, nella stessa misura in cui l’espressione “concetto filosofico” sarebbe una ridondanza. Poichè mantiene una relazione intrinseca con queste tre forme di esperienza del mondo e produrre sapere, ciascuna secondo le sue proprie caratteristiche, la filosofia assorbe qualcosa dalle arti e dalle scienze per produrre concetti, e può produrre concetti per esse. Ma la produzione di concetti ò una attività filosofica e i concetti sono sempre oggetto della filosofia. ” Di fatto, o la filosofia ignora tutto del concetto oppure lo conosce a pieno titolo e di prima mano, al punto da non lasciarne nulla alla scienza, che non ne ha d’altronde alcun bisogno e che si occupa solo degli stati delle cose e delle loro condizioni. Le proposizioni o funzioni bastano alla scienza, mentre la filosofia non ha bisogno, dal canto suo, di invocare un vissuto che potrebbe dare solo una vita fantomatica ed estrinseca a concetti secondari di per sè esangui “. Tenendo quindi come premessa che il concetto ò frutto della filosofia, Deleuze e Guattari lo presentano come un modo per esprimere il mondo, l’ evento. Il proprio concetto si fa evento, o dà importanza, rilievo ad un determinato aspetto del reale. Il concetto appare allora come il modo proprio della filosofia per costruire la comprensione del reale, al contrario della scienza, che cerca di trovare nel reale le funzioni che permettono di comprenderlo. Ogni concetto ò particolare e personale: ciascun filosofo, in quanto singolarità , crea i suoi propri concetti nella loro relazione col mondo e, con questo, crea il suo proprio stile: un modo particolare di pensare e di scrivere. I concetti sono creati a partire da problemi, collocati su un piano di immanenza. Questo piano ò proprio solo dei concetti e pertanto della filosofia, ed ò definito dal filosofo avendo come elementi: il tempo e il luogo in cui vive, le sue letture, le sue affinità e le sue idiosincrasie. E’ su questo piano che nascono i problemi e sono questi problemi a muovere la produzione concettuale. Ciascun filosofo o traccia il proprio piano oppure sceglie di operare su di un piano già tracciato; ò per questo che ò possibile parlare, per esempio, di platonismo, una volta che altri filosofi scelgano di abitare il piano dell’immanenza tracciato da Platone, e produrre concetti “platonici”, sulla scia della produzione del maestro. Molte volte assistiamo ad una vera e propria “appropriazione” di concetti. Ma prendere per sè il concetto di un altro filosofo significa dargli un nuovo senso, significa de-territorializzarlo e ri-territorializzarlo. Quindi il “furto” di un concetto ò tutt’altra cosa dal plagio, perchè finisce con l’essere un atto creativo: rubare un concetto, estrapolandolo dal suo contesto, significa trasformarlo, ricrearlo. E presentare il mondo attraverso dei concetti ò, come abbiamo detto prima, una maniera di firmarlo. E’ per questo che possiamo parlare di un universo newtoniano, di un mondo cartesiano, platonico o kantiano, solo per citare alcuni esempi. La filosofia intesa come produzione concettuale non ha, perciò, minori pretese di universalità e di unità : ciascun filosofo definisce il proprio mondo; i suoi concetti sono strumenti che utilizziamo o meno, a seconda che siano o non siano interessante per nostri problemi. O, per usare un’altra metafora a cui sono molto affezionato, le differenti filosofie appaiono come diversi occhiali che ci mostrano differenti volti del mondo. E, chiaramente, non si tratta qui di far sì che le diverse filosofie si pongano l’una contro l’altra sperando che una trionfi sull’altra, ma di concepire la possibilità che convivano – tranquillamente o meno – tra loro. La prima sfida ò intendere la filosofia – così come la scienza e l’arte – come una lotta contro l’opinione. Deleuze e Guattari dicono che siamo immersi nella opinione, che si presenta come l’unica forma per vincere il caos, che ci spaventa, ci angustia, fa sì che il nostro pensiero fugga da se stesso, le nostre idee si perdano nel vuoto. Ma l’opinione non vince affatto il caos, ma fugge da esso, come se questa fuga fosse possibile. E così l’opinione si consolida, nel gioco dell’oblio del caos, come se vivessimo tutti felici di non sapere – o non voler sapere – della sua esistenza, una volta costruito un mondo perfetto, in cui tutto ò al proprio posto. Da qui l’importanza che hanno acquisito nella nostra società , ai più vari livelli, quelli che chiamiamo “opinionisti”; sono loro gli artefici di questa droga che si estende tanto quanto il buon senso (ci sia permesso questo gioco di parole con Cartesioâ¦) e ci imprigiona sotto questo giogo. Ma questo significa vivere di apparenze, come denunciava Platone già quasi millecinquecento anni fa. Deleuze e Guattari reagiscono a questo conformismo, intendendo la filosofia, l’arte e la scienza come movimenti diversi compiuti per squarciare il caos, attraversarlo e imparare a convivere con esso, rigettando l’opinione generalizzante, che paralizza la creatività . Scrivono: ” Ma l’arte, la scienza, la filosofia esigono di più: esse costituiscono dei piani sul caos. Queste tre discipline non sono come le religioni che invocano delle dinastie di dòi o l’epifania di un solo dio per dipingere sull’ombrello un firmamento, come le figure di una Urdoxa da cui deriverebbero le nostre opinioni. La filosofia, la scienza e l’arte vogliono che noi strappiamo il firmamento e ci addentiamo nel caos “. Andare nel mondo dei morti e tornare indietro, con nuovi elementi creativi: ò questo che può offrirci la filosofia, come l’arte e la scienza. Nelle nostre lezioni di filosofia, quindi, dobbiamo far visita al mondo dei morti, dobbiamo far esercizio della immersione nel caos, per trovare in esso nuove potenzialità . Dobbiamo, infine, esercitarci a rifiutare le opinioni. La seconda sfida ò quello del dialogo della filosofia con gli altri saperi, dialogo che ha anch’esso bisogno di essere produttivo. Credo che la strada giusta sia la trasversalità . A me sembra che i curricoli scolastici e accademici debbano sempre più abbandonare la prospettiva disciplinare, che ò in crisi come modello di produzione/socializzazione dei saperi, e andare nella direzione di curricoli non disciplinari. Esercitando la creazione concettuale come adattamento, mi approprio del concetto di trasversalità , caro alla filosofia francese contemporanea, soprattutto a Foucault e a Deleuze, per proporre un curricolo in cui il movimento tra i saperi nella loro produzione/socializzazione/assimilazione avvenga in modo trasversale. Mi sembra importante sottolineare qui che il concetto di trasversalità , creato da Guattari più o meno alla metà degli anni sessanta (15), implica una impostazione rigorosamente non gerarchica. Poichè si trattava di ricercare una prospettiva sociale e libertaria di terapia che potesse contrapporsi all’impostazione borghese della psicoanalisi Guattari ha confrontato il concetto di trasversalità con quello di transfert, fondamentale in psicoanalisi. In quest’ultima, la relazione tra l’analista e il paziente ò estremamente gerarchizzata; nella prospettiva di Guattari, la trasversalità rende possibile la strutturazione non gerarchica delle relazioni tra i pazienti e di questi con l’analista, creando un gruppo terapeutico in cui tutti sono egualmente importanti. E’ necessario sottolineare che questa nozione di trasversalità non si avvicina in nulla a quelli che i documenti più recenti di politica educativa chiamano “temi trasversali”, che null’altro sono se non modi per tradurre in pratica l’interdisciplinarietà , che a dire il vero non rompe con il curricolo disciplinare. Così, questi temi trasversali mantengono e rafforzano la gerarchia dei curricoli mentre la loro visione trasversale romperebbe questa gerarchizzazione, consentendo l’emergere di nuovi saperi e nuove pratiche. Nella prospettiva della trasversalità , la filosofia nell’insegnamento medio deve attraversale ⦠aree di conoscenza e deve anche essere attraversata da esse, in modo da rendere possibile una prospettiva della complessità dei saperi e da alimentare in modo critico e creativo il processo di produzione dei concetti. La terza sfida ò questa, che la questione dell’insegnamento della filosofia sia trattata filosoficamente; Deleuze e Guattari parlano di una “pedagogia del concetto”. Dobbiamo apprendere a lavorare con i concetti, dobbiamo essere apprendisti e artigiani nel lavoro filosofico. Nell’opera di cui abbiamo fin qui trattato, affermano che ” Se le tre età del concetto sono l’enciclopedia, la pedagogia e la formazione professionale commerciale, solo la seconda può impedirci di cadere dalle vette della prima nel disastro assoluto della terza, disastro assoluto per il pensiero, qualsiasi siano, beninteso, i benefici sociali dal punto di vista del capitalismo universale “.
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