Cicerone - Studentville

Cicerone

Cicerone è il più grande esponente dell’oratoria romana e, con Virgilio e Lucrezio, la figura più rappresentativa della letteratura latina. La partecipazione alla vita pubblica e politica è integrata in lui dall’otium, cioè l’attività culturale e intellettuale, conciliando così la tradizione con l’innovazione. La lingua latina raggiunge con lui il più alto e ampio grado di espressione ed evoluzione, come testimonia il corpus della sua multiforme opera, che spazia dalle orazioni ai trattati filosofici, retorici e politici, alle oltre 800 lettere. Le sue opere hanno trasmesso non solo una conoscenza analitica dell’epoca in cui egli visse, come interprete tra i più significativi delle vicende politiche e culturali, ma anche della sua vita pubblica e privata. In questo senso egli è lo scrittore latino più completo.

[T2]La vita[/T]

Cicerone è forse l’autore più celebre della letteratura latina, ed è anche l’autore che conosciamo meglio.
Egli ci appare:
Sotto il profilo storico – politico, uno straordinario testimone del suo tempo
Dal punto di vista storico – culturale, colui che si propose nel modo più lucido e consapevole di operare una sintesi armoniosa della cultura romana arcaica e del pensiero filosofico greco
Sotto un profilo letterario, il massimo rappresentante dell’oratoria romana, il creatore della letteratura filosofica latina e il primo rappresentante del genere epistolografico.

Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino da una famiglia di possidenti non “nobile”, ma fornita dei mezzi economici e delle relazioni sociali necessarie per avviare i figli alla carriera politica.
Cicerone studiò a Roma e fin da giovanissimo frequentò il Foro, sotto la guida e la protezione dei più illustri ed autorevoli oratori del tempo, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, e Quinto Mucio Scevola l’augure. Proprio in casa di Scevola conobbe Tito Pomponio Attico: in lui Cicerone ebbe l’amico più caro.
Fra il 90 e l’89 a.C. Cicerone compì un anno di servizio militare; a venticinque anni (nell’81) difese la prima causa di cui conserviamo testimonianza, e l’anno successivo ottenne un notevole successo difendendo e facendo assolvere un cittadino d’Ameria accusato di parricidio da un liberto di Silla. Non era una causa difficile, le circostanze erano però politicamente delicate: Cicerone mostrò coraggio e intelligenza notevoli, non lesinando nella sua orazione elogi a Silla e al tempo stesso dando espressione e sfogo al disprezzo e allo sdegno dei Romani nei confronti di un parvenu come il liberto Crisogono.
Poco dopo cicerone lasciò Roma, intraprendendo un viaggio in Grecia e in Asia minore, che durò dal 79 al 77 a.C., durante il quale frequentò le scuole filosofiche d’Atene e tutte le più importanti scuole di retorica nelle città dell’Asia minore e delle isole.
Al ritorno nell’Urbe Cicerone sposa Terenzia, che nel 76 gli dà una figlia, Tullia. Nel 75 inizia la carriera politica, esercitando la questura in Sicilia; l’anno successivo ha il diritto di entrare per la prima volta in senato. Nel 70 la stima di cui gode si consolida e si accresce, in seguito al processo intentato da varie città della Sicilia contro l’ex governatore Verre. Cicerone accetta di assumere il ruolo d’accusatore ed ottiene una vittoria schiacciante su Quinto Ortensio Ortalo.
La carriera politica di Cicerone prosegue regolarmente; nel 69 è edile, nel 66 pretore; in questo anno egli pronuncia la sua prima orazione deliberativa, davanti al popolo, a favore della proposta di assegnare a Pompeo poteri straordinari e il comando della guerra contro Mitridate.
Nel 65 gli nasce il figlio Marco, intanto egli si stava impegnando a fondo nella campagna elettorale per il consolato. Nel 63 è console assieme ad Antonio, battendolo come numero di voti. Grandi furono il suo orgoglio e la sua soddisfazione, tanto più che egli, in quanto homo novus, poteva annoverarsi fra coloro che vengono eletti consoli non nella culla, ma nel Campo Marzio.
Durante il suo consolato s’impegnò su posizioni conservatrici, a difesa degli interessi dei ceti economicamente e socialmente più forti contro i cosiddetti populares.
Appena entrato in carica attaccò energicamente una proposta di legge agraria, tanto che essa fu ritirata dagli stessi proponenti.
La questione più spinosa che dovette affrontare e che gli procurò la massima gloria fu la congiura di Catilina. Cicerone sventò le sue trame e lo costrinse a lasciare Roma. Cicerone nella quarta catilinaria lasciò al senato la decisione di condannare o no alla pena capitale alcuni capi della congiura, non nascondendo la sua propensione per la condanna capitale. A favore di essa parlò poi Catone e la sua proposta fu accolta a larga maggioranza.
Alla fine del dicembre 63 Cicerone fu attaccato da un tribuno della plebe per aver messo a morte dei cittadini romani senza un regolare processo: l’accusa veniva dai suoi nemici di parte popolare, fra i quali era Clodio.
Nel frattempo Cicerone aveva comprato una lussuosa casa sul Palatino; possedeva splendide ville a Muscolo, a Formia, a Pompei, ad Anzio, a Cuma. Era considerato da tutti il massimo oratore vivente, ma il suo peso politico era già in declino: nel 60 Cesare strinse con Pompeo e Crasso il primo triumvirato ma Cicerone, invitato a collaborare, rifiutò per coerenza.
All’inizio del 58 Clodio fece approvare una legge che comminava la pena dell’esilio a chi avesse condannato a morte cittadini romani con procedura sommaria. Nel marzo 58 Cicerone parte per l’esilio, che dura sedici mesi.
Cicerone rientra a Roma trionfalmente all’inizio del settembre 57, pronuncia le orazioni di ringraziamento al senato e al popolo e poco dopo ottiene un parziale risarcimento dei danni economici subiti.
Dopo la dolorosa esperienza dell’esilio, abbandona l’opposizione alle leggi agrarie e si avvicina ai triumviri. Negli anni successivi rimane ai margini della vita politica, ma si adatta a difendere in tribunale vari personaggi legati a Pompeo e Cesare.
Nel 52 Clodio viene ucciso in una zuffa con Milone; Cicerone, che si è assunto la difesa di Milone, non riesce a tenere l’arringa che si è preparato: emozionate e interrotto, pronuncia quella che Quintiliano definirà un’oratiuncola e Milone viene condannato all’esilio.
Nel 51 Cicerone è costretto da una legge di Pompeo ad assumere il governatorato della Cilicia, dove si ferma un anno. Quando torna in Italia la guerra civile sta per scoppiare. Cesare il 10 gennaio 49 varca il Rubiconde con i suoi soldati e marcia verso Roma. Cicerone è incerto sulla posizione da assumere e s’illude di poter favorire una pacificazione. Si decide poi a raggiungere i pompeiani in Grecia, ma dopo la sconfitta di Farsalo torna in Italia e riamane a Brindisi, ad aspettare il corso degli eventi. Alla fine del settembre 47 si ha la riconciliazione fra Cesare e Cicerone, politicamente ormai fuori gioco.
Durante la dittature di Cesare, Cicerone cerca conforto nell’attività filosofica e letteraria. Alle amarezze che gli procura la situazione politica si aggiungono intanto dispiaceri e sofferenze nella vita privata. Nel 46 divorzia da Terenzia; trovandosi in gravi difficoltà finanziarie sposa la ricca orfana Publilia, di cui era tutore, ma il matrimonio fallisce subito. Nel febbraio del 45 muore Tullia in seguito ad un parto, lasciando il padre accasciato da quello che egli stesso considerò il dolore più grave della sua vita.
Il 15 marzo del 44 Cesare è assassinato, e Cicerone si schiera dalla parte degli assassini, mentre nel conflitto fra Antonio e Ottaviano appoggiò Ottaviano. Ottaviano si servì di lui per far legalizzare dal senato la sua posizione irregolare, e lo utilizzò come alleato nella lotta contro l’avversario: lotta cui Cicerone diede un notevole contributo sferrando una serie di violentissimi attacchi contro Antonio in senato e davanti al popolo, con le orazioni dette Filippiche.
Dopo la sconfitta d’Antonio a Modena, i due eredi di Cesare si riavvicinarono e, in occasione del secondo triumvirato, il nome di Cicerone fu scritto per primo nella lista di proscrizione dettata da Antonio ed approvata da Ottaviano. Raggiunto dai sicari d’Antonio nei pressi della sua villa di Formia Cicerone fu ucciso il 7 dicembre del 43 a.C.

[T2]L’eloquenza ciceroniana[/T]

Cicerone scrisse 106 orazioni: 58 sono giunte complete; delle 48 perdute sono rimasti frammenti di 17 e titoli di una trentina.

Dopo le prime prove giovanili, l’eloquenza ciceroniana si pose subito al di fuori delle scuole tradizionali di retorica, rifiutando sia la magniloquenza paludata dell’asianesimo sia l’asciuttezza stringata dell’atticismo. Cicerone segue gli insegnamenti del suo maestro Apollonio Molone di Rodi, stile intermedio o rodiese, ma sente molto l’influenza di Demostene, soprattutto per la varietà dei registri usati. Ne risulta uno stile del tutto personale e innovatore; il suo è vario e multiforme, ora solenne ora ampolloso, oppure secco ed essenziale, insomma uno stile duttile che si adatta alla psicologia degli ascoltatori per carpirne il consenso. Il periodo strutturato sulla concinnitas , cioè caratterizzato da simmetria ed equilibrio, è complesso, con andamento ipotattico, con molte figure retoriche (anafore, climax, antitesi, enumerazioni, omoteleuti ecc.). Cicerone usa la parola piegandola a tutti gli effetti desiderati. Nell’Orator egli illustra le tre qualità essenziali dell’oratore: docere o probare, delectare, movere o flectere. Il primo compito è quello di informare sul fatto ed esporre la propria tesi dimostrandone la validità; il secondo è quello di esporre i fatti piacevolmente, con un discorso vivace, serio, faceto, ironico, satirico, esemplificando sempre; l’ultimo infine è quello di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore, suscitando via via ira, entusiasmo, commozione, pietà. Commuovere gli animi degli ascoltatori è compito soprattutto dell’arringa finale (peroratio), culmine dell’orazione. Cicerone afferma di non aver mai tralasciato di ricorrere ad alcun espediente pur di rendere convincente la sua arringa.

[T2]Le opere retoriche[/T]

Cicerone trattò di retorica (=scienza e tecnica della persuasione) in diverse opere tra cui le più importanti sono il De oratore, il Brutus e l’Orator.

DE ORATORE: in 3 libri, fu scritto nel 55 a.C. E’ un dialogo di tipo platonico-aristotelico, cioè un’opera in cui l’autore affida la trattazione degli argomenti a diversi interlocutori, inseriti in una cornice finta, ma comunque in un contesto storico. I protagonisti sono Lucio Licino Crasso e Marco Antonio, che erano stati dei grandi oratori e avevano guidato il giovane Cicerone quando ancora frequentava il Foro, per questo Cicerone li ammirava molto.
Egli immagina che la scena si svolga nella villa di Crasso a Muscolo, nel 91 a.C., pochi giorni prima dell’improvvisa morte di Crasso, che Cicerone rievoca con commozione.

I libro: Crasso espone e sviluppa le tesi di fondo dell’opera:
“nessuno potrà essere riconosciuto un oratore perfetto se non avrà acquisito una conoscenza approfondita di tutti gli argomenti più importanti e di tutte le discipline”
Cicerone si scaglia contro quegli oratori greci che pretendevano di formare l’oratore perfetto soltanto attraverso regole ed esercizi, ma anche contro quelli che, come Antonio, ritengono che siano sufficienti le doti naturali. Cicerone afferma che un oratore debba essere dotato di una grande conoscenza che gli permetta di spaziare su più argomenti con abilità..

II libro: Antonio tratta delle “parti della retorica” che sono:
La inventio: ricerca degli argomenti da svolgere; in questa parte è anche inserito un excursus detto de ridiculus a proposito delle reazioni psicologiche che l’oratore deve saper suscitare;
La dispositio: ordine secondo cui vanno disposti gli argomenti;
La memoria: tecniche per memorizzare ciò che si deve esporre;

III libro: Crasso svolge i precetti relativi alla elocutio, cioè lo stile. Egli parla dell’ornatus, ossia dell’elaborazione artistica del materiale linguistico. I capitoli finali sono dedicati all’actio, ossia il modo in cui l’oratore deve tenere un discorso (dizione, tono della voce, gesti).

BRUTUS: scritto nel 46 a.C., sotto la dittatura di Cesare, in forma dialogica, ha come interlocutori Cicerone stesso e gli amici Attico e Marco Giunio Bruto, il futuro cesarida, a cui è dedicata l’opera.
Dopo un breve excursus sull’oratoria greca, Cicerone si dedica della storia di quella romana, dalle origini della repubblica fino all’età contemporanea, presentando circa 200 oratori in ordine cronologico. Nell’ultima parte Cicerone presenta se stesso come una sorta di punto di arrivo di un processo di perfezionamento dell’eloquenza romana, rievocando gli inizi della sua carriera, quando riuscì a battere Ortensio, il più grande oratore di quei tempi. In quest’opera, inoltre Cicerone si scaglia contro il neoatticismo, che era un movimento che si stava affermando tra i giovani (come lo stesso Bruto), rimproverando loro la povertà dello stile, esaltando di contro la grande eloquenza di Demostene, suo grande modello.

ORATOR: è dedicato sempre a Bruto ed è scritto in prima persona. Vi è ripresa la trattazione sullo stile dell’oratoria. Gli argomenti nuovi sono:
differenza tra lo stile oratorio e lo stile filosofico, storico, poetico;
distinzione dei tre livelli stilistici: alto, medio, umile;
trattazione della prosa ritmica.

[T2]Le opere filosofiche[/T]

Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell’ Arpinate. Innanzitutto, va detto che gran parte dell’ opera di Cicerone é pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione dei valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale dell’ Arpinate si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti: l’ afflusso di ricchezze dai paesi conquistati ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato repubblicano. D’ altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche é dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante ( gli optimates ) il cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui il rispetto per la tradizione nazionale ( mos maiorum ) non impedisca l’ assorbimento della cultura greca; una classe che l’ assolvimento dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, nè, in generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine di humanitas. Quella di Cicerone, chiaramente, rimane un’ ottica di parte, legata al progetto di egemonia di un blocco sociale ( sostanzialmente i ceti possidenti ): egli é fermamente contrario a qualsiasi progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti, Cicerone scorge la via d’ uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti abbienti, senatori e cavalieri ( concordia ordinum ). La sua, in fin dei conti, é e rimane una natura moderata in campo politico. In un secondo tempo, però, Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre, la concordia ordinum si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ ordine sociale e politico, pronte all’ adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. Il dovere dei boni é quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici: essi devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. Il progetto di concordia dei ceti abbienti, nelle due diverse formulazioni che Cicerone ne diede, significò in ogni caso un tentativo almeno embrionale ( é ovvio che i boni preferirono in ogni caso tutelare i propri interessi ) di superare in nome del superiore interesse della collettività, la lotta tra i gruppi e le fazioni all’ epoca dominanti la scena politica romana. Tuttavia il pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni: da tempo si dibatteva in Grecia se l’ oratore dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia. In gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione ( inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell’ oratore ). Un interesse particolare riveste il proemio, dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia ( cioè cultura filosofica ), quest’ ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’ oratore: l’ eloquenza priva di sapientia ha portato più volte gli stati in rovina. La soluzione ciceroniana é pensata esplicitamente per la società romana: molti anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore, una delle sue opere ” più curate “. Composto nel 55, durante un periodo di ritiro dalla vita politica, mentre Roma era travagliata dalle bande di Clodio e di Milone, é ambientato nel 91, al tempo dell’ adolescenza di Cicerone; sotto forma di dialogo ( sulle orme di Platone ) vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’ epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio ( 143 – 87 a.C. ), nonno del triumviro che fece uccidere l’ Arpinate, e Lucio Licinio Crasso, portavoce del pensiero di Cicerone stesso. Nel I libro Crasso sostiene, per l’ oratore, di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ ideale di un oratore più istintivo e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’ esempio degli oratori precedenti. Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche, ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio ( la raccolta di materiale ), la dispositio ( l’ organizzazione del materiale ) e la memoria ( l’ insieme delle tecniche per memorizzare i concetti ). Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale é assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere all’ actio ( recitazione ) dell’ oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica. La scelta del 91 per l’ ambientazione del dialogo ha un preciso significato: é l’ anno stesso della morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario ( l’ homo novus ) e Silla, nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni altri degli interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. La crisi dello stato é un’ ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l’ ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni, la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza della terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri. Cercando di conservare la verosomiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, Cicerone si é sforzato di ricreare l’ atmosfera degli ultimi giorni di pace dell’ antica repubblica. Il modello a cui si ispira é sostanzialmente quello del dialogo platonico: con gesto aristocratico, alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano. A sintetizzare la tesi principale di tutta l’ opera potrebbe valere un’ espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo: ” non l’ eloquenza é nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica dall’ eloquenza “. Si richiede quindi una vasta preparazione culturale ( soprattutto filosofica – morale ) all’ oratore: bisogna che egli sia versatile, abile a sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento, riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio; ma questo di per sè non basta: il tutto deve essere accompagnato dalla virtus, la quale deve mantenere l’ intero sistema oratorio ancorato all’ apparato dei valori tradizionali, in cui la ” gente perbene ” si riconosce. Crasso insiste perchè probitas ( integrità )e prudentia ( saggezza ) siano saldamente radicate nell’ animo di chi dovrà apprendere l’ arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati. La formazione dell’ oratore viene quindi a coincidere con quella dell’ uomo politico della classe dirigente. Egli dovrà servirsi della sua abilità oratoria non per blandire il popolo con proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni. Nelò 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più esile, l’ Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando il ritratto dell’ oratore ideale ( come Platone aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico ), l’ Arpinate sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare ( argomentare la propria tesi ), delectare ( produrre un effetto piacevole sull’ uditorio ), flectere ( muovere le emozioni tramite il pathos ). Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l’ oratore dovrà sapere alternare: umile, medio, e elevato o ” patetico “. Nel 44, poi, Cicerone compone i Topica, ispirati all’ opera omonima di Aristotele, i quali trattano dei topoi, i luoghi comuni ai quali può far ricorso l’ oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso. Ma possono farvi ricorso anche i filosofi, gli storici e i giuristi. Il modello del dialogo platonico ritorna poi, con maggiore evidenza, nel De re publica, al quale Cicerone si dedicò assiduamente fra il 54 e il 51. Non cercò, tuttavia, di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone aveva fatto nella sua ” Repubblica “: con gesto che gli diventava sempre più consueto, l’ Arpinate si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa suburbana di Scipione Emiliano, che con l’ amico e collaboratore Lelio é uno dei principali interlocutori. La ricostruzione della trama é purtroppo resa fortemente ipotetica, soprattutto per alcune sezioni, dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo ci é stato conservato. Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di governo ( monarchia, aristocrazia, democrazia ) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estreme, rispettivamente della tirannide, della oligarchia e della olocrazia ( governo della ” feccia ” del popolo ). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores ( gli antenati ) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l’ elemento monarchico si rispecchia nell’ istituzione del consolato, l’ elemento aristocratico nell’ istituzione del senato, l’ elemento democratico nell’ istituzione dei comizi. Il libro II si occupa della costituzione romana, mentre il III tratta della iustitia, ed é in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione dell’ acutissima critica che l’ accademico Carneade aveva svolto dell’ imperialismo romano: la critica si incentrava soprattutto sul concetto di ” guerra giusta “, ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di soccorrere i loro alleati, ( cioè sudditi ) in difficoltà, avevano progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera d’ influenza. Il IV libro si occupa dell’ educazione dei cittadini e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti. Nei libri IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae ( rettore e governatore dello stato ) o princeps. Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione l’ Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l’ avo, Scipione Africano, per mostrargli, dall’ alto del cielo, la piccolezza e l’ insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’ aldilà le anime dei grandi uomini di stato: questa parte, che costituisce la sezione finale dell’ opera, va generalmente sotto il nome di Somnium Scipionis. La teoria del regime misto cui si appella Scipione risaliva agli stessi Platone ( vedi le ” Leggi ” ) e Aristotele. Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre in inganno: il singolare si riferisce al ” tipo ” dell’ uomo politico eminente, non alla sua unicità ( come invece sarà invece per Machiavelli ); in altre parole, l’ Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche, principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: é questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato. Cicerone disegna così l’ immagine di un dominatore – asceta, rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia verso le passioni umane. L’ ideale ciceroniano era tuttavia difficilmente realizzabile: probabilmente proprio la convinzione della necessità di un governo di maggiore autorevolezza, e d’ altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l’ accentramento di enormi poteri nelle mani di pochi capi, spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri, nella speranza di mantenere l’ operato sotto il controllo del senato. Ispirandosi ancora al modello di Platone, che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, l’ Arpinate completò il dialogo sullo stato col De legibus, iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita. L’ azione stavolta non é posta in un’ epoca passata, ma nel presente, e interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto, e il grande amico Attico. L’ ambientazione é nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti, raffigurati secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo modello soprattutto nel Fedro di Platone. Quinto é tratteggiato come un ottimate estremista, Cicerone come un conservatore moderato, Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche. Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non é sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed é perciò data da Dio. Nel libro II l’ esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione utopica ( alla Platone ) ma sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel libro III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze. In gioventù l’ Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi più diversi, e ad interessarsi di filosofia continuò per tutta la vita: a scriverne, tuttavia, iniziò solo nel 46, con l’ operetta sui Paradossi degli Stoici, dedicata a Marco Bruto e incentrata soprattutto sull’ esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’ opinione comune. Ma é nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone, quali la morte della figlia Tullia. L’ Hortensius, perduto, era un’ esortazione alla filosofia, sul modello del Protrettico di Aristotele. Gli Academica, che trattavano i problemi gnoseologici, ebbero una duplice redazione: la prima, i cosiddetti Academica priora, in due libri; la seconda, gli Academica posteriora, in quattro libri. Il De finibus bonorum et malorum ( I limiti del bene e del male ) é da alcuni considerato il capolavoro filosofico di Cicerone: tratta questioni etiche, e cioè il problema del sommo bene e del sommo male, che é affrontato in 5 libri, comprendenti 3 dialoghi. Nel primo é esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione ciceroniana; nel secondo si mette a confronto la teoria stoica con le teorie accademica e peripatetica; nel terzo é esposta la teoria eclettica di A. Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’ autore. Ancora di questioni etiche tratta un’ altra fra le maggiori opere filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata, le Tusculanae disputationes, dedicate anch’ esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo. L’ opera, in 5 libri, che segna il massimo avvicinamento dell’ Arpinate alle tesi propugnate dagli stoici, é condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore. Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’ animo e della virtù come garanzia della felicità: siamo dunque di fronte ad una grande summa dell’ etica antica. Nelle Tusculanae l’ Arpinate cerca una risposta ai suoi personali interrogativi, una soluzione ai suoi dubbi: di qui la profonda partecipazione emotiva dell’ autore agli argomenti trattati. Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi, il De natura deorum, in 3 libri, anch’ esso dedicato a Bruto; il De divinatione, in 2 libri, e il De fato giuntoci incompleto. Le due ultime opere sono presentate esplicitamente dall’ autore come integrative e complementari rispetto alla prima. Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche. L’ impegno ciceroniano nell’ attività filosofica é soprattutto moralistico, e non dimentica i doveri del cittadino al servizio dello stato. Interessante in questi dialoghi é il ricercare sempre la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche: si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana. In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì, nei suoi anni maturi, al probabilismo degli Accademici, una sorta di scetticismo pragmatico, che senza negare l’ esistenza di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile, utile a orientare l’ azione e ad essa funzionalizzata. Nel libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere l’ esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni: se tutto é opinabile, allora non vi sarà più nè certezza nè verità. L’ Arpinate replica che anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità; nemmeno pensa, come gli scettici che esistano più verità. In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza: astenendosi egli stesso dal formulare un’ opinione precisa, si sforza di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. L’ eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia della humanitas, alla cui elaborazione l’ Arpinate diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza: dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro turno per prendere la parola: siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle loro un arricchimento culturale. Ma c’ é un caso in cui il contradditorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’ eclettismo ciceroniano, come già anticipato, mostra una chiusura radicale verso l’ epicureismo, alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum. I motivi dell’ avversione ciceroniana verso l’ epicureismo sono soprattutto due, tra loro strettamente connessi: in primo luogo la filosofia epicurea porta al disinteresse per la vita politica ( ” vivi di nascosto ” era il loro motto ), mentre dovere dei boni é l’ attiva partecipazione alla vita pubblica; inoltre l’ epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità ( per quanto non ne neghi l’ esistenza ) e indebolisce così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone rimane la base fondamentale dell’ etica. Va poi detto che l’ Arpinate vedeva negativamente la ricerca del piacere ( voluptas ) propugnata dagli epicurei, i quali non esitavano a collocarla tra le somme virtù: ora é evidente che se ogni cittadino vivesse ” di nascosto ” alla ricerca del piacere personale lo stato si sfascerebbe; inoltre mettere la voluptas tra le virtù é come mettere una prostituta tra signore per bene, dice Cicerone. Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso dei dialoghi di argomento religioso e teologico. Nel De natura deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell’ indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane. Successivamente viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale, mentre in uno dei libri successivi ( il III ) l’ Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico. Più interessante risulta il De divinatione, anche perchè legato a vicende più contemporanee a Cicerone, che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti inferiori. Tornando al De finibus bonorum et malorum, Cicerone, dopo aver confutato la tesi epicurea, esamina quella stoica: riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più solide all’ impegno dei cittadini verso la collettività, ma tuttavia si sente lontano per cultura e gusti: il loro rigore etico gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana. Cicerone, invece, apprezza le tesi scettiche: la verità é per lui irraggiungibile, e l’ uomo si può solo avvicinare ad essa applicando la virtus; l’ eclettismo ciceroniano non a caso si basa su ideali scettici: dato che la verità é irraggiungibile, tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da ognuna di esse il meglio. Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Nel Cato maior de senectute Cicerone trasfigura l’ amarezza per una vecchiaia la quale, oltre al decadimento fisico e all’ imminenza della morte, sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. Tuttavia Cicerone, immedesimandosi nell’ austera figura di Catone il Censore, tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l’ otium e la tenacia dell’ impegno politico, due opposte esigenze che l’ Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto l’ arco della sua vita. Diversa, più combattiva, é l’ atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia, il quale, all’ indomani dell’ uccisione di Cesare, accompagna il rientro di Cicerone sulla scena politica. Il dialogo é immaginato svolgersi nel 129, lo stesso anno del De re publica: pochi giorni dopo la scomparsa di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell’ amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell’ amicizia stessa. Amicitia per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. Nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato aristocratico, il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici. La novità dell’ impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: a fondamento dell’ amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti a vasti strati della popolazione. L’ amicizia propagandata da Lelio non é solo un’ amicizia politica: si avverte in tutta l’ opera un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, potè forse trovare solo in Attico. La stesura del De officiis venne iniziata probabilmente nell’ autunno del 44: si tratta stavolta di un trattato, non di un dialogo, dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. L’ opera é il prodotto di un’ elaborazione rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche: mentre sta combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all’ aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società. La base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio. Nel de officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica. I 3 libri di cui il De officiis é composto trattano rispettivamente dell’ honestum, dell’ utile e del conflitto tra di loro. Lo stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio: le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali. La virtù fondamentale per Panezio era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla prima spetta di ” dare a ciascuno il suo “, la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, che, attraverso gli officia e l’ elargizione nei confronti dei concittadini, sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi: può essere strumento di corruzione, infatti, il donare denaro oppure l’ effettuare benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse. Perciò l’ Arpinate sottolinea con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali. Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la grandezza d’ animo; ebbene, Cicerone riprende questa concezione, ma, paradossalmente, a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere .

[T2]I dialoghi politici[/T]

Rifacendosi a Platone, anche Cicerone cerca in due opere, il De repubblica e il De legibus, di trattare da un punto di vista filosofico i problemi dello Stato e del diritto. A differenza di Platone però, Cicerone non cerca di teorizzare uno Stato ideale, privo di qualsiasi riferimento al concreto, non si stacca mai dalla storia e dalla realtà dello Stato romano.

[P]Il De re publica (La repubblica)[/P]

Scritto negli anni 54-52 è un dialogo in 6 libri che si immagina avvenga nel 129 a.C. nella villa di Scipione l’Emiliano: per tre giorni conversano il padrone di casa, Lelio, Furio Filo, Manlio Manilio e personaggi minori. L’opera, giunta frammentaria, fu ritrovata da Angelo Mai nell’Ottocento in un palinsesto vaticano; prima se ne conosceva solo la parte conclusiva, il Somnium Scipionis (Sogno di Scipione). Nel I libro Cicerone illustra la teoria, risalente attraverso Polibio ad Aristotele, delle forme fondamentali di governo ­ monarchia, aristocrazia, democrazia ­ con le loro degenerazioni ­ rispettivamente tirannide, oligarchia, demagogia. Da tali degenerazioni lo Stato romano è tuttavia immune, perché vi coesistono in armonia le tre forme base, rappresentate dalle istituzioni del consolato, del Senato e dei comizi popolari. I libri successivi, giunti incompleti, trattano lo sviluppo della costituzione romana, della giustizia, della figura del princeps ideale, un’autorità super partes e non in contrasto con il Senato. Nella sezione conclusiva Scipione l’Africano, apparso in sogno al suo discendente Scipione Emiliano, gli addita, dall’alto dei cieli, il destino d’immortalità che attende i giusti, benemeriti della patria.

[P]De legibus (Le leggi)[/P]

Iniziato nel 52 a.C., se ne conservano i primi tre libri, oltre che frammenti del IV e del V.

Come Platone aveva fatto seguire le Leggi alla sua Repubblica, così anche alla Repubblica ciceroniana segue questo dialogo tra Cicerone, il fratello Quinto e Pomponio Attico, ambientato sulle rive del Liri e nella villa di Cicerone ad Arpino. Cicerone dimostra che le leggi sono insite nella società e che sono un misto di elementi sacri e profani, come i fondamenti della costituzione giuridica romana. Indica il complesso delle XII Tavole come il migliore fra le leggi di Roma.

[T2]L’epistolario[/T]

Le lettere costituiscono una documentazione preziosa e viva sia per la conoscenza della personalità di Cicerone sia per la ricostruzione degli eventi politici a lui contemporanei. Sono scritte per lo più con un linguaggio spontaneo e immediato, senza preoccupazioni formali, che riflette il sermo cotidianus delle classi colte ed esprimono stati d’animo, entusiasmi, dubbi, incertezze e preoccupazioni. Sono pervenute 864 lettere, delle quali 90 sono di suoi corrispondenti, ma il carteggio di Cicerone doveva essere molto più voluminoso. È diviso in quattro raccolte:

[P]Epistulae ad familiares[/P] (Le lettere ai familiari), tra il 62 e il 43 a. C., in 16 libri; i principali corrispondenti sono Terenzio Varrone, Dolabella, Cornelio. Il libro XIV contiene le lettere alla moglie Terenzia, il XVI quelle al liberto Tirone, suo segretario, l’VIII le lettere di Celio Rufo a Cicerone.
Epistulae ad Atticum (Le lettere a Attico, 68-44), in 16 libri, sono indirizzate al dotto amico che aveva curato come editore alcune delle opere ciceroniane. È la raccolta più numerosa, ben 396 lettere, e la più significativa per valore storico. In esse Cicerone introduce brani in greco per far piacere all’amico, che amava la Grecia, e testimonia così l’abitudine all’espressione bilingue nella conversazione familiare e quotidiana dei romani colti.

[P]Epistulae ad Quintum fratrem[/P] (Le lettere al fratello Quinto, 60-54 a.C.) sono 28 lettere in tre libri; la più importante è quella in cui dà consigli al fratello, proconsole della provincia d’Asia, sul modo di reggere il governo con equilibrio ed umanità.
Epistulae ad Marcum Brutum (Le lettere a Marco Bruto, 43 a.C., in due libri), sono lettere, di dubbia autenticità, di Bruto (il cesaricida) a Cicerone e di Cicerone a Bruto, quando quest’ultimo era in Illiria e in Epiro e si preparava alla guerra contro i triumviri.

[T2]Cicerone poeta[/T]

Cicerone fu anche autore di numerose opere in versi di cui rimangono frammenti, parecchi dei quali sono citati nelle opere filosofiche dell’autore.
Il fatto che Cicerone si sia dedicato anche alla poesia corrisponde ad una consuetudine diffusa tra i romani colti del suo tempo.
Abbiamo notizia di due operette scritte in età giovanile, il Pontius Glaucus e l’Alcyones, i cui titoli corrispondono al nome di due personaggi mitologici protagonisti di metamorfosi.
Sempre da giovane Cicerone fece una traduzione in esametri di un poema didascalico ellenistico, i Fenomeni di Arato di Soli. Di tale traduzione si è conservato un ampio stralcio di 480 versi. La traduzione risulta piuttosto libera, secondo l’uso di rielaborare più o meno profondamente il testo tradotto. Cicerone tende a rendere l’arido poemetto astronomico di Arato più colorito, più animato, più ricco di elementi descrittivi e pittoreschi. Dagli Aratea Lucrezio trasse alcune immagini e movenze stilistiche.
Tutte le opere fin qui citate sembrano riconducibili all’ambito della poesia dotta di stampo ellenistico, ma sappiamo che in età matura Cicerone criticò severamente quei poeti che avevano adottato senza riserva le poetiche, i modi e gli stili della poesia alessandrina, e che furono denominati proprio da Cicerone neoteroi.
Ai neoteroi Cicerone non pedona il distacco programmatico e ostentato dalla tradizione della poesia romana arcaica, rappresentata in primo luogo da Ennio.
La tradizione del poema epico – storico nazionale di carattere celebrativo aveva avuto vari cultori, e anche Cicerone volle inserirsi in questo filone con il Marius, di cui si conservano quindici versi.
Inoltre, dopo aver sperato che altri poeti celebrassero in versi il suo consolato, Cicerone compose egli stesso due poemi epico-storici sulle proprie gesta: De consulatu suo e De temporibus suis. L’esigenza di giustificare il suo operato relativo alla congiura di Catilina non basta a spiegare la singolare iniziativa di celebrarsi da solo. All’intento apologetico si univa il fortissimo desiderio di gloria, che indusse spesso Cicerone a manifestazioni di vanità eccessive ed addirittura ridicole.
Del De consulatu suo Cicerone stesso ci ha conservato un lungo frammento in cui Urania rievoca i prodigi funesti che avevano preannunciato la congiura di Catilina; lo stile è ridondante, magniloquente, enfatico. In questo poema Cicerone afferma la superiorità dell’eloquenza sull’arte militare, che corrispondeva certamente ad una convinzione dell’autore, ma suonava troppo interessata in bocca a chi eccelleva in uno solo dei due ambiti. Addirittura famigerato è un altro verso in cui egli allude al titolo di padre della patria ottenuto per aver salvato la res publica.
Si suppone che il De temporibus suis fosse una narrazione in poesia delle vicende di cicerone dopo il consolato, fino all’esilio e al trionfale ritorno in patria del 57.

[T2]Le orazioni ciceroniane[/T]

Cicerone curò personalmente la pubblicazione di molte sue orazioni, spesso rielaborandole ed ampliandole rispetto ai discorsi effettivamente pronunciati. Gli scopi erano molteplici: propaganda politica, difesa del proprio operato, desiderio di ottenere gloria (che ebbe sempre vivissimo e costituì uno dei principali moventi delle sue azioni in ogni circostanza).

[P]Pro Quinctio[/P]

(81 a.C.) Orazione giudiziaria per una causa civile che contrapponeva Quinzio ad un suo ex-socio in affari difeso da Ortensio. Il fatto che Cicerone abbia pubblicato l’orazione presuppone che Quinzio sia stato assolto.
Pro Sexto Roscio Amerino, (80 a.C.), orazione giudiziaria in cui Cicerone difende con successo Roscio Amerino fatto accusare di parricidio da Crisogono.

[P]Pro Roscio comodo[/P]

orazione giudiziaria a difesa di Roscio, celebre attore comico, da cui un ex-socio in affari reclamava un indennizzo.

[P]Verrinae [/P]

(70 a.C.) Sono sette orazioni giudiziarie per il processo de repetundis intentato dai siciliani contro Gaio Verre. Il corpus delle Verrine comprende:
la Divinatio in Caecilium, con cui Cicerone chiede il diritto di sostenere l’accusa per conto dei siciliani, contrapponendosi ad un certo Cecilio. Divinatio era il termine tecnico per indicare la scelta dell’accusatore; grazie a questo discorso Cicerone poté assumere l’accusa e ottenne un tempus inquirendi di 110 giorni.
l’Actio prima in Verrem, la requisitoria, in cui egli si limitò ad illustrare sinteticamente le imputazioni per poi passare subito all’interrogatorio dei testimoni e alla presentazione dei documenti. Prima della seconda fase del dibattito Verre partì in volontario esilio.
l’Actio secunda, costituita da cinque orazioni che Cicerone non tenne.
Le Verrine furono considerate un capolavoro di eloquenza.
Pro Fonteio (69 a.C.), orazione di difesa in un processo per concussione intentato dai provinciali contro Fonteio

[P]Pro Caecina[/P]

(69 a.C.) Orazione di difesa in una causa civile per un’eredità.
Pro lege Manilia de imperio Gnaei Pompei (66 a.C.), è la prima orazione deliberativa tenuta da Cicerone davanti al popolo, a favore di una legge, proposta dal tribuno Manilio, che assegnava a Pompeo poteri straordinari per la guerra contro Mitridate. Appoggiavano la proposta i populares e i cavalieri; era contraria gran parte del senato. Cicerone insiste sulla gravità eccezionale della guerra che impone misure eccezionali, ed inserisce un grandioso elogio di Pompeo. La proposta fu approvata all’unanimità.
Pro Cluentio, (66 a.C.), orazione di difesa in un processo in cui Cluenzio era accusato di veneficio; l’imputato fu assolto.

[P]Catilinariae[/P]

(63 a.C.) Quattro discorsi pronunciati nei giorni della scoperta e della repressione della congiura di Catilina. La prima e la quarta furono tenute in senato, la seconda e la terza davanti al popolo, tutte furono rielaborate successivamente e pubblicate dall’autore nel 60 a.C. Sono indubbiamente fra le prove migliori dell’eloquenza ciceroniana.
Pro Sulla (62 a.C.), Cicerone sostiene la difesa di un imputato coinvolto nella congiura di Catilina

[P]Pro Archia poeta [/P]

(62 a.C.) In difesa del poeta Archia accusato di aver usurpato il diritto di cittadinanza romana. Gran parte del discorso è dedicata ad una appassionata esaltazione della cultura e della poesia. Archi fu assolto, ma non scrisse quel poema celebrativo del suo consolato che Cicerone si aspettava da lui.

[P]Pro Flacco[/P]

(59 a.C.) Cicerone difende un personaggio accusato de repetundis
Segue una serie di orazioni pronunciate al ritorno dall’esilio:
Cum senatui gratias egit e cum popolo gratias egit (57 a.C.), due discorsi di ringraziamento tenuti subito dopo il ritorno a Roma. Tocca qui il culmine la tendenza di Cicerone all’autoesaltazione.

[P]De domo sua[/P]

(57 a.C.) Orazione pronunciata poco dopo il ritorno dall’esilio davanti al collegio dei pontefici per ottenere le restituzione del terreno su cui sorgeva la sua casa sul Palatino: terreno che Clodio aveva consacrato alla dea Libertas. Cicerone raggiunse il suo scopo.
De haruspicum responsis (56 a.C.), discorso tenuto in senato per rintuzzare un altro attacco a Clodio

[P]Pro Sestio [/P]

(56 a.C.) Orazione giudiziaria in cui Cicerone difende Sestio accusato de vi per aver organizzato bande armate da opporre a quelle di Clodio. È un testo importante per l’analisi della situazione politica interna di Roma: Cicerone sostiene la tesi che il ricorso a mezzi illegali si è reso necessario proprio per la difesa delle istituzioni, gravemente minacciate dai programmi eversivi dei popolari; lancia inoltre un appello per il consensus omnium bonorum che miri alla salvaguardia degli interessi comuni. Sestio fu assolto.

[P]Pro Milone [/P]

(52 a.C.) Orazione in difesa di Milone nel processo de vi per la morte di Clodio. Non è l’oratiuncola effettivamente tenuta, ma quella che Cicerone avrebbe voluto e dovuto tenere. Già gli antichi la consideravano la più bella tra tutte le orazioni di Cicerone. Egli vi sostiene magistralmente la tesi della legittima difesa; dimostra inoltre l’assenza di premeditazione da parte di Milone, confermata dalla mancanza di un movente plausibile; afferma che in ogni caso Clodio ha trovato la giusta punizione e che la sua morte è stata provvidenziale per Roma.

[P]Pro Marcello[/P]

(46 a.C.) Discorso di ringraziamento a Cesare, tenuto in senato, per il perdono concesso a Marcello, pompeiano in esilio. Oltre ad elogiare il dittatore, Cicerone gli rivolge consigli ed esortazioni per la restaurazione delle istituzioni repubblicane
Pro Ligario (46 a.C.), orazione giudiziaria in difesa di un pompeiano in esilio. Cicerone, che parlava alla presenza di Cesare, presidente del tribunale, elogia il dittatore e ne esalta la clemenza.

[P]Pro Rege Deiotaro[/P]

(45 a.C.), orazione giudiziaria in difesa di Deiotaro, re della Galazia, accusato di aver attentato alla vita di Cesare.

[P]Filippiche[/P]

sono 14 orazioni che Cicerone pronunciò fra il settembre del 44 e l’aprile del 43, con l’intento di far dichiarare Antonio nemico pubblico. La seconda, la più violenta, fu soltanto scritta da Cicerone, che la fece circolare a mo’ di pamphlet. Chiamate nell’antichità anche Antonianae, devono il nome di Filippiche all’accostamento, fatto da Cicerone, alle celeberrime orazioni di Demostene contro Filippo il macedone.

Nei discorsi conservati Cicerone si dimostra grandissimo oratore, perfettamente padrone dei mezzi espressivi e capace di sfruttare con consumata abilità ogni elemento e ogni circostanza nell’interesse della causa. Egli assolve perfettamente la prima funzione che nelle sue opere retoriche assegna all’oratore: quella di docere, cioè d’informare chiaramente il pubblico sulla causa in discussione e di dimostrare la sua tesi nel modo più plausibile e convincente dal punto di vista razionale.
Sa anche servirsi con perizia dei mezzi emozionali, utili per ottenere il consenso dell’uditorio. Per assolvere la seconda funzione oratoria, quella di delectare, cioè di conciliarsi le simpatie del pubblico procurandogli piacere, Cicerone fa ricorso alle sue doti di narratore vivacissimo, alla sua abilità di ritrattista psicologicamente acuto e penetrante, all’arguzia, ad una verve ironica e satirica talora pungente e caustica, alla sua sterminata cultura cui attinge per exempla e digressioni.
Quanto alla funzione di movere o flectere, cioè di trascinare gli uditori al consenso suscitando emozioni, si può notare che ricorre ad effetti emozionali forti e anche violenti soprattutto nelle perorazioni.
Per quanto riguarda lo stile, è estremamente vario, duttile, multiforme, capace di solennità e di magniloquenza fino alla ridondanza e all’ampollosità, ma capace anche di brevità, stringatezza,concisione, essenzialità. Senza dubbio esso è lontanissimo dalla spoglia sobrietà dei neoatticisti.
I più tipici procedimenti stilistici ciceroniani si attuano prevalentemente nell’ambito dell’organizzazione sintattica del discorso: quest’ultimo è articolato in modo complesso, con abbondanza di proposizioni subordinate, ma è costruito anche su di una rete di corrispondenze equilibrate e simmetriche, e con grande attenzione all’eufonia e al ritmo.
La concinnitas, cioè la simmetria, si basa su una serie di procedimenti che si ritrovano di solito combinati fra loro nello stesso contesto: innanzitutto il parallelismo e l’equivalenza fonico-ritmica dei membri, spesso con antitesi semantica; inoltre l’abbondanza dei nessi sinonimici, varie figure della ripetizione tra cui molto frequente è l’anafora. Tali procedimenti sono adottati soprattutto negli esordi, nelle perorazioni e negli elogi, cioè le parti dell’orazione che richiedono maggior solennità.

Versioni e traduzioni di Cicerone:

Versioni di Cicerone

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Stile e lingua di Cicerone

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