Il Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia ci introduce alla città di Dite, dove sono puniti gli eretici in tombe ardenti. La narrazione si sviluppa attraverso complessi livelli di significato, intrecciando elementi teologici, politici e personali che riflettono la visione dantesca del peccato e della giustizia divina.
Indice:
- Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 10 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 10 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 10 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 10 dell’Inferno in pillole
Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo | Parafrasi |
---|---|
Ora sen va per un secreto calle, | A quel punto il mio maestro procedette |
tra ’l muro de la terra e li martìri, | per un sentiero nascosto, tra le mura |
lo mio maestro, e io dopo le spalle. | e le tombe, e io lo seguii. |
«O virtù somma, che per li empi giri | Gli chiesi: «O sommo sapiente, |
mi volvi», cominciai, «com’a te piace, | che mi conduci per i Cerchi infernali, |
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. | ti prego di rispondermi e soddisfare il mio desiderio. |
La gente che per li sepolcri giace | Si potrebbero vedere i dannati |
potrebbesi veder? già son levati | che giacciono nelle tombe? Tutti i coperchi sono sollevati |
tutt’i coperchi, e nessun guardia face». | e nessun demone fa loro la guardia». |
E quelli a me: «Tutti saran serrati | E lui a me: «Saranno tutti richiusi |
quando di Iosafàt qui torneranno | quando le anime torneranno qui dalla valle di Giosafat |
coi corpi che là sù hanno lasciati. | coi corpi che hanno lasciato sulla Terra. |
Suo cimitero da questa parte hanno | In questo punto del cimitero |
con Epicuro tutti suoi seguaci, | sono puniti Epicuro e tutti i suoi seguaci, |
che l’anima col corpo morta fanno. | che proclamano la mortalità dell’anima. |
Però a la dimanda che mi faci | Perciò ben presto sarà soddisfatto |
quinc’entro satisfatto sarà tosto, | il desiderio che mi hai svelato, |
e al disio ancor che tu mi taci». | e anche quell’altro (vedere Farinata) che tu non vuoi dirmi». |
E io: «Buon duca, non tegno riposto | E io: «Mia buona guida, io non ti nascondo i miei pensieri |
a te mio cuor se non per dicer poco, | se non per parlare poco, e sei stato proprio |
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto». | tu a insegnarmelo in varie occasioni». |
«O Tosco che per la città del foco | «O toscano, che te ne vai per la città del fuoco |
vivo ten vai così parlando onesto, | parlando in modo così dignitoso, |
piacciati di restare in questo loco. | abbi la compiacenza di trattenerti. |
La tua loquela ti fa manifesto | Il tuo accento indica che sei nato |
di quella nobil patria natio | in quella nobile patria alla quale, forse, |
a la qual forse fui troppo molesto». | fui troppo fastidioso». |
Subitamente questo suono uscìo | Questa voce uscì improvvisamente |
d’una de l’arche; però m’accostai, | da una delle tombe, per cui ebbi paura |
temendo, un poco più al duca mio. | e mi strinsi un poco al mio maestro. |
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? | Ed egli mi disse: «Voltati, che fai? |
Vedi là Farinata che s’è dritto: | Non vedi laggiù Farinata che si è sollevato? |
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». | Lo puoi vedere dalla cintola in su». |
Io avea già il mio viso nel suo fitto; | Io avevo già fitto il mio sguardo nel suo; |
ed el s’ergea col petto e con la fronte | e lui si ergeva con la fronte e il petto alti, |
com’avesse l’inferno a gran dispitto. | come se disprezzasse tutto l’Inferno. |
E l’animose man del duca e pronte | E le mani di Virgilio, pronte e animose, |
mi pinser tra le sepulture a lui, | mi spinsero fra le tombe verso di lui, mentre il maestro diceva: |
dicendo: «Le parole tue sien conte». | «Fa’ che le tue parole siano misurate». |
Com’io al piè de la sua tomba fui, | Non appena fui ai piedi della sua tomba, |
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, | mi guardò un poco e poi, quasi con disdegno, |
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». | mi domandò: «Chi furono i tuoi avi?» |
Io ch’era d’ubidir disideroso, | Io, che ero smanioso di obbedire, |
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi; | non glieli nascosi ma, anzi, risposi pienamente; |
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; | allora lui sollevò un poco le ciglia, |
poi disse: «Fieramente furo avversi | poi disse: «Essi furono aspri nemici miei, |
a me e a miei primi e a mia parte, | dei miei avi e della mia parte politica (Ghibellini), |
sì che per due fiate li dispersi». | al punto che per due volte li cacciai da Firenze». |
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte», | Io gli risposi: «Se essi furono cacciati, tornarono poi da ogni parte, in entrambe le occasioni; |
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata; | ma i vostri avi, invece, |
ma i vostri non appreser ben quell’arte». | non furono altrettanto bravi». |
Allor surse a la vista scoperchiata | In quel momento apparve alla nostra vista un’anima, |
un’ombra, lungo questa, infino al mento: | che si sporgeva accanto a quella di Farinata fino al mento: |
credo che s’era in ginocchie levata. | credo che fosse inginocchiata. |
Dintorno mi guardò, come talento | Mi guardò intorno, come se avesse |
avesse di veder s’altri era meco; | desiderio di vedere se c’era qualcun altro |
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, | con me; e poi che smise di osservare, |
piangendo disse: «Se per questo cieco | mi disse piangendo: «Se tu vai |
carcere vai per altezza d’ingegno, | per questo cieco carcere per i tuoi meriti di intellettuale, |
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». | dov’è mio figlio? E perché non è qui con te?» |
E io a lui: «Da me stesso non vegno: | E io a lui: «Non sono qui per mio solo merito: |
colui ch’attende là, per qui mi mena | colui che attende là (Virgilio) mi conduce |
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». | attraverso l’Inferno verso colei (Beatrice) che vostro figlio Guido, forse, ebbe a disdegno (disprezzò)». |
Le sue parole e ’l modo de la pena | Le sue parole e il fatto che fosse tra gli Epicurei |
m’avean di costui già letto il nome; | mi avevano fatto capire il nome di costui (Cavalcante); |
però fu la risposta così piena. 66 | perciò risposi così prontamente. |
Di subito drizzato gridò: «Come? | E lui, improvvisamente sollevatosi, gridò: |
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora? | «Come? Hai detto “egli ebbe”? Guido non vive ancora? la dolce luce del sole |
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». | non colpisce più i suoi occhi?» |
Quando s’accorse d’alcuna dimora | Quando si accorse |
ch’io facea dinanzi a la risposta, | che esitavo a rispondere, ricadde supino |
supin ricadde e più non parve fora. | e non ricomparve più fuori dalla tomba. |
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta | Ma quell’altro nobile dannato, |
restato m’era, non mutò aspetto, | alla cui domanda mi ero fermato, non mutò aspetto, |
né mosse collo, né piegò sua costa: | né parve minimamente colpito dall’accaduto: |
e sé continuando al primo detto, | e proseguendo il discorso iniziato, disse: |
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa, | «Se i miei avi hanno appreso male l’arte di rientrare in Firenze, |
ciò mi tormenta più che questo letto. | ciò mi procura più sofferenza di questa tomba. |
Ma non cinquanta volte fia raccesa | Ma non passeranno cinquanta fasi lunari |
la faccia de la donna che qui regge, | (meno di quattro anni) che anche tu saprai |
che tu saprai quanto quell’arte pesa. | quant’è dolorosa quell’arte. |
E se tu mai nel dolce mondo regge, | E ora dimmi (e possa tu tornare nel dolce mondo terreno): |
dimmi: perché quel popolo è sì empio | perché i fiorentini sono così duri |
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?». | in ogni loro provvedimento contro la mia famiglia?» |
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio | E io a lui: «Lo strazio e l’orrenda strage di Montaperti, |
che fece l’Arbia colorata in rosso, | che colorarono di rosso il fiume Arbia, |
tal orazion fa far nel nostro tempio». | ci induce a emanare queste leggi». |
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso, | Dopo che ebbe scosso il capo sospirando, |
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo | disse: «Non fui certo il solo a combattere quella battaglia, |
sanza cagion con li altri sarei mosso. | né certo ci sarei andato senza una valida ragione. |
Ma fu’ io solo, là dove sofferto | In compenso fui l’unico a difendere |
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, | Firenze a viso aperto, quando ciascun capo ghibellino |
colui che la difesi a viso aperto». | era pronto a raderla al suolo». |
«Deh, se riposi mai vostra semenza», | Allora lo pregai: «Orsù, possa la vostra |
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo | discendenza trovare pace: risolvetemi |
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. | quel dubbio che aggroviglia i miei ragionamenti. |
El par che voi veggiate, se ben odo, | Mi sembra che voi dannati vediate, |
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce, | se ho capito bene, gli eventi futuri, |
e nel presente tenete altro modo». | mentre abbiate altra conoscenza del presente». |
«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, | Disse: «Noi, come chi ha un difetto di vista (presbite), |
le cose», disse, «che ne son lontano; | vediamo le cose che sono lontane nel tempo; |
cotanto ancor ne splende il sommo duce. | soltanto questo ci permette Dio. |
Quando s’appressano o son, tutto è vano | Quando le cose si avvicinano o accadono, |
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, | il nostro intelletto è vano e se altri non ci porta notizie, |
nulla sapem di vostro stato umano. | non sappiamo nulla della vostra condizione umana. |
Però comprender puoi che tutta morta | Perciò puoi capire |
fia nostra conoscenza da quel punto | che la nostra conoscenza (del futuro) sarà totalmente |
che del futuro fia chiusa la porta». | annullata dal momento in cui sarà chiusa la porta del futuro, ovvero il giorno del Giudizio». |
Allor, come di mia colpa compunto, | Allora, come pentito della mia colpa, |
dissi: «Or direte dunque a quel caduto | dissi: «Poi direte a quel dannato |
che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto; | che suo figlio è ancora in vita; |
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto, | e se poc’anzi non gli diedi subito risposta, |
fate i saper che ’l fei perché pensava | ditegli che lo feci perché ero |
già ne l’error che m’avete soluto». | nell’errore che voi mi avete spiegato». |
E già ’l maestro mio mi richiamava; | E ormai Virgilio mi richiamava; |
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio | perciò pregai in fretta lo spirito |
che mi dicesse chi con lu’ istava. | che mi dicesse chi erano i suoi compagni di pena. |
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: | Mi rispose: «Qui giaccio con più di mille dannati: |
qua dentro è ’l secondo Federico, | qua dentro è Federico II di Svevia, nonché il cardinale |
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». | Ottaviano degli Ubaldini; non ti dico nulla degli altri». |
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico | Quindi tornò nella tomba; e io mi |
poeta volsi i passi, ripensando | incamminai verso l’antico poeta, ripensando |
a quel parlar che mi parea nemico. | a quelle parole che mi sembravano ostili. |
Elli si mosse; e poi, così andando, | Virgilio si mosse; e poi, |
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?». | mentre camminava, mi disse: |
E io li sodisfeci al suo dimando. | «Perché sei così turbato?» E io glielo spiegai. |
«La mente tua conservi quel ch’udito | Quel saggio mi comandò: «La tua mente ricordi |
hai contra te», mi comandò quel saggio. | bene ciò che hai sentito contro di te. |
«E ora attendi qui», e drizzò ’l dito: | E ora ascolta,» e drizzò il dito: |
«quando sarai dinanzi al dolce raggio | «quando sarai davanti al dolce |
di quella il cui bell’occhio tutto vede, | raggio di colei che coi suoi begli occhi |
da lei saprai di tua vita il viaggio». | vede ogni cosa (Beatrice), saprai da lei il tuo destino futuro». |
Appresso mosse a man sinistra il piede: | Quindi si volse a sinistra: |
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo | ci allontanammo dal muro |
per un sentier ch’a una valle fiede, | e ci dirigemmo verso l’orlo esterno del Cerchio, per un sentiero che conduce a una valle |
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo. | da cui fin lassù arrivava un gran puzzo. |
Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Nel viaggio allegorico di Dante, il 10 canto dell’Inferno della Divina Commedia assume particolare rilevanza per diversi motivi: introduce una nuova categoria di peccatori, presenta incontri con personaggi storici di grande rilievo e affronta questioni teologiche di fondamentale importanza per la mentalità medievale. L’eresia, punita in questo cerchio, rappresenta per Dante un peccato di gravità intermedia nella struttura morale dell’Inferno, poiché si tratta di un peccato di malizia ma senza violenza.
La struttura narrativa del canto si sviluppa attorno all’incontro con due anime dannate: Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti. Questi personaggi offrono al poeta l’opportunità di esplorare temi come la politica fiorentina, il destino delle anime dopo la morte e la profezia del suo esilio. L’orgoglioso Farinata, capo della fazione ghibellina di Firenze, si erge maestoso dalla sua tomba infuocata, mantenendo intatta la sua dignità anche nella dannazione eterna.
Al contrario, Cavalcante appare fragile e disperato, tormentato dall’angoscia per il destino del figlio Guido, amico di Dante. Questo contrasto tra le due figure crea una tensione drammatica che caratterizza l’intero canto.
Il Canto X dell’Inferno si svolge nel sesto cerchio, dove sono puniti gli eretici. Dante e Virgilio, dopo aver superato le mura della città di Dite, si ritrovano in un paesaggio funereo caratterizzato da tombe scoperchiate e arroventate, da cui provengono lamenti strazianti. Qui giacciono coloro che in vita negarono l’immortalità dell’anima, seguaci della filosofia epicurea, puniti secondo la logica del contrappasso: avendo sostenuto che l’anima muore con il corpo, ora sono imprigionati in sepolcri infuocati che rimarranno aperti fino al Giudizio Universale, quando riunendosi ai corpi, saranno sigillati per l’eternità.
Il canto si apre con i due poeti che avanzano lungo un sentiero stretto tra le mura della città e le tombe ardenti. Dante, incuriosito, chiede a Virgilio se sia possibile vedere i dannati all’interno dei sepolcri. Il dialogo viene interrotto dall’improvvisa apparizione di Farinata degli Uberti, nobile ghibellino fiorentino che emerge maestosamente dalla tomba, mostrandosi “dalla cintola in su”.
Il portamento altero e dignitoso di Farinata colpisce immediatamente Dante, impressionato dalla sua capacità di resistere con fierezza alla punizione infernale.
Mentre il dialogo con Farinata è in corso, si solleva dal medesimo sepolcro un’altra anima: Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del poeta Guido, amico di Dante. A differenza del compagno di pena, Cavalcante appare afflitto e disperato; chiede notizie del figlio e, fraintendendo una risposta di Dante che usa un verbo al passato (“ebbe”), crede erroneamente che Guido sia morto. Sopraffatto dal dolore, Cavalcante ricade nella tomba, mentre Farinata, impassibile, riprende il dialogo interrotto come se nulla fosse accaduto, dimostrando la sua imperturbabile fierezza.
Il centro drammatico del canto si sviluppa attorno al dialogo con Farinata, che rinfaccia a Dante l’ostilità della sua famiglia (i Guelfi) verso la propria (i Ghibellini) e predice al poeta il futuro esilio da Firenze: “Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge”, ovvero non passeranno cinquanta mesi prima che Dante apprenda quanto sia doloroso il tentativo di rientrare in patria.
Questa profezia introduce un elemento fondamentale: le anime dannate possono prevedere il futuro ma ignorano il presente, come spiega Farinata stesso, paragonando la loro condizione a quella di chi vede male da lontano.
Il canto si conclude con un riferimento ad altri illustri eretici che condividono la pena con Farinata, tra cui l’imperatore Federico II e il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, figure storiche di grande rilievo politico. Virgilio sollecita Dante a riprendere il cammino, ricordandogli che già “il tempo che n’è concesso” sta per scadere, elemento che sottolinea la dimensione temporale del viaggio ultraterreno.
La struttura narrativa del Canto X è magistralmente orchestrata attraverso contrasti: la dignità di Farinata contro la disperazione di Cavalcante; l’interesse politico del primo contro l’affetto paterno del secondo; la visione del futuro contro l’ignoranza del presente. Questi contrasti riflettono la complessità della visione dantesca, che intreccia costantemente elementi teologici, politici e personali. Il sesto cerchio diventa così uno spazio simbolico in cui l’eresia è punita non solo come errore dottrinale, ma come espressione di un orgoglio intellettuale che pretende di giudicare la realtà divina con i limitati strumenti della ragione umana.
Canto 10 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel sesto cerchio dell’Inferno, dedicato agli eretici, Dante incontra due importanti figure della Firenze del Duecento che rappresentano aspetti complementari della condizione umana: Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti.
Farinata degli Uberti
Farinata emerge maestosamente dalla tomba infuocata, mostrandosi “da la cintola in sù”, con un atteggiamento fiero e sprezzante che riflette il suo carattere anche nell’aldilà. Importante esponente della nobiltà ghibellina fiorentina, Farinata mantiene intatta la sua dignità nonostante la dannazione eterna:
- Il suo portamento altero è evidenziato dai versi “ed el s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto” (vv. 34-35), mostrando come la sua superbia lo accompagni anche nella punizione.
- La sua devozione politica emerge quando, pur tra le fiamme, si preoccupa ancora delle sorti della fazione ghibellina e della città di Firenze.
- La sua grandezza morale è riconosciuta da Dante stesso, che ammira l’uomo che “difese Firenze a viso aperto” quando, dopo la battaglia di Montaperti (1260), gli altri ghibellini volevano distruggere la città.
Farinata incarna il politico che antepone l’ideologia alla vita spirituale, ma che mantiene una certa nobiltà d’animo. La sua figura è complessa: condannato come eretico epicureo per aver negato l’immortalità dell’anima, rivela tuttavia una dignità che trascende la sua colpa. È proprio lui a profetizzare l’esilio di Dante, dimostrando la particolare condizione conoscitiva dei dannati, capaci di vedere il futuro ma non il presente.
Cavalcante de’ Cavalcanti
In netto contrasto con la figura imponente di Farinata, Cavalcante de’ Cavalcanti rappresenta l’aspetto più intimo e doloroso della dannazione:
- Si solleva dalla tomba “piangendo” e in posizione di “modo sospeso” (v. 56), mostrando subito la sua fragilità emotiva.
- È dominato dall’affetto paterno e dall’ansia per la sorte del figlio Guido, amico di Dante e illustre poeta dello Stilnovo.
- Fraintende le parole di Dante (“forse cui Guido vostro ebbe a disdegno“) pensando che il figlio sia morto, e sprofonda nella disperazione.
La sua tragica figura si concentra interamente sull’amore per il figlio, ignorando le questioni politiche che ossessionano invece Farinata. L’intenso dialogo con Dante crea uno dei momenti più drammatici del canto, evidenziando come i legami affettivi persistano anche nell’aldilà.
Il contrasto significativo
La giustapposizione di questi due personaggi non è casuale: Dante costruisce un potente contrasto tra:
- L’orgoglio politico di Farinata e l’amore paterno di Cavalcante.
- La compostezza stoica del primo e la fragilità emotiva del secondo.
- L’interesse per il destino collettivo e l’angoscia per il destino individuale.
Entrambi condividono la stessa tomba e la stessa punizione, ma reagiscono in modo opposto, offrendo al lettore una riflessione sulla complessità dell’animo umano anche nella dannazione.
Analisi del Canto 10 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un momento cruciale nel viaggio dantesco, ricco di stratificazioni tematiche che si intrecciano in una complessa tessitura narrativa. La prima dimensione fondamentale è quella teologica, incentrata sul peccato dell’eresia. Gli epicurei puniti in questo cerchio, inclusi Farinata e Cavalcante, negavano l’immortalità dell’anima, contravvenendo a uno dei pilastri della fede cristiana. Questa negazione viene punita con una pena dal forte valore simbolico: le anime sono confinate in tombe infuocate, destinate a rimanere aperte fino al Giudizio Universale, quando i corpi si ricongiungeranno alle anime, per poi essere sigillate in eterno – un contrappasso che riflette il rifiuto della vita eterna professato in vita.
La seconda dimensione è quella politica, centrale negli scambi tra Dante e Farinata. Le lotte tra guelfi e ghibellini nella Firenze duecentesca emergono prepotentemente nel dialogo, mostrando come le divisioni terrene continuino a influenzare le anime anche nell’aldilà. Farinata, orgoglioso ghibellino, ricorda a Dante la sconfitta dei guelfi a Montaperti (1260) e il suo ruolo nel preservare Firenze dalla distruzione voluta dai suoi stessi alleati. In questo senso, il canto diventa specchio della profonda crisi politica italiana e delle divisioni civili che tanto addoloravano il poeta.
Profondamente intrecciata alla dimensione politica è quella autobiografica, con la profezia dell’esilio di Dante pronunciata da Farinata: “Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge” (vv. 79-80). Questo riferimento al futuro esilio del poeta, avvenuto nel 1302, rivela come la Commedia sia anche strumento di riflessione personale e di elaborazione di un trauma storico e esistenziale.
Particolarmente affascinante è la concezione del tempo e della conoscenza ultraterrena che emerge nel canto. Le anime dei dannati possiedono una paradossale facoltà: possono vedere gli eventi futuri, ma non quelli presenti o prossimi. Questa limitazione, spiegata da Farinata nei versi “Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, / le cose”, disse, “che ne son lontano” (vv. 100-101), rappresenta una forma di contrappasso intellettuale, una punizione che riflette la loro esclusione dalla perfezione della visione divina.
Sul piano narrativo, il canto si distingue per una struttura dialogica che alterna due interlocutori principali – Farinata e Cavalcante – creando un potente effetto drammatico. L’interruzione del dialogo con Farinata causata dall’improvvisa apparizione di Cavalcante, e la successiva ripresa come se nulla fosse accaduto, evidenzia la maestria di Dante nel costruire una narrazione dinamica e psicologicamente intensa.
Degno di nota è anche il contrasto tra le due figure: da una parte Farinata, imponente e stoico, concentrato sulle questioni politiche; dall’altra Cavalcante, fragile e tormentato dall’amore paterno per il figlio Guido. Questo dualismo riflette la complessità dell’animo umano e la diversità delle relazioni che persistono anche nell’aldilà, tra ambizione politica, amore familiare e ricerca intellettuale.
L’equilibrio tra narrazione, riflessione filosofica e tensione drammatica rende questo canto uno dei momenti più rappresentativi dell’arte dantesca, capace di fondere storia, teologia e psicologia in un’opera di straordinaria profondità.
Figure retoriche nel Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia è caratterizzato da un uso magistrale di figure retoriche che arricchiscono il tessuto poetico e amplificano la potenza espressiva del testo dantesco. La ricchezza stilistica contribuisce a creare un’atmosfera di tensione drammatica e profondità concettuale che rispecchia la gravità dei temi trattati.
Tra le metafore più significative troviamo quella delle tombe infuocate, simbolo della negazione dell’immortalità dell’anima da parte degli epicurei. Questa potente immagine rappresenta il contrappasso perfetto: coloro che in vita hanno rifiutato di credere nella vita eterna sono ora confinati in sepolcri ardenti per l’eternità. Altrettanto evocativa è l’espressione “lo dolce lume” (v. 69) utilizzata per indicare la luce del sole e, per estensione, la vita terrena ormai preclusa ai dannati.
Le personificazioni arricchiscono ulteriormente il testo. La luna viene elegantemente definita “la donna che qui regge” (v. 80), mentre l’eresia viene descritta implicitamente come una malattia dell’anima che consuma i dannati. Queste figure conferiscono concretezza a concetti astratti, rendendo più immediata la percezione del lettore.
Dante impiega con maestria anche la perifrasi, come quando indica Virgilio con “colui ch’attende là” (v. 60) o si riferisce alla luce solare con “lo dolce lume” (v. 69). Queste circonlocuzioni non sono meri ornamenti stilistici, ma strumenti che amplificano il significato e conferiscono solennità al discorso poetico.
La sineddoche appare in espressioni come “cintola in sù” (v. 33), dove la parte superiore del corpo di Farinata rappresenta la sua intera dignità morale e il suo orgoglio inalterato. Analogamente, “gli occhi suoi” (v. 69) non sono solo gli occhi fisici di Guido Cavalcanti, ma rappresentano l’intera persona e la sua capacità di percepire il mondo terreno.
Particolarmente efficace è l’uso dell’antitesi, che si manifesta nel contrasto tra la grandezza politica di Farinata in vita e la sua condizione di dannato nell’aldilà, così come nell’opposizione tra il suo contegno orgoglioso e la disperazione di Cavalcante. Questi contrasti non solo vivificano la narrazione, ma incarnano anche la tensione tra valori terreni e ultraterreni che permea l’intera Commedia.
La struttura metrica delle terzine incatenate, con lo schema ABA BCB CDC, conferisce al canto un ritmo cadenzato che sostiene l’alternanza tra momenti narrativi e dialoghi intensi. Questa architettura formale rispecchia perfettamente la progressione drammatica del canto, dove i toni solenni si intrecciano con momenti di intensa commozione.
L’alternanza di registri linguistici rappresenta un’ulteriore risorsa stilistica: il linguaggio elevato e solenne utilizzato per le questioni teologiche e politiche si affianca a espressioni più immediate e patetiche nei momenti di maggiore intensità emotiva, come nel dialogo con Cavalcante, creando un dinamismo espressivo che riflette la complessità tematica del canto.
Temi principali del 10 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 10 dell’Inferno della Divina Commedia sviluppa temi fondamentali che si intrecciano con la visione teologica e politica dell’autore.
L’eresia epicurea costituisce il tema centrale del canto. Gli eretici puniti nel sesto cerchio sono coloro che negavano l’immortalità dell’anima, credendo che essa morisse con il corpo. Questa negazione rappresenta un sovvertimento della verità rivelata e del fondamento stesso della fede cristiana. Gli epicurei, seguaci della filosofia di Epicuro, vengono condannati non tanto per il loro materialismo, quanto per aver rifiutato il principio dell’eternità dell’anima, elemento cardine della dottrina cristiana. La loro punizione rispecchia il contrappasso: chi ha negato la vita ultraterrena giace in sepolcri ardenti, simbolo della loro visione limitata e della negazione della vera eternità.
Il conflitto politico emerge prepotentemente attraverso la figura di Farinata degli Uberti. Le lotte tra Guelfi e Ghibellini che dilaniavano Firenze vengono rievocate nel dialogo tra Dante e il nobile fiorentino, rivelando come le divisioni politiche terrene perdurino anche nell’aldilà. La menzione della battaglia di Montaperti (“lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso”) e del concilio di Empoli evidenziano momenti cruciali della storia fiorentina, trasformando il canto in una riflessione sulla responsabilità politica e sul rapporto tra bene individuale e collettivo.
La profezia dell’esilio di Dante, pronunciata da Farinata, introduce il tema del destino personale del poeta in relazione agli eventi storici. “Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge”, annuncia Farinata, predicendo l’esilio che colpirà Dante nel 1302. Questa profezia collega l’esperienza personale del poeta alla più ampia visione provvidenziale della storia, suggerendo che anche le sofferenze individuali rientrino in un disegno divino.
La peculiare concezione del tempo e della conoscenza dei dannati rappresenta un altro tema fondamentale. Gli eretici possono vedere gli eventi futuri ma non quelli presenti o imminenti, in una sorta di presbiopia spirituale che riflette la loro condizione eternamente separata da Dio. Questa limitazione cognitiva costituisce parte della loro punizione e simboleggia la distorsione della verità propria dell’eresia.
Il dramma familiare emerge potentemente nell’incontro con Cavalcante de’ Cavalcanti, il cui tormento per la sorte del figlio Guido rivela come i legami affettivi persistano anche nell’aldilà. Il contrasto tra l’orgoglio politico di Farinata e la disperazione paterna di Cavalcante evidenzia diverse dimensioni dell’umanità che sopravvivono nella dannazione eterna.
Infine, il canto esplora il tema del rapporto tra ragione umana e fede divina. Gli epicurei hanno peccato di orgoglio intellettuale, affidandosi esclusivamente alla ragione e rifiutando le verità di fede. Attraverso la loro condanna, Dante sottolinea i limiti della conoscenza puramente razionale quando non è illuminata dalla grazia divina, tema centrale di tutta la Commedia.
Il Canto 10 dell’Inferno in pillole
Sezione | Punti Chiave | Parole Chiave principali |
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Riassunto e Spiegazione | Nel sesto cerchio dell’Inferno, Dante e Virgilio incontrano gli eretici puniti in tombe infuocate all’interno della città di Dite. Qui sono condannati coloro che negavano l’immortalità dell’anima, seguaci dell’epicureismo. | 10 canto divina commedia, decimo canto divina commedia |
Personaggi | Farinata degli Uberti: nobile ghibellino che si erge fiero dalla tomba, predice l’esilio di Dante. Cavalcante de’ Cavalcanti: padre di Guido, appare disperato per la sorte del figlio. Federico II e il Cardinale Ottaviano degli Ubaldini completano i dannati citati. | divina commedia decimo canto, divina commedia inferno canto 10 parafrasi |
Elementi Tematici e Narrativi | Il canto esplora l’eresia come negazione dell’immortalità dell’anima, le lotte politiche fiorentine tra guelfi e ghibellini, e introduce una particolare concezione del tempo nell’aldilà: i dannati possono vedere il futuro ma non il presente. | riassunto decimo canto divina commedia |
Figure Retoriche | Abbondano metafore (tombe ardenti come simbolo della negazione dell’immortalità), perifrasi (“la donna che qui regge” per la luna), antitesi (orgoglio di Farinata vs disperazione di Cavalcante) e l’uso magistrale del dialogo drammatico. | 10 canto divina commedia |
Temi Principali | L’orgoglio politico che persiste oltre la morte, il contrasto tra ragione e fede, l’amore paterno, la profezia dell’esilio di Dante, e la limitata conoscenza dei dannati che riflette la loro separazione da Dio. | decimo canto divina commedia |