Il Canto X del Purgatorio segna l’ingresso di Dante e Virgilio nella prima cornice del monte purgatoriale, dove si espiano i peccati di superbia. Questo canto della Divina Commedia rappresenta un momento cruciale nel percorso di purificazione spirituale, introducendo il contrasto fondamentale tra superbia e umiltà attraverso straordinarie rappresentazioni artistiche.
Dopo aver superato l’Antipurgatorio e varcato la porta custodita dall’angelo portinaio, i due poeti accedono finalmente al Purgatorio vero e proprio. La prima cornice è dedicata alla purificazione dal peccato della superbia, considerato nella teologia medievale come il vizio originario, radice di tutti gli altri peccati.
Qui Dante descrive con maestria poetica lo spettacolo delle anime dei superbi che, cariche di pesanti massi, procedono curve come figure architettoniche sotto un peso, in un contrappasso che riflette perfettamente il loro peccato terreno.
L’elemento più caratteristico del canto è rappresentato dai meravigliosi bassorilievi scolpiti nella parete di marmo bianco, che illustrano esempi di umiltà: l’Annunciazione a Maria, Davide danzante davanti all’Arca dell’Alleanza e l’imperatore Traiano che rende giustizia a una vedova. Questi capolavori, realizzati da Dio stesso, superano ogni arte umana e servono da insegnamento morale: attraverso la contemplazione della virtù opposta al proprio peccato, le anime possono progressivamente liberarsene e proseguire nel cammino verso la salvezza eterna.
Indice:
- Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 10 Purgatorio: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia
- Temi principali del Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia
- Il Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia in pillole
Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo Originale | Parafrasi |
|---|---|
| Poi che fu priva / la scala di quel soglio, / ove s’assidea l’angel che n’ averti, / e contra il sole molto non ci valse, / ma poco i’ nol soffresi, ch’io senti’ ver me volger le piume. | Dopo che avemmo superato quella scala che non aveva più quel gradino dove sedeva l’angelo che ci aveva fatto entrare, e la parete rocciosa che rifletteva la luce solare non ci proteggeva più, ma io sopportai poco tempo questo disagio perché sentii l’angelo voltare le sue ali verso di me. |
| Questi ne ‘nvita – il mio maestro allora / mi disse – figlio, or abbiam più scale: / queste son da varcare: / non sperar più ch’io ti discorra, / e facciati col cenno, / poi che la guida tua son io quassù. | Questi ci invita – allora il mio maestro mi disse – figlio, ora abbiamo più scale da superare: queste dobbiamo attraversarle: non sperare più che io ti guidi con le parole, e ti faccia segni con la mano, poiché io sono la tua guida quassù. |
| Noi eravamo dove terminava / quella scalèe, ed eravamo affissi, / pur come nave ch’a la piaggia arriva: / ed io attesi un poco, s’io udissi / alcuna cosa nel novo girone; | Noi eravamo dove terminava quella scala, ed eravamo fermi, proprio come una nave che arriva alla spiaggia: e io attesi un poco, per sentire se udissi qualche suono nel nuovo girone; |
| poi mi rivolsi al mio maestro, e dissi: / – Dolce mio padre, di’, quale offensione / si purga qui nel giro dove semo? / Se i piè si stanno, non stea tuo sermone -. | poi mi rivolsi al mio maestro, e dissi: – Dolce padre mio, di’, quale colpa si purga in questo girone dove siamo? Se i piedi si fermano, non si fermi il tuo discorso -. |
| Ed elli a me: – L’amor del bene, scemo / del suo dover, quiritta si ristora; / qui si ribatte il mal tardato remo. | Ed egli a me: – L’amore del bene, privo del suo dovere, qui si ripara; qui si recupera il tempo perso a remare troppo lentamente. |
| Ma perché più aperto intendi ancora, / volgi la mente a me, e prenderai / alcun buon frutto di nostra dimora -. | Ma perché tu comprenda più chiaramente, rivolgi la tua mente a me, e trarrai qualche buon frutto dalla nostra permanenza qui -. |
| – Né creator né creatura mai -, / cominciò el, – figliuol, fu sanza amore, / o naturale o d’animo; e tu ‘l sai. | – Né il creatore né mai alcuna creatura -, cominciò, – figlio, fu senza amore, o naturale o d’animo; e tu lo sai. |
| Lo naturale è sempre sanza errore, / ma l’altro puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore. | L’amore naturale è sempre senza errore, ma l’altro può errare per cattivo oggetto o per troppo o per poco vigore. |
| Mentre ch’elli è nel primo ben diretto, / e ne’ secondi sé stesso misura, / esser non può cagion di mal diletto; | Mentre esso è diretto verso il primo bene, e nei secondi misura se stesso, non può essere causa di piacere malvagio; |
| ma quando al mal si torce, o con più cura / o con men che non dee corre nel bene, / contra ‘l fattore adovra sua fattura. | ma quando si volge al male, o con più zelo o con meno di quanto dovrebbe corre verso il bene, la creatura agisce contro il suo creatore. |
| Quinci comprender puoi ch’esser convene / amor sementa in voi d’ogne virtute / e d’ogne operazion che merta pene. | Da ciò puoi comprendere che è necessario che l’amore sia in voi seme di ogni virtù e di ogni azione che merita punizione. |
| Or, perché mai non può da la salute / amor del suo subietto volger viso, / da l’odio proprio son le cose tute; | Ora, poiché l’amore non può mai distogliere lo sguardo dalla salvezza del suo soggetto, tutte le cose sono protette dall’odio verso se stesse; |
| e perché intender non si può diviso, / e per sé stante, alcuno esser dal primo, / da quello odiare ogni effetto è deciso. | e poiché non si può concepire alcun essere separato e indipendente dal primo (Dio), è impossibile odiare Lui. |
| Resta, se dividendo bene stimo, / che ‘l mal che s’ama è del prossimo; ed esso / amor nasce in tre modi in vostro limo. | Resta, se ragionando deduco bene, che il male che si ama è quello del prossimo; e questo amore nasce in tre modi nel vostro fango. |
| È chi, per esser suo vicin soppresso, / spera eccellenza, e sol per questo brama / ch’el sia di sua grandezza in basso messo; | C’è chi, per vedere il suo vicino abbattuto, spera di eccellere, e solo per questo desidera che egli sia abbassato dalla sua grandezza; |
| è chi podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch’altri sormonti, / onde s’attrista sì che ‘l contrario ama; | c’è chi teme di perdere potere, grazia, onore e fama perché altri lo superi, onde si rattrista così tanto che ama il contrario; |
| ed è chi per ingiuria par ch’aonti, / sì che si fa de la vendetta ghiotto, / e tal convien che ‘l male altrui impronti. | e c’è chi per un’offesa subita si sente disonorato, così che diventa avido di vendetta, e tale persona deve procurare il male altrui. |
| Questo triforme amor qua giù di sotto / si piange: or vo’ che tu de l’altro intende, / che corre al ben con ordine corrotto. | Questo triplice amore si purga qui sotto: ora voglio che tu comprenda dell’altro, che corre al bene con ordine corrotto. |
| Ciascun confusamente un bene apprende / nel qual si queti l’animo, e disira; / per che di giugner lui ciascun contende. | Ciascuno confusamente intuisce un bene nel quale si acquieta l’animo, e lo desidera; perciò ciascuno si sforza per raggiungerlo. |
| Se lento amore a lui veder vi tira / o a lui acquistar, questa cornice, / dopo giusto penter, ve ne martira. | Se un amore pigro vi spinge a vederlo o ad acquistarlo, questa cornice, dopo giusto pentimento, vi fa espiare. |
| Altro ben è che non fa l’uom felice; / non è felicità, non è la buona / essenza, d’ogne ben frutto e radice. | C’è un altro bene che non rende l’uomo felice; non è felicità, non è la buona essenza, frutto e radice di ogni bene. |
| L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona, / di sovr’a noi si piange per tre cerchi; / ma come tripartito si ragiona, / tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi -. | L’amore che troppo si abbandona ad esso, si piange sopra di noi in tre cerchi; ma come si ragiona tripartito, lo taccio, affinché tu lo cerchi da te -. |
| Posto avea fine al suo ragionamento / l’alto dottore, e attento guardava / ne la mia vista s’io parea contento; | L’alto dottore aveva posto fine al suo ragionamento, e mi guardava attentamente per vedere se nel mio volto apparivo soddisfatto; |
| e io, cui nova sete ancor frugava, / di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse / lo troppo dimandar ch’io fo li grava’. | e io, che ero tormentato da una nuova sete di sapere, tacevo esteriormente, e dentro dicevo: ‘Forse il mio troppo domandare lo infastidisce’. |
| Ma quel padre verace, che s’accorse / del timido voler che non s’apriva, / parlando, di parlare ardir mi porse. | Ma quel padre sincero, che si accorse del timido desiderio che non si manifestava, parlando, mi diede il coraggio di parlare. |
| Ond’io: – Maestro, il mio veder s’avviva / sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro / quanto la tua ragion parta o descriva. | Per cui io: – Maestro, la mia vista si ravviva tanto nella tua luce, che io discerno chiaramente quanto la tua ragione distingua o descriva. |
| Però ti prego, dolce padre caro, / che mi dimostri amore, a cui reduci / ogne buono operare e ‘l suo contraro -. | Perciò ti prego, dolce padre caro, che mi spieghi l’amore, al quale riconduci ogni buona azione e il suo contrario -. |
| – Drizza – disse – ver’ me l’agute luci / de lo ‘ntelletto, e fieti manifesto / l’error de’ ciechi che si fanno duci. | – Dirigi – disse – verso di me gli acuti occhi dell’intelletto, e ti sarà manifesto l’errore dei ciechi che si fanno guide. |
| L’animo, ch’è creato ad amar presto, / ad ogne cosa è mobile che piace, / tosto che dal piacere in atto è desto. | L’animo, che è creato pronto ad amare, è attratto da ogni cosa che piace, non appena dal piacere è destato in atto. |
| Vostra apprensiva da esser verace / tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, / sì che l’animo ad essa volger face; | La vostra facoltà conoscitiva trae un’immagine da un essere reale, e la dispiega dentro di voi, così che fa volgere l’animo ad essa; |
| e se, rivolto, inver’ di lei si piega, / quel piegare è amor, quell’è natura / che per piacer di novo in voi si lega. | e se, rivolto, verso di essa si piega, quel piegarsi è amore, quella è la natura che per piacere di nuovo si lega in voi. |
| Poi, come ‘l foco movesi in altura / per la sua forma ch’è nata a salire / là dove più in sua matera dura, / così l’animo preso entra in disire, / ch’è moto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire. | Poi, come il fuoco si muove verso l’alto per la sua forma che è fatta per salire là dove dura di più nella sua materia, così l’animo preso entra in desiderio, che è moto spirituale, e mai riposa finché la cosa amata lo fa gioire. |
| Or ti puote apparer quant’è nascosa / la veritate a la gente ch’avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa, / però che forse appar la sua matera / sempre esser buona; ma non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera -. | Ora ti può apparire quanto è nascosta la verità alla gente che considera ogni amore in sé una cosa lodevole, perché forse appare che la sua materia sia sempre buona; ma non ogni impronta è buona, anche se la cera è buona -. |
| – Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno -, / rispuos’io lui, – m’hanno amor discoverto, / ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno; | – Le tue parole e il mio ingegno che le segue -, risposi a lui, – mi hanno svelato l’amore, ma ciò mi ha reso più pieno di dubbi; |
| ché, s’amore è di fuori a noi offerto, / e l’anima non va con altro piede, / se dritta o torta va, non è suo merto -. | perché, se l’amore ci è offerto dall’esterno, e l’anima non procede con altro piede, se va dritta o torta, non è suo merito -. |
| Ed elli a me: – Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opra di fede. | Ed egli a me: – Quanto la ragione qui vede, posso dirti; da quel punto in poi aspettati solo a Beatrice, che è opera di fede. |
| Ogne forma sustanzial, che setta / è da matera ed è con lei unita, / specifica vertute ha in sé colletta, | Ogni forma sostanziale, che è distinta dalla materia ed è unita con essa, ha raccolta in sé una virtù specifica, |
| la qual sanza operar non è sentita, / né si dimostra mai che per effetto, / come per verdi fronde in pianta vita. | la quale senza operare non è percepita, né si manifesta mai se non per i suoi effetti, come la vita in una pianta si manifesta attraverso le verdi fronde. |
| Però, là onde venha lo ‘ntelletto / de le prime notizie, omo non sape, / e de’ primi appetibili l’affetto, | Perciò, da dove provenga l’intelletto delle prime nozioni, l’uomo non lo sa, e nemmeno l’affetto dei primi desideri, |
| che sono in voi sì come studio in ape / di far lo mele; e questa prima voglia / merto di lode o di biasmo non cape. | che sono in voi così come l’istinto nell’ape di fare il miele; e questa prima volontà non merita né lode né biasimo. |
| Or perché a questa ogn’altra si raccoglia, / innata v’è la virtù che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia. | Ora, affinché a questa si unisca ogni altra, innata in voi è la virtù che consiglia, e deve vigilare sulla soglia dell’assenso. |
| Quest’è ‘l principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi, secondo / che buoni e rei amori accoglie e viglia. | Questo è il principio da cui si trae in voi la ragione del merito, a seconda che accoglie e seleziona amori buoni e cattivi. |
| Color che ragionando andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo. | Coloro che ragionando andarono a fondo, si accorsero di questa libertà innata; perciò lasciarono la moralità al mondo. |
| Onde, poniam che di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s’accende, / di ritenerlo è in voi la podestate. | Onde, ammettiamo pure che di necessità sorga ogni amore che dentro di voi si accende, di trattenerlo è in voi il potere. |
| La nobile virtù Beatrice intende / per lo libero arbitrio, e però guarda / che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende -. | La nobile virtù Beatrice intende per il libero arbitrio, e perciò bada che l’abbia a mente, se comincia a parlartene -. |
| La luna, quasi a mezza notte tarda, / facea le stelle a noi parer più rade, / fatta com’un secchion che tuttor arda; | La luna, quasi a mezzanotte inoltrata, faceva apparire le stelle più rade a noi, fatta come un secchio che sempre arda; |
| e correa contro ‘l ciel per quelle strade / che ‘l sole infiamma allor che quel da Roma / tra ‘ Sardi e ‘ Corsi il vede quando cade. | e correva contro il cielo per quelle strade che il sole infiamma quando quello da Roma lo vede tramontare tra i Sardi e i Corsi. |
| E quell’ombra gentil per cui si noma / Pietola più che villa mantoana, / del mio carcar diposta avea la soma; | E quell’ombra gentile per cui si chiama Pietole più che villaggio mantovano, aveva deposto il peso del mio incarico; |
| per ch’io, che la ragione aperta e piana / sovra le mie quistioni avea ricolta, / stava com’om che sonnolento vana. | perciò io, che avevo raccolto la ragione chiara e semplice sulle mie questioni, stavo come un uomo che sonnolento vaneggia. |
| Ma questa sonnolenza mi fu tolta / subitamente da gente che dopo / le nostre spalle a noi era già volta. | Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che alle nostre spalle si era già volta verso di noi. |
| E quale Ismeno già vide e Asopo / lungo di sé di notte furia e calca, / pur che i Teban di Bacco avesser uopo, | E quale l’Ismeno e l’Asopo videro già lungo le loro rive di notte furia e calca, solo che i Tebani avessero bisogno di Bacco, |
| cotal per quel giron suo passo falca, / per quel ch’io vidi di color, venendo, / cui buon volere e giusto amor cavalca. | tale per quel girone affretta il suo passo, per quanto io vidi di coloro, venendo, che buon volere e giusto amore spinge. |
| Tosto fur sovr’a noi, perché correndo / si movea tutta quella turba magna; / e due dinanzi gridavan piangendo: | Presto furono sopra di noi, perché correndo si muoveva tutta quella grande turba; e due davanti gridavano piangendo: |
| – Maria corse con fretta a la montagna; / e Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna -. | – Maria corse in fretta alla montagna; e Cesare, per soggiogare Lerida, assalì Marsiglia e poi corse in Spagna -. |
| – Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda / per poco amor -, gridavan li altri appresso, / – che studio di ben far grazia rinverda -. | – Presto, presto, che il tempo non si perda per poco amore -, gridavano gli altri dietro, – che lo zelo di ben fare faccia rinverdire la grazia -. |
| – O gente in cui fervore aguto adesso / ricompie forse negligenza e indugio / da voi per tepidezza in ben far messo, / questi che vive, e certo i’ non vi bugio, / vuole andar sù, pur che ‘l sol ne riluca; / però ne dite ond’è presso il pertugio -. | – O gente in cui fervore acuto adesso compensa forse la negligenza e l’indugio da voi per tiepidezza nel ben fare messo, questi che vive, e certo non vi mento, vuole andare in su, purché il sole ci illumini; perciò diteci dove è vicino il passaggio -. |
| Parole furon queste del mio duca; / e un di quelli spirti disse: – Vieni / di retro a noi, e troverai la buca. | Queste furono le parole della mia guida; e uno di quegli spiriti disse: – Vieni dietro a noi, e troverai l’apertura. |
| Noi siam di voglia a muoverci sì pieni, / che restar non putem; però perdona, / se villania nostra giustizia tieni. | Noi siamo così pieni di voglia di muoverci, che non possiamo fermarci; perciò perdona, se consideri villania la nostra giustizia. |
| Io fui abate in San Zeno a Verona / sotto lo ‘mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona. | Io fui abate a San Zeno a Verona sotto l’impero del buon Barbarossa, di cui ancora Milano parla con dolore. |
| E tale ha già l’un piè dentro la fossa, / che tosto piangerà quel monastero, / e tristo fia d’avere avuta possa; | E c’è tale che ha già un piede nella fossa, che presto piangerà quel monastero, e sarà triste di aver avuto potere; |
| perché suo figlio, mal del corpo intero, / e de la mente peggio, e che mal nacque, / ha posto in loco di suo pastor vero -. | perché suo figlio, malato nel corpo, e peggio nella mente, e che nacque illegittimamente, ha posto in luogo del suo vero pastore -. |
| Io non so se più disse o s’ei si tacque, / tant’era già di là da noi trascorso; / ma questo intesi, e ritener mi piacque. | Non so se disse altro o se tacque, tanto era già trascorso oltre noi; ma questo intesi, e mi piacque ricordarlo. |
| E quei che m’era ad ogne uopo soccorso / disse: – Volgiti qua: vedine due / venir dando a l’accidïa di morso -. | E colui che mi era di soccorso ad ogni bisogno disse: – Volgiti qua: vedine due venire mordendo l’accidia -. |
| Di retro a tutti dicean: – Prima fue / morta la gente a cui il mar s’aperse, / che vedesse Iordan le rede sue. | Dietro a tutti dicevano: – Prima morì tutta la gente a cui il mar si aprì, che il Giordano vedesse i suoi eredi. |
| E quella che l’affanno non sofferse / fino a la fine col figlio d’Anchise, / sé stessa a vita sanza gloria offerse -. | E quella gente che non sopportò la fatica fino alla fine con il figlio di Anchise, offrì se stessa a una vita senza gloria -. |
| Poi quando fuor da noi tanto divise / quell’ombre, che veder più non potiersi, / novo pensiero dentro a me si mise, | Poi quando quelle ombre furono tanto lontane da noi, che non si potevano più vedere, un nuovo pensiero si formò dentro di me, |
| del qual più altri nacquero e diversi; / e tanto d’uno in altro vaneggiai, / che li occhi per vaghezza ricopersi, / e ‘l pensamento in sogno trasmutai. | dal quale nacquero molti altri e diversi pensieri; e tanto vaneggiavo d’uno in altro, che chiusi gli occhi per stanchezza, e il pensiero trasformai in sogno. |
Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto X del Purgatorio si apre con Dante e Virgilio che, dopo aver varcato la porta del Purgatorio custodita dall’angelo portiere, iniziano la loro salita attraverso un sentiero impervio e tortuoso. Il passaggio è descritto come un cammino a zigzag (“di qua, di là, di sù, di giù”), simbolo della difficoltà del percorso di purificazione.
Questa faticosa ascesa rappresenta emblematicamente l’arduo cammino che l’anima deve intraprendere per liberarsi dal peccato della superbia.
Giunti finalmente alla prima cornice del monte purgatoriale, i due poeti si trovano di fronte a un’ampia balza circolare. Qui Dante rimane colpito dalla vista della parete di marmo bianco sulla sua sinistra, decorata con bassorilievi di straordinaria fattura artistica. Questi non sono opera di mano umana, ma divina, e rappresentano esempi di umiltà, virtù contrapposta al vizio della superbia che in questa cornice viene espiato.
Il primo dei tre bassorilievi raffigura l’Annunciazione: l’angelo Gabriele appare alla Vergine Maria per annunciarle la nascita di Gesù. La scultura è descritta con tale realismo che Dante afferma che si sarebbe giurato di sentir pronunciare dall’angelo “Ave” e di vedere la risposta della Vergine nel suo atteggiamento di umile accettazione (“Ecce ancilla Dei”). Questo primo esempio incarna l’umiltà nella sua espressione religiosa più pura.
Il secondo bassorilievo rappresenta il re Davide che danza in abiti umili davanti all’Arca dell’Alleanza, mostrando come anche un potente sovrano possa abbassarsi dinanzi a Dio. La scena è così vivida che Dante percepisce quasi il suono dei canti e il profumo dell’incenso, creando un’esperienza sinestetica che fonde vista, udito e olfatto.
Il terzo esempio di umiltà è illustrato nel bassorilievo che ritrae l’imperatore Traiano mentre si ferma con il suo esercito per rendere giustizia a una povera vedova. La scena mostra un dialogo tra i due, con Traiano che inizialmente tenta di rimandare la questione al suo ritorno, ma poi, mosso dalla disperazione della donna, decide di fermarsi per amministrare giustizia immediata.
Questo episodio sottolinea come anche il detentore del massimo potere terreno debba piegarsi alle richieste di giustizia dei più umili.
La descrizione dei bassorilievi occupa gran parte del canto e serve a illustrare come l’arte possa avere una funzione didascalica, insegnando attraverso esempi visivi la virtù dell’umiltà. Dante sottolinea ripetutamente come queste sculture divine superino qualsiasi opera umana per realismo e capacità espressiva, al punto che sembrano parlare e muoversi agli occhi dell’osservatore.
Mentre è ancora assorto nella contemplazione delle immagini, Virgilio invita Dante a volgere lo sguardo dall’altra parte, dove si sta avvicinando una processione di anime. Sono i superbi che espiano il loro peccato portando sulle spalle enormi massi che li costringono a camminare piegati verso il suolo. Il contrappasso è evidente: coloro che in vita si sono innalzati con orgoglio sono ora costretti a restare curvi, con lo sguardo rivolto a terra.
Le anime avanzano lentamente, recitando una versione modificata del Padre Nostro, adattata alla loro condizione di anime purganti. Nella preghiera, chiedono a Dio di difenderli dalle tentazioni, pur riconoscendo che per loro, ormai salvi, queste non rappresentano più un pericolo. Pregano anche per i vivi, che ancora devono lottare contro il male.
Il canto si chiude con le anime che si avvicinano sempre più a Dante, ancora ignare della sua presenza. Sarà nel canto successivo che il poeta inizierà a dialogare con loro, conoscendo le loro storie terrene e le ragioni della loro espiazione.
Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
Nel Canto X del Purgatorio Dante presenta diverse figure che rivestono un ruolo significativo nell’economia narrativa e simbolica dell’opera. La loro caratterizzazione non è mai casuale, ma risponde all’intento pedagogico-morale che permea l’intera Commedia.
Dante personaggio attraversa una significativa evoluzione in questo canto. Lo vediamo inizialmente concentrato sull’osservazione dell’ambiente circostante, in particolare ipnotizzato dalla bellezza dei bassorilievi divini. Il suo atteggiamento manifesta un crescente sviluppo spirituale rispetto all’Inferno: non è più solo un testimone terrorizzato, ma un pellegrino che inizia a comprendere il valore educativo delle visioni che gli vengono offerte.
Il suo stupore di fronte all’arte divina rivela sia la sua sensibilità estetica sia la sua progressiva maturazione morale. Particolarmente significativa è la sua reazione davanti alle sculture: “Colui che mai non vide cosa nova / produsse esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si trova” (vv. 94-96). Queste parole esprimono la consapevolezza dell’unicità dell’esperienza che sta vivendo, segno di un’intelligenza spirituale in evoluzione.
Virgilio mantiene il suo tradizionale ruolo di guida sapiente e paziente. È lui a richiamare l’attenzione di Dante sulle anime che si avvicinano: “Guarda di là, maestro mio, che vène / per di là, mi parea, gente venire” (vv. 52-53). Questo invito a spostare lo sguardo dalle sculture alle anime reali sottolinea il suo ruolo pedagogico: dopo aver lasciato che Dante ammirasse gli esempi di umiltà, lo spinge a confrontarsi con le conseguenze concrete della superbia.
La dinamica tra i due poeti si sviluppa secondo uno schema ormai consolidato, ma con un livello di maturazione più avanzato: Virgilio continua a essere il maestro, ma Dante dimostra una capacità sempre maggiore di elaborare autonomamente gli insegnamenti ricevuti.
Tra le anime incontrate sulla prima cornice, spicca la figura di Omberto Aldobrandeschi, nobile della famiglia dei conti di Santafiora. La sua presentazione avviene negli ultimi versi del canto, quando ammette: “L’antico sangue e l’opere leggiadre / d’i miei maggior mi fer sì arrogante, / che, non pensando a la comune madre, / ogni uomo ebbi in despetto tanto avante” (vv. 89-93).
La confessione di Omberto è emblematica: egli riconosce come la superbia derivante dall’antica nobiltà della sua famiglia lo abbia condotto alla rovina spirituale. Il suo orgoglio aristocratico, che lo portava a disprezzare gli altri uomini dimenticando la comune origine da Eva (“la comune madre”), ha causato danni non solo a lui, ma anche ai suoi familiari.
Il personaggio di Omberto rappresenta perfettamente il peccato espiato nella prima cornice: la superbia derivante dal lignaggio, dalla nobiltà di sangue non accompagnata da virtù morali. La sua figura anticipa una riflessione che Dante svilupperà ampiamente nel Paradiso: il valore della nobiltà non risiede nella discendenza familiare ma nelle virtù personali.
Come esplicita successivamente nel Canto XVI, “Ben se’ tu manto che tosto raccorce: / sì che, se non s’appon di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force” (vv. 7-9), la nobiltà è come un mantello che si accorcia rapidamente se non viene rinnovato con azioni virtuose in ogni generazione.
Altre anime che popolano questa cornice, seppur non descritte dettagliatamente in questo canto, condividono la stessa condizione: camminano piegate sotto il peso di massi enormi, in un contrappasso che riflette perfettamente la loro colpa. Chi in vita ha tenuto il capo alto per superbia, ora è costretto a guardare costantemente verso il basso. Questa punizione rispecchia la concezione medievale della superbia come desiderio di innalzarsi oltre il proprio stato, contrapposta all’umiltà cristiana rappresentata dai bassorilievi.
La scelta dei personaggi in questo canto riflette la tecnica dantesca di alternare figure storiche, letterarie e religiose per costruire un mosaico morale completo. Omberto, in particolare, introduce il tema della vanità della gloria terrena e della nobiltà di sangue, anticipando le riflessioni su fama e virtù che percorreranno l’intero Purgatorio.
Analisi del Canto 10 Purgatorio: elementi tematici e narrativi
Il Canto 10 del Purgatorio si distingue per la complessità dei suoi elementi tematici e narrativi, organizzati intorno a una struttura tripartita che riflette la maturazione spirituale delle anime e dello stesso Dante pellegrino. Al centro dell’impianto narrativo troviamo la contrapposizione tra superbia e umiltà, che si manifesta attraverso un percorso visivo e simbolico di grande impatto poetico.
La narrazione si sviluppa seguendo tre momenti fondamentali: l’ingresso nella prima cornice attraverso una salita faticosa, la contemplazione dei bassorilievi divini rappresentanti esempi di umiltà, e infine l’incontro con le anime dei superbi. Questa progressione spaziale corrisponde a un itinerario spirituale che porta il poeta a comprendere gradualmente la natura del peccato di superbia e il valore redentivo dell’umiltà.
Un elemento tematico centrale è il contrasto tra arte umana e divina. I bassorilievi che Dante contempla non sono opere di artigiani terreni, ma sculture realizzate da Dio stesso, dotate di un realismo sovrannaturale che supera ogni possibilità artistica umana. Quando il poeta afferma che “visibile parlare” caratterizza queste opere, sottolinea la capacità dell’arte divina di trascendere i limiti della materia, rendendo “parlante” ciò che è immobile, “sonoro” ciò che è silenzioso.
Questa superiorità dell’arte divina diventa metafora della superiorità della grazia celeste rispetto alle capacità umane, tema ricorrente nell’intera Commedia.
Il valore pedagogico dell’immagine costituisce un altro elemento narrativo fondamentale. I bassorilievi rappresentanti l’Annunciazione, Davide danzante e l’episodio di Traiano non sono semplici decorazioni, ma strumenti didattici attraverso cui le anime purganti apprendono l’umiltà. La contemplazione di questi esempi positivi costituisce parte integrante del processo di purificazione.
Dante scrittore sfrutta qui la tradizione medievale dell’exemplum, conferendole però straordinaria vitalità poetica attraverso descrizioni dettagliate e cariche di pathos.
Particolarmente significativo è l’uso della preghiera come elemento narrativo. La lunga parafrasi del Padre Nostro recitata dalle anime purganti occupa ben diciotto versi e rappresenta un momento di profonda riflessione teologica. Questa preghiera, adattata alla condizione delle anime del Purgatorio, esprime il riconoscimento dei propri limiti e l’accettazione della volontà divina, atteggiamenti opposti alla superbia.
Il fatto che sia recitata collettivamente sottolinea inoltre il superamento dell’individualismo egocentrico tipico del peccato di superbia.
La simbologia del peso pervade l’intero canto. I superbi sono schiacciati da massi che li costringono a camminare curvi, con lo sguardo rivolto verso il basso. Questo contrappasso riflette perfettamente la natura del peccato: chi in vita si è innalzato con orgoglio sopra gli altri, guardandoli dall’alto in basso, ora è costretto all’umiliazione fisica.
La pesantezza del macigno simboleggia il fardello morale della superbia, che opprime lo spirito impedendogli di elevarsi verso Dio.
Dal punto di vista narrativo, è interessante notare la progressione ascendente che caratterizza il canto. Inizialmente Dante e Virgilio salgono faticosamente (“di qua, di su, di giù”), poi si fermano a contemplare esempi di umiltà, infine incontrano le anime purganti. Questo movimento ascensionale riflette il percorso di elevazione spirituale che caratterizza l’intera cantica del Purgatorio, regno di transizione verso la salvezza.
La dimensione temporale assume particolare rilevanza: il tempo della narrazione si dilata durante la contemplazione dei bassorilievi, creando un effetto di sospensione che sottolinea l’importanza di questi momenti di riflessione morale nel percorso di purificazione. Questa dilatazione temporale contrasta con la rapidità della salita iniziale, suggerendo come la meditazione sui modelli di virtù richieda un tempo di assimilazione prolungato.
Il tema della comunicazione attraversa l’intero canto, manifestandosi in diverse forme: le sculture che “parlano” senza proferire suono, le anime che recitano coralmente il Padre Nostro, e infine il dialogo diretto con Omberto Aldobrandeschi. Questa polifonia comunicativa sottolinea l’importanza del dialogo nel processo di redenzione spirituale.
Significativo è anche il ruolo di Virgilio come mediatore della conoscenza. È lui che invita Dante a guardare le anime che si avvicinano, richiamando la sua attenzione dalle sculture alle persone reali. Questo passaggio dalla contemplazione dell’arte alla relazione con esseri umani sottolinea l’importanza dell’incontro personale nel percorso di crescita morale.
Infine, emerge con forza il tema della riforma interiore attraverso la sofferenza. Le anime dei superbi, pur sottoposte a una pena dolorosa, accettano il loro castigo con umiltà, consapevoli che questa sofferenza temporanea le condurrà alla beatitudine eterna. La loro condizione esemplifica perfettamente la funzione purificatrice del dolore nel contesto della teologia cristiana medievale, dove la sofferenza non è mai fine a se stessa ma strumento di redenzione.
Figure retoriche nel Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia
Il Canto X del Purgatorio si distingue per la ricchezza e la varietà delle figure retoriche impiegate da Dante per trasmettere l’impatto visivo ed emotivo dei bassorilievi divini e dell’esperienza purgatoriale. Questi artifici stilistici non sono meri ornamenti, ma strumenti essenziali attraverso cui il poeta riesce a trasmettere il contrasto tra superbia e umiltà.
La sinestesia rappresenta una delle figure retoriche più significative del canto, particolarmente evidente nella descrizione dei bassorilievi. Quando Dante afferma che le sculture sembrano “parlare” e “cantare”, produce una fusione di sensazioni visive e uditive: “L’angel che venne in terra col decreto / della molt’anni lagrimata pace, / ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, / dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace”.
Attraverso questa sinestesia, il poeta enfatizza la straordinaria vivezza delle sculture divine che trascende la normale esperienza sensoriale.
Le similitudini abbondano nel canto, utilizzate per rendere più comprensibili concetti astratti o immagini complesse. Particolarmente efficace è la similitudine con cui Dante paragona il percorso a zigzag nella fenditura della roccia al movimento ondulatorio del mare: “come l’onda che fugge e s’appressa”. Con questa immagine, il poeta non solo descrive il movimento fisico, ma allude anche all’instabilità della condizione umana e al percorso oscillante di chi si purifica dal peccato della superbia.
L’iperbole viene magistralmente impiegata nella descrizione dell’impatto dei bassorilievi sull’osservatore: “Giurato si sarìa ch’el dicesse ‘Ave!'” (si sarebbe giurato che dicesse “Ave!”). Questa esagerazione retorica serve a sottolineare l’incredibile realismo delle sculture divine, capaci di superare qualsiasi opera d’arte umana, rafforzando il messaggio che la perfezione artistica è raggiungibile solo attraverso l’intervento divino.
La metafora del marmo come “pagina” su cui Dio ha impresso il suo messaggio morale rappresenta un’altra figura retorica centrale: “colui che mai non vide cosa nova / produsse esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si trova”. Il marmo diventa così non solo materiale scultoreo, ma veicolo di comunicazione divina, trasformando l’arte in strumento pedagogico per la purificazione delle anime.
Dante impiega anche l’antitesi per evidenziare contrapposizioni significative, come quella tra l’umiltà e la superbia: l’atteggiamento della Vergine Maria che “non sembrava imagine che tace” si contrappone alla postura curva delle anime superbe, costrette a guardare il suolo. Questa figura retorica sottolinea il rovesciamento di stato che caratterizza il contrappasso purgatoriale.
La personificazione arricchisce il testo quando il poeta attribuisce qualità umane alle sculture, descrivendo come “parlassero” o esprimessero emozioni: “era imaginata quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; / e avea in atto impressa esta favella / ‘Ecce ancilla Dei'” (era raffigurata colei che volle aprire la chiave dell’alto amore; e aveva impresso nell’atteggiamento queste parole: “Ecco l’ancella di Dio”).
Il chiasmo, figura di costruzione che dispone in ordine incrociato quattro elementi, appare nella struttura di alcuni versi dove Dante contrappone concetti: “com’io nel viso a quel di sotto guardo: / già scorger puoi come ciascun si picchia”. Questa disposizione incrociata enfatizza la relazione speculare tra gli esempi di umiltà e il castigo della superbia.
L’ekfrasis, sebbene non sia una figura retorica in senso stretto ma una tecnica descrittiva, è impiegata con straordinaria maestria nella rappresentazione dei bassorilievi. Dante trasforma in parole immagini visive con tale vividezza che il lettore può quasi “vedere” le sculture, rendendo l’esperienza poetica multisensoriale.
Infine, l’allitterazione di suoni consonantici, come nella descrizione di Davide che danza: “Dinanzi parea gente; e tutta quanta / partita in sette cori”, crea un ritmo musicale che imita il movimento della danza e la solennità della processione, intensificando l’effetto emotivo della scena.
Questa straordinaria ricchezza retorica permette a Dante di costruire un’esperienza poetica che trascende i limiti del linguaggio, trasportando il lettore nella dimensione spirituale del Purgatorio e rendendo tangibili i concetti morali e teologici che costituiscono il cuore della sua visione.
Temi principali del Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia
Il Canto X del Purgatorio si articola attorno a diversi temi fondamentali che riflettono la visione teologica e morale di Dante, creando un tessuto simbolico ricco di significati profondi.
Il tema predominante è indubbiamente la superbia e la sua purificazione. Dante colloca questo peccato nella prima cornice poiché, secondo la teologia medievale, la superbia rappresenta la radice di tutti gli altri vizi, il peccato originario che ha causato la caduta dell’uomo. Come spiega Tommaso d’Aquino, la superbia è l’amore smodato della propria eccellenza, l’atteggiamento di chi si eleva oltre il proprio limite, dimenticando la propria condizione di creatura dipendente da Dio.
Nel canto, le anime dei superbi espiano proprio questa colpa attraverso un contrappasso perfettamente calibrato: chi in vita si ergeva orgogliosamente, guardando gli altri dall’alto in basso, ora è costretto a camminare curvo sotto il peso di enormi massi.
In contrapposizione dialettica alla superbia, l’umiltà emerge come virtù salvifica. I tre esempi di umiltà rappresentati nei bassorilievi (l’Annunciazione, Davide danzante e Traiano con la vedova) costituiscono un vero e proprio trittico morale, una lezione visiva per le anime in espiazione.
Come sottolinea Dante stesso, l’umiltà non è debolezza, ma forza morale che permette all’essere umano di riconoscere la propria posizione nel cosmo divino. La struttura progressiva degli esempi (dall’ambito religioso a quello regale fino a quello imperiale) dimostra come questa virtù debba permeare ogni livello della società.
Un altro tema centrale è la giustizia divina, che si manifesta attraverso il sistema del contrappasso. La pena dei superbi non è semplice punizione, ma strumento di purificazione che permette alle anime di comprendere e correggere i propri errori. Come osserva acutamente Virgilio, la sofferenza temporanea del Purgatorio è funzionale alla salvezza eterna, rappresentando quindi un atto di misericordia piuttosto che di crudeltà.
La pedagogia dell’arte divina costituisce un altro elemento tematico fondamentale. I bassorilievi scolpiti da Dio stesso rappresentano una forma di comunicazione divina diretta all’uomo, dove l’arte trascende il semplice valore estetico per diventare strumento di educazione morale.
La perfezione di queste sculture, che superano la capacità umana al punto da sembrare vive e parlanti, riflette la perfezione dell’insegnamento divino, capace di toccare simultaneamente i sensi e l’intelletto.
Il tema della preghiera come strumento di purificazione emerge nella rielaborazione del Padre Nostro recitato dalle anime purganti. La preghiera, adattata alla condizione delle anime del Purgatorio, evidenzia l’importanza dell’umiltà nell’approccio a Dio e sottolinea la comunione spirituale che unisce i vivi e i morti. Questo elemento rivela la visione dantesca della Chiesa come corpo mistico che trascende i confini tra mondo terreno e ultraterreno.
Infine, il peso della nobiltà e la vanità della gloria terrena emergono nell’incontro con Omberto Aldobrandeschi. La sua confessione rivela come l’orgoglio derivante dall’antica nobiltà della famiglia lo abbia condotto alla rovina, sottolineando il contrasto tra la gloria effimera del mondo e i valori eterni dell’umiltà cristiana.
Attraverso questa figura, Dante critica implicitamente l’aristocrazia del suo tempo, suggerendo che la vera nobiltà non risiede nel sangue ma nella virtù.
Questa complessa rete tematica trasforma il Canto X in una profonda meditazione sulla condizione umana e sul cammino di purificazione necessario per trascenderla, rendendo questa sezione del Purgatorio non solo un momento narrativo della Commedia, ma anche un vero e proprio trattato morale sulla superbia e sull’umiltà.
Il Canto 10 Purgatorio della Divina Commedia in pillole
| Elemento | Descrizione |
|---|---|
| Ambientazione | Prima cornice del Purgatorio, dedicata all’espiazione della superbia |
| Struttura narrativa | Ingresso nella cornice, osservazione dei bassorilievi, incontro con le anime dei superbi |
| Eventi principali | • Dante e Virgilio attraversano la porta del Purgatorio • Contemplazione delle tre sculture divine che rappresentano l’umiltà • Incontro con le anime dei superbi che camminano curvati sotto enormi massi |
| Personaggi | • Dante: osservatore attento, in cammino di purificazione • Virgilio: guida che indirizza l’attenzione di Dante • Omberto Aldobrandeschi: anima di un nobile superbo in espiazione |
| Elementi simbolici | • Bassorilievi divini: esempi perfetti di umiltà • Massi sulle spalle: contrappasso della superbia • Salita a zigzag: difficoltà del percorso di purificazione |
| Figure retoriche | • Sinestesia: sculture che sembrano parlare • Similitudine: paragoni con l’arte terrena • Metafora: il marmo come pagina divina • Iperbole: perfezione sovrannaturale delle sculture |
| Temi principali | • Contrasto tra superbia e umiltà • Funzione didattica dell’arte • Redenzione attraverso la sofferenza • Riconoscimento della vanità umana |
| Messaggio morale | L’umiltà è fondamento di ogni virtù; la superbia, radice di ogni vizio, richiede un doloroso processo di purificazione che piega l’anima fino a renderla consapevole della propria limitatezza |