Il Canto XI del Purgatorio rappresenta un momento fondamentale nel percorso di purificazione spirituale che Dante intraprende nella seconda cantica della Divina Commedia. Situato nella prima cornice del monte purgatoriale, questo canto è dedicato ai superbi, coloro che in vita peccarono di orgoglio e presunzione.
Attraverso l’incontro con tre anime illustri – Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzan Salvani – Dante sviluppa una profonda riflessione sulla vanità della gloria terrena e sull’inevitabile destino di oblio che attende le opere umane, mostrando come l’umiltà sia l’antidoto necessario alla superbia.
Indice:
- Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 11 Purgatorio: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia
- Temi principali del 11 canto del Purgatorio della Divina Commedia
- Il Canto 11 del Purgatorio in pillole
Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
| Testo Originale | Parafrasi |
|---|---|
| «O Padre nostro, che ne’ cieli stai, / non circunscritto, ma per più amore / ch’ai primi effetti di là sù tu hai, | «O Padre nostro, che sei nei cieli, non perché lo spazio ti limiti, ma per il maggiore amore che tu nutri verso le prime creature angeliche che hai creato lassù, |
| laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore / da ogne creatura, com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore. | sia lodato il tuo nome e la tua potenza da ogni creatura, com’è giusto rendere grazie alla tua dolce influenza. |
| Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non podem da noi, / s’ella non vien, con tutto nostro ingegno. | Venga verso di noi la pace del tuo regno, perché noi non possiamo raggiungerla da soli, se essa non viene, nonostante tutto il nostro impegno. |
| Come del suo voler li angeli tuoi / fan sacrificio a te, cantando osanna, / così facciano li uomini de’ suoi. | Come i tuoi angeli fanno sacrificio a te del loro volere, cantando osanna, così facciano gli uomini del proprio. |
| Dà oggi a noi la cotidiana manna, / sanza la qual per questo aspro diserto / a retro va chi più di gir s’affanna. | Dà oggi a noi il pane quotidiano, senza il quale in questo aspro deserto torna indietro chi più si affanna a procedere. |
| E come noi lo mal ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascuno, e tu perdona / benigno, e non guardar lo nostro merto. | E come noi perdoniamo a ciascuno il male che abbiamo sofferto, così tu perdona benevolmente, e non considerare i nostri meriti. |
| Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona. | Non mettere alla prova la nostra virtù che facilmente si arrende, con l’antico avversario (il demonio), ma liberaci da lui che tanto la stimola. |
| Quest’ultima preghiera, segnor caro, / già non si fa per noi, che non bisogna, / ma per color che dietro a noi restaro». | Quest’ultima preghiera, Signore caro, non si fa per noi, che non ne abbiamo bisogno, ma per coloro che sono rimasti sulla terra». |
| Così a sé e noi buona ramogna / quell’ombre orando, andavan sotto ‘l pondo, / simile a quel che talvolta si sogna, | Così augurando buona fortuna a sé e a noi, quelle ombre pregando, procedevano sotto il peso, simile a quello che talvolta si sogna, |
| disparmente angosciate tutte a tondo / e lasse su per la prima cornice, / purgando la caligine del mondo. | diversamente angosciate tutte intorno e stanche su per la prima cornice, purificandosi dalla nebbia del mondo. |
| Se di là sempre ben per noi si dice, / di qua che dire e far per lor si puote / da quei c’hanno al voler buona radice? | Se di là (sulla terra) sempre si prega per noi, di qua cosa si può dire e fare per loro da quelli che hanno buone radici nella volontà? |
| Ben si de’ loro atar lavar le note / che portar quinci, sì che, mondi e lievi, / possano uscire a le stellate ruote. | Certamente si deve aiutarli a lavare le macchie che hanno portato da qui, così che, puri e leggeri, possano uscire verso le sfere celesti. |
| «Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi / tosto, sì che possiate muover l’ala, / che secondo il disio vostro vi lievi, | «Deh, che la giustizia e la pietà vi alleggerisca presto, così che possiate muovere l’ala che vi sollevi secondo il vostro desiderio, |
| mostrate da qual mano inver’ la scala / si va più corto; e se c’è più d’un varco, / quel ne ‘nsegnate che men erto cala, | mostrateci da quale parte verso la scala si va per la via più breve; e se c’è più di un passaggio, insegnateci quello che è meno ripido, |
| ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco / de la carne d’Adamo onde si veste, / al montar sù, contra sua voglia, è parco». | perché questi che viene con me, a causa del peso della carne di Adamo di cui è rivestito, nel salire, contro la sua volontà, è lento». |
| Le lor parole, che rendero a queste / che dette avea colui cu’ io seguiva, / non fur da cui venisser manifeste; | Le loro parole, che risposero a queste che aveva detto colui che io seguiva, non resero manifesto da chi provenissero; |
| ma fu detto: «A man destra per la riva / con noi venite, e troverete il passo / possibile a salir persona viva. | ma fu detto: «A mano destra lungo la riva venite con noi, e troverete il passaggio possibile a salire per una persona viva. |
| E s’io non fossi impedito dal sasso / che la cervice mia superba doma, / onde portar convienmi il viso basso, | E se io non fossi impedito dal sasso che doma la mia superba cervice, per cui devo tenere il viso basso, |
| cotesti, ch’ancor vive e non si noma, / guardere’ io, per veder s’i’ ‘l conosco, / e per farlo pietoso a questa soma. | guarderei costui, che ancora vive e non si nomina, per vedere se lo conosco, e per renderlo pietoso a questo peso. |
| Io fui latino e nato d’un gran tosco: / Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; / non so se ‘l nome suo già mai fu vosco. | Io fui italiano e nato da un grande toscano: Guglielmo Aldobrandeschi fu mio padre; non so se il suo nome vi sia mai giunto. |
| L’antico sangue e l’opere leggiadre / d’i miei maggior mi fer sì arrogante, / che, non pensando a la comune madre, | L’antica nobiltà e le opere illustri dei miei antenati mi resero così arrogante che, non pensando alla comune madre (la terra), |
| ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, / ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno / e sallo in Campagnatico ogne fante. | ebbi in disprezzo ogni uomo a tal punto che ne morii, come sanno i senesi e lo sa in Campagnatico ogni bambino. |
| Io sono Omberto; e non pur a me danno / superbia fa, ché tutti miei consorti / ha ella tratti seco nel malanno. | Io sono Omberto; e la superbia non danneggia solo me, perché ha trascinato con sé nella rovina tutti i miei parenti. |
| E qui convien ch’io questo peso porti / per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, / poi ch’io nol fe’ tra ‘ vivi, qui tra ‘ morti». | E qui conviene che io porti questo peso per lei, fino a che si soddisfi Dio, poiché non lo feci tra i vivi, qui tra i morti». |
| Ascoltando chinai in giù la faccia; / e un di lor, non questi che parlava, / si torse sotto il peso che li ‘mpaccia, | Ascoltando chinai in giù il viso; e uno di loro, non quello che parlava, si contorse sotto il peso che lo opprimeva, |
| e videmi e conobbemi e chiamava, / tenendo li occhi con fatica fisi / a me che tutto chin con loro andava. | e mi vide e mi riconobbe e mi chiamava, tenendo gli occhi con fatica fissi su di me che tutto chino procedevo con loro. |
| «Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?». | «Oh!», dissi a lui, «non sei tu Oderisi, l’onore di Gubbio e l’onore di quell’arte che a Parigi è chiamata miniare?». |
| «Frate», diss’elli, «più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte. | «Fratello», disse egli, «più splendono le pergamene che dipinge Franco Bolognese; l’onore è tutto suo ora, e mio solo in parte. |
| Ben non sare’ io stato sì cortese / mentre ch’io vissi, per lo gran disio / de l’eccellenza ove mio core intese; | Non sarei stato così cortese mentre ero in vita, per il gran desiderio di eccellere a cui il mio cuore mirava; |
| di tal superbia qui si paga il fio; / e ancor non sarei qui, se non fosse / che, possendo peccar, mi volsi a Dio. | di tale superbia qui si paga il prezzo; e non sarei ancora qui, se non fosse che, potendo ancora peccare, mi rivolsi a Dio. |
| Oh vana gloria de l’umane posse! / com’poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l’etati grosse! | Oh vana gloria delle capacità umane! quanto poco dura il verde sulla cima, se non è seguita da epoche di decadenza! |
| Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura. | Cimabue credette di tenere il primato nella pittura, e ora Giotto ha la fama, così che la reputazione di quello si è oscurata. |
| Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccherà del nido. | Così l’uno ha tolto all’altro Guido la gloria della poesia; e forse è nato chi caccerà dal nido l’uno e l’altro. |
| Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato. | Il clamore mondano non è altro che un soffio di vento, che ora viene da qui e ora da lì, e cambia nome perché cambia direzione. |
| Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne, che se fossi morto / anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’, | Che fama avrai tu di più, se ti separi dalla carne da vecchio, rispetto a se fossi morto prima di lasciare il «pappo» e il «dindi» (il linguaggio infantile), |
| pria che passin mill’anni? ch’è più corto / spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è torto. | prima che passino mille anni? che è spazio più breve rispetto all’eternità, di quanto sia un battito di ciglia rispetto al movimento del cielo delle stelle fisse che più lentamente ruota in cielo. |
| Colui che del cammin sì poco piglia / dinanzi a me, Toscana sonò tutta; / e ora a pena in Siena sen pispiglia, | Colui che del cammino prende così poco davanti a me, risuonò per tutta la Toscana; e ora appena in Siena se ne mormora, |
| ond’era sire quando fu distrutta / la rabbia fiorentina, che superba / fu a quel tempo sì com’ora è putta. | dove era signore quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che fu superba a quel tempo così come ora è corrotta. |
| La vostra nominanza è color d’erba, / che viene e va, e quei la discolora / per cui ella esce de la terra acerba». | La vostra fama è come il colore dell’erba, che viene e va, e la scolora colui per cui essa esce acerba dalla terra». |
| E io a lui: «Tuo vero dir m’incora / bona umiltà, e gran tumor m’appiani; / ma chi è quei di cui tu parlavi ora?». | E io a lui: «Il tuo vero parlare mi ispira una buona umiltà, e mi appiani un grande orgoglio; ma chi è colui di cui parlavi ora?». |
| «Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani; / ed è qui perché fu presuntuoso / a recar Siena tutta a le sue mani. | «Quello è», rispose, «Provenzano Salvani; ed è qui perché fu presuntuoso a ricondurre tutta Siena sotto il suo potere. |
| Ito è così e va, sanza riposo, / poi che morì; cotal moneta rende / a sodisfar chi è di là troppo oso». | È andato così e continua, senza riposo, da quando morì; tale moneta paga per soddisfare chi sulla terra è troppo ardito». |
| E io: «Se quello spirito ch’attende, / pria che si penta, l’orlo de la vita, / qua giù dimora e qua sù non ascende, | E io: «Se quello spirito che attende, prima di pentirsi, l’orlo della vita, dimora quaggiù e non sale quassù, |
| se buona orazion lui non aita, / prima che passi tempo quanto visse, / come fu la venuta lui largita?». | se buona preghiera non lo aiuta, prima che passi tanto tempo quanto visse, come gli fu concessa la venuta?». |
| «Quando vivea più glorioso», disse, / «liberamente nel Campo di Siena, / ogne vergogna diposta, s’affisse; | «Quando viveva più glorioso», disse, «liberamente nella piazza di Siena, deposta ogni vergogna, si fermò; |
| e lì, per trar l’amico suo di pena / ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, / si condusse a tremar per ogne vena. | e lì, per trarre il suo amico dalla pena che sosteneva nella prigione di Carlo, si condusse a tremare per ogni vena. |
| Più non dirò, e scuro so che parlo; / ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini / faranno sì che tu potrai chiosarlo. | Non dirò di più, e so che parlo in modo oscuro; ma passerà poco tempo prima che i tuoi concittadini faranno in modo che tu potrai spiegarlo. |
| Quest’opera li tolse quei confini». | Quest’opera gli tolse quei limiti (dell’attesa nell’Antipurgatorio)». |
Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il Canto XI del Purgatorio si svolge nella prima cornice del monte purgatoriale, dove i superbi espiano le loro colpe portando sulle spalle pesanti massi che li costringono a camminare curvi verso terra, in un contrappasso che rovescia perfettamente l’atteggiamento altero che li caratterizzò in vita. All’inizio del canto, Dante e Virgilio stanno percorrendo il sentiero tra la parete della montagna e le anime dei superbi, ascoltando una preghiera che queste anime recitano insieme.
La preghiera che apre il canto è una bellissima rielaborazione del Padre Nostro, adattata da Dante alla condizione delle anime purganti. I superbi invocano Dio non perché sia “circonscritto” nei cieli, ma per il maggior amore che Egli ha verso le prime creature celesti.
Chiedono il perdono divino e sottolineano che l’ultima richiesta della preghiera (“liberaci dal male”) è rivolta non per loro stessi, che sono ormai al sicuro dalle tentazioni, ma per coloro che sono rimasti sulla Terra. Questa preghiera rivela già un atteggiamento di umiltà e carità, diametralmente opposto alla superbia che caratterizzò queste anime durante la loro vita terrena.
Dopo la preghiera, Dante si china per osservare meglio le anime, e una di esse lo riconosce, chiamandolo. Si tratta di Omberto Aldobrandeschi, figlio del conte Guglielmo Aldobrandeschi di Santafiora, che confessa di essere stato estremamente orgoglioso del suo nobile lignaggio, al punto da disprezzare ogni altro essere umano.
Quest’orgoglio di stirpe lo portò alla morte, ucciso dai senesi a Campagnatico. Omberto riconosce che la superbia ha danneggiato non solo lui, ma tutta la sua famiglia, e ora sta espiando la sua colpa sotto il peso del masso.
Subito dopo, Dante nota un’altra anima che lo fissa attentamente. È Oderisi da Gubbio, celebre miniatore e illustratore di manoscritti. Oderisi introduce uno dei temi centrali del canto con le famose parole: “Oh vana gloria de l’umane posse!” (Oh vana gloria delle capacità umane!), Oderisi paragona la gloria mondana a un filo d’erba che resta verde sulla cima solo per un breve periodo.
Per illustrare questo concetto, porta esempi dal campo dell’arte: Cimabue, che un tempo dominava la pittura, è stato eclissato da Giotto; così come Guido Guinizelli è stato superato da Guido Cavalcanti in poesia, e forse è già nato chi supererà entrambi (un velato riferimento a Dante stesso).
Attraverso le parole di Oderisi, Dante sviluppa una profonda riflessione sulla fugacità della fama terrena, descritta come “un fiato di vento” che cambia nome quando cambia direzione. Questa riflessione culmina nell’affermazione che mille anni sono come un battito di ciglia rispetto all’eternità, dimostrando quanto sia effimera la gloria umana in confronto a quella divina.
L’ultimo personaggio che Dante incontra è Provenzan Salvani, un nobile senese che in vita fu arrogante e presuntuoso, cercando di assoggettare Siena al suo potere. Oderisi spiega a Dante che Provenzan Salvani, nonostante la sua superbia in vita, è stato ammesso direttamente al Purgatorio (senza attendere nell’Antipurgatorio) grazie a un gesto di profonda umiltà: quando un suo amico era prigioniero di Carlo d’Angiò e rischiava la morte senza un ingente riscatto, Provenzan si pose nella piazza principale di Siena a mendicare, mettendo da parte ogni orgoglio per salvare l’amico. Questo gesto di carità e umiliazione volontaria ha permesso a Provenzan di abbreviare il suo tempo di attesa prima di iniziare l’espiazione.
Il canto si conclude con una riflessione sulla vanagloria e sulla presunzione umana. Attraverso il contrappasso dei superbi e le storie dei tre personaggi incontrati, Dante costruisce un potente ammonimento contro la superbia e un elogio dell’umiltà. Il peso dei massi che piega le anime verso terra simboleggia il necessario abbassamento che l’anima deve subire per purificarsi dall’orgoglio e prepararsi all’ascesa verso il Paradiso. In questo modo, la sofferenza fisica diventa strumento di elevazione spirituale, in linea con la concezione purgatoriale di Dante, dove la pena è vista non come punizione fine a sé stessa, ma come mezzo di purificazione dell’anima.
Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia: i personaggi
Nel Canto XI del Purgatorio, Dante incontra tre anime esemplari che stanno espiando il peccato della superbia nella prima cornice del monte purgatoriale. Ognuno di questi personaggi incarna una diversa sfaccettatura di questo peccato, offrendo al lettore una complessa riflessione sulla natura della superbia e sul percorso necessario per purificarsi da essa.
Il primo personaggio che Dante incontra è Omberto Aldobrandeschi, nobile della Maremma toscana e conte di Santafiora. Egli rappresenta la superbia di nascita e di lignaggio, come lui stesso confessa: “L’antico sangue e l’opere leggiadre / d’i miei maggior mi fer sì arrogante, / che, non pensando a la comune madre, / ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, / ch’io ne mori'” (vv. 61-65).
Omberto ammette di essere stato così orgoglioso del proprio casato da disprezzare ogni altro uomo, dimenticando che tutti proveniamo dalla stessa madre (Eva o la Terra). Questo orgoglio lo condusse alla morte violenta per mano dei senesi a Campagnatico. La sua espiazione consiste nel portare un pesante masso che lo costringe a rimanere curvo, in una posizione che contrasta radicalmente con l’alterigia tenuta in vita.
Il secondo personaggio è Oderisi da Gubbio, celebre miniatore dell’epoca. Egli rappresenta la superbia artistica e intellettuale. Oderisi introduce uno dei temi centrali del canto con le famose parole: “Oh vana gloria de l’umane posse! / com’poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l’etati grosse!” (vv. 91-93).
La sua riflessione si sviluppa attraverso esempi concreti: Cimabue, una volta dominatore nella pittura, è stato superato da Giotto, così come Guido Guinizelli è stato superato da Guido Cavalcanti nella poesia. Oderisi riconosce che in vita era animato da un eccessivo desiderio di eccellere nella sua arte, ma ora comprende la vanità di tale ambizione.
Il terzo personaggio, forse il più interessante, è Provenzan Salvani, nobile senese e potente capo ghibellino. La sua storia è particolarmente significativa perché esemplifica come un atto di umiltà possa iniziare a redimere il peccato di superbia ancora in vita: “Quando vivea più glorïoso, disse, / liberamente nel Campo di Siena, / ogne vergogna diposta, s’affisse; / e lì, per trar l’amico suo di pena” (vv. 133-136).
Provenzan Salvani, per raccogliere il denaro necessario a riscattare un amico prigioniero di Carlo d’Angiò, si umiliò pubblicamente nella piazza di Siena chiedendo l’elemosina. Questo gesto di umiltà e carità gli ha permesso di abbreviare il tempo di attesa nell’Antipurgatorio.
Attraverso questi tre personaggi, Dante illustra diverse manifestazioni della superbia (di stirpe, intellettuale e politica) e propone l’umiltà come virtù necessaria per la redenzione. Ogni incontro diventa un’occasione per riflettere sulla vanità delle ambizioni terrene e sull’importanza di riconoscere i propri limiti nel cammino verso la purificazione spirituale.
Analisi del Canto 11 Purgatorio: elementi tematici e narrativi
Il Canto XI del Purgatorio rappresenta un passaggio cruciale nel percorso di purificazione dantesca, sviluppando una complessa architettura tematica e narrativa che si articola attorno alla superbia e alle sue manifestazioni. La tensione tra la gloria terrena e quella divina costituisce il nucleo tematico portante di questo canto, che si distingue per la sua profondità filosofica e teologica.
La preghiera rielaborata del Padre Nostro che apre il canto non è solo un momento liturgico, ma stabilisce immediatamente il contrasto fondamentale tra l’umiltà cristiana e la superbia umana. Dante modifica sapientemente la preghiera originale per adattarla alla condizione delle anime purganti, enfatizzando aspetti come la limitatezza umana e l’infinità divina.
Quando nel testo afferma “non circonscritto, ma per più amore / ch’ai primi effetti di là sù tu hai”, il poeta stabilisce una gerarchia cosmica che sarà la base dell’intero edificio narrativo del canto.
L’elemento strutturale più significativo è la progressione narrativa che si sviluppa attraverso i tre incontri principali. Ognuno di essi rappresenta una specifica declinazione della superbia: Omberto incarna la superbia di lignaggio, Oderisi quella artistica, e Provenzano quella politica. Questa tripartizione non è casuale, ma riflette i tre ambiti principali in cui la superbia umana si manifesta nella visione dantesca della società medievale.
Il contrappasso, elemento narrativo distintivo della poesia dantesca, raggiunge nel Canto XI una raffinatezza particolare. I superbi, che in vita “guardavano dall’alto in basso” gli altri, sono ora costretti a camminare curvi sotto il peso di massi, con lo sguardo rivolto verso terra.
La descrizione fisica di questa condizione si carica di valenze simboliche quando Dante paragona le anime piegate a cariatidi architettoniche: “Come per sostentar solaio o tetto, / per mensola talvolta una figura / si vede giugner le ginocchia al petto”. La punizione diventa così una correzione pedagogica che inverte fisicamente l’atteggiamento peccaminoso.
Particolarmente rilevante è il tema della vanità della gloria umana, sviluppato attraverso il discorso di Oderisi. La celebre terzina “Oh vana gloria de l’umane posse! / com’ poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l’etati grosse!” introduce una riflessione che si articola attraverso esempi concreti tratti dal mondo dell’arte e della letteratura.
Il riferimento a Cimabue e Giotto, e successivamente ai due Guidi (Guinizelli e Cavalcanti), costruisce una catena di successioni che dimostra l’effimera natura della fama mondana.
L’immagine della gloria terrena come “color d’erba” che sbiadisce al sole evolve in quella ancora più potente del “mondan romore” paragonato a un “fiato di vento”, che cambia nome a seconda della direzione da cui proviene. Questa metafora non è solo un ornamento retorico, ma un elemento narrativo che prepara la transizione verso l’esempio di Provenzano, la cui storia illustra come la gloria mondana possa essere riscattata attraverso un atto di umiltà.
Va notato come Dante costruisca un sottile gioco di specchi tra sé stesso e i personaggi che incontra. Quando Oderisi allude a “chi l’uno e l’altro caccherà del nido” (riferendosi presumibilmente a Dante stesso come successore dei due Guidi), emerge un elemento di autoconsapevolezza autoriale che arricchisce il tessuto narrativo.
Il poeta si inserisce nella stessa catena di successioni artistiche che sta descrivendo, suggerendo una riflessione meta-letteraria sulla propria ambizione poetica.
Il canto presenta una significativa evoluzione dell’elemento tempo. La concezione temporale si espande dal presente dell’espiazione al passato delle vite terrene, fino a proiettarsi verso il futuro della gloria eterna. Questa dilatazione temporale è funzionale al messaggio teologico: solo ciò che si allinea con la volontà divina può trascendere la temporalità umana e acquisire valore eterno.
Il percorso narrativo culmina nell’episodio di Provenzano Salvani, che rappresenta una sintesi dei temi precedenti. La sua storia di umiliazione volontaria (“liberamente nel Campo di Siena, / ogne vergogna diposta, s’affisse”) per salvare l’amico prigioniero introduce il tema della carità che redime.
Questo episodio completa la struttura circolare del canto: dalla preghiera iniziale, espressione collettiva di umiltà, si giunge all’esempio individuale di umiliazione volontaria motivata dall’amore.
Particolarmente significativa è la dimensione politica che emerge nel canto, con riferimenti a Firenze, Siena e alle loro rivalità. Dante utilizza queste tensioni municipali come microcosmo di una più universale tendenza umana alla superbia. Il destino di Provenzano, che da dominatore di Siena si riduce a mendicare in piazza, diventa emblematico della fragilità del potere temporale.
Infine, va rilevato come il percorso di Dante personaggio attraverso la cornice dei superbi contenga elementi autobiografici che arricchiscono la narrazione. Quando il poeta afferma “ch’io pur risposi lui a viso a viso” nel rivolgersi a Oderisi, suggerisce un riconoscimento della propria vulnerabilità al peccato di superbia, creando un legame diretto tra la condizione delle anime purganti e il suo personale percorso di purificazione.
La costruzione narrativa del Canto XI si rivela così un complesso intreccio di livelli tematici, dove ogni elemento contribuisce a una progressiva illuminazione del lettore sul significato della superbia e dell’umiltà. La sapiente orchestrazione di exempla, dialoghi e riflessioni filosofiche crea un percorso che non è solo racconto di un viaggio ultraterreno, ma invito a un cammino interiore di redenzione.
Figure retoriche nel Canto 11 Purgatorio della Divina Commedia
Il Canto XI del Purgatorio è particolarmente ricco di figure retoriche che Dante impiega con maestria per rafforzare il messaggio morale sulla superbia e l’umiltà. La parafrasi del Padre Nostro che apre il canto rappresenta un esempio eccellente di rielaborazione poetica di un testo sacro.
Tra le metafore più significative troviamo il “dolce vapore” (v. 6), utilizzata per indicare l’influenza benefica di Dio sulle creature, e la “manna cotidiana” (v. 13), che richiama il nutrimento spirituale necessario per affrontare “l’aspro diserto” (v. 14) della vita terrena. Particolarmente efficace è anche la perifrasi “antico avversaro” (v. 20) per indicare il demonio.
Le similitudini arricchiscono il testo con immagini concrete: “Come del suo voler li angeli tuoi / fan sacrificio a te […] / così facciano li uomini de’ suoi” (vv. 10-12) paragona l’obbedienza degli angeli a quella che dovrebbero avere gli uomini.
Memorabile è la similitudine tra i superbi curvi sotto i massi e le cariatidi architettoniche: “Come per sostentar solaio o tetto, / per mensola talvolta una figura / si vede giugner le ginocchia al petto” (vv. 136-138).
Le antitesi sono fondamentali nel canto: il contrasto tra la posizione eretta che i superbi mantenevano in vita e la postura curva della loro punizione; l’opposizione tra gloria mondana effimera e gloria celeste eterna. Oderisi esprime quest’ultima con potente efficacia: “Non è il mondan romore altro ch’un fiato / di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, / e muta nome perché muta lato” (vv. 100-102).
Allitterazioni come “per più amore” (v. 2) e “vana gloria” (v. 91) rafforzano la musicalità dei versi, mentre iperboli come “ogn’uomo ebbi in despetto” (v. 67) enfatizzano l’estremo orgoglio di Omberto.
La metafora vegetale è centrale nella riflessione sulla fama: “com’poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l’etati grosse!” (vv. 92-93), dove la gloria umana viene paragonata a un fragile germoglio destinato a breve vita.
Queste scelte retoriche non sono mero ornamento, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante costruisce il messaggio morale del canto, rendendo concreti e visivamente potenti i concetti astratti di superbia, umiltà e redenzione.
Temi principali del 11 canto del Purgatorio della Divina Commedia
Il Canto XI del Purgatorio sviluppa molteplici temi fondamentali nel percorso spirituale dantesco, offrendo una profonda riflessione morale che trascende il contesto storico medievale per assumere un valore universale.
Il tema principale è indubbiamente la superbia, il peccato capitale che Dante considera radice di tutti gli altri vizi. La rappresentazione fisica del contrappasso – i superbi che camminano curvi sotto pesanti massi – incarna perfettamente la lezione morale: chi in vita si elevò con orgoglio, ora è costretto ad abbassarsi.
La punizione non è meramente punitiva ma correttiva, evidenziando la funzione pedagogica del Purgatorio rispetto all’Inferno. Questa cornice rappresenta l’inizio del vero percorso di purificazione, poiché solo liberandosi dalla superbia l’anima può accedere alla grazia divina.
La vanità della gloria terrena emerge con straordinaria potenza nelle parole di Oderisi da Gubbio: “Oh vana gloria de l’umane posse! / com’poco verde in su la cima dura, / se non è giunta da l’etati grosse!”. Questa riflessione appartiene alla tradizione della vanitas vanitatum medievale, ma Dante la rinnova attraverso esempi concreti e contemporanei.
Cimabue superato da Giotto, Guinizelli da Cavalcanti: la fama artistica e letteraria è paragonata a “un fiato di vento” che cambia nome quando muta direzione. Significativamente, nel momento stesso in cui Dante denuncia la vanità della gloria, costruisce un monumento poetico che ambisce all’eternità, mostrando una profonda consapevolezza della tensione tra aspirazione terrena e valore spirituale.
Il tema dell’umiltà redentrice trova la sua espressione più potente nell’episodio di Provenzan Salvani. Il suo gesto di mendicare pubblicamente nella piazza di Siena per salvare un amico rappresenta un atto di carità che controbilancia parzialmente il suo peccato.
Dante suggerisce così che la redenzione dalla superbia passa attraverso atti concreti di umiliazione volontaria e amore per il prossimo. Non è sufficiente un pentimento interiore: occorre un’azione visibile che contrasti l’atteggiamento peccaminoso precedente.
La preghiera come strumento di purificazione costituisce un altro tema centrale. La parafrasi del Padre Nostro che apre il canto rivela come la preghiera umile rappresenti il primo passo verso la liberazione dal peccato. Significativamente, l’ultima parte della preghiera è rivolta a beneficio dei vivi, mostrando come la carità spirituale trascenda i confini tra i mondi.
Infine, il tema dell’autoreferenzialità permette a Dante di riflettere sulla propria condizione di poeta e peccatore. Quando Oderisi allude a un terzo poeta che supererà i due Guidi, il riferimento è probabilmente allo stesso Dante. Questo momento di autocoscienza rivela la complessità dell’autore, diviso tra l’aspirazione alla gloria poetica e la consapevolezza della sua vanità rispetto alla vera gloria celeste.
Il Canto 11 del Purgatorio in pillole
| Elemento | Descrizione |
|---|---|
| Ambientazione | Prima cornice del Purgatorio, dove sono puniti i superbi |
| Contrappasso | I superbi camminano curvi sotto pesanti massi, costretti a guardare il suolo in antitesi alla loro alterigia terrena |
| Preghiera iniziale | Rielaborazione del Padre Nostro adattata alla condizione dei penitenti, con particolare enfasi sul perdono e l’umiltà |
| Protagonisti | • Omberto Aldobrandeschi: nobile toscano, esempio di superbia di lignaggio • Oderisi da Gubbio: miniatore, esempio di superbia artistica • Provenzan Salvani: politico senese, esempio di superbia politica redenta da un atto di umiltà |
| Tema centrale | La vanità della gloria mondana e la caducità della fama terrena |
| Esempi citati | • Pittura: Cimabue superato da Giotto • Poesia: Guido Guinizelli superato da Guido Cavalcanti (e forse entrambi dal nuovo poeta) |
| Figure retoriche | • Metafore: “dolce vapore” (influenza divina), “manna cotidiana” (nutrimento spirituale) • Similitudini: comparazione tra superbi e cariatidi • Antitesi: tra altezza aspirata in vita e postura curva nella purificazione |
| Insegnamento morale | La superbia è radice di tutti i peccati; solo attraverso l’umiltà e la carità l’anima può elevarsi verso Dio |
| Messaggio allegorico | La gloria terrena è effimera (“un fiato di vento”); solo conformandosi alla volontà divina si ottiene la vera e durevole gloria |
| Significato nel percorso dantesco | Primo passo della purificazione spirituale: liberarsi dall’orgoglio per proseguire verso la beatitudine |