Il Canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia introduce il settimo cerchio dove sono puniti i violenti. Dominato dalla presenza del Minotauro e dei Centauri, questo canto presenta un paesaggio aspro e desolato, segnato da una frana causata dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo. Qui Dante esplora il tema della violenza contro il prossimo attraverso l’immagine potente del Flegetonte, fiume di sangue bollente dove sono immersi tiranni e assassini secondo la legge del contrappasso.
Indice:
- Canto 12 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 12 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 12 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 12 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del 12 canto dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 12 dell’Inferno in pillole
Canto 12 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo originale | Parafrasi |
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Era lo loco ov’a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco, tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. | Il luogo in cui giungemmo, per scendere verso la riva, era scosceso e, a causa di ciò che vi si trovava, tale che chiunque avrebbe distolto lo sguardo. |
Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l’Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, | Simile a quella frana che, nel fianco della montagna di qua da Trento (a sud di Trento), colpì l’Adige, causata o da un terremoto o da cedimento del terreno, |
che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: | roccia che dalla cima del monte, da dove si staccò, è così ripida fino alla pianura che fornirebbe una qualche via a chi fosse in alto; |
cotal di quel burrato era la scesa; e ‘n su la punta de la rotta lacca l’infamïa di Creti era distesa | così era la discesa di quel burrone; e sulla sommità della ripa franata era disteso il Minotauro, l’infamia di Creta |
che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l’ira dentro fiacca. | che fu concepito nella falsa vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come fanno quelli che la rabbia interiore abbatte. |
Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse tu credi che qui sia ‘l duca d’Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? | La mia saggia guida gridò verso di lui: “Forse credi che qui ci sia il duca di Atene (Teseo), che nel mondo dei vivi ti diede la morte? |
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene”. | Allontanati, bestia, perché costui non viene qui istruito da tua sorella (Arianna), ma procede per vedere le vostre pene”. |
Qual è quel toro che si slaccia in quella c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, | Come un toro che si scioglie dai lacci nel momento in cui ha ricevuto il colpo mortale, che non sa dove andare, ma salta qua e là, |
vid’io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: “Corri al varco; mentre ch’e’ ‘nfuria, è buon che tu ti cale”. | così vidi fare il Minotauro; e Virgilio, avveduto, gridò: “Corri verso il passaggio; è meglio che tu scenda mentre quello infuria”. |
Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. | Così prendemmo la via giù per la scarica di quelle pietre, che spesso si muovevano sotto i miei piedi per il nuovo peso. |
Io gia pensando; e quei disse: “Tu pensi forse a esta ruina, ch’è guardata da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. | Io procedevo pensieroso; e lui disse: “Tu pensi forse a questa frana, che è custodita da quell’ira bestiale che io ho ora placato. |
Or vo’ che sappi che l’altra fïata ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. | Ora voglio che tu sappia che l’altra volta che io discesi quaggiù nell’Inferno profondo, questa roccia non era ancora crollata. |
Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, | Ma certamente poco prima, se ben ricordo, che venisse colui (Cristo) che sottrasse a Dite la grande preda dal cerchio superiore (il Limbo), |
da tutte parti l’alta valle feda tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor, per lo qual è chi creda | da tutte le parti la profonda valle fetida tremò così tanto che io pensai che l’universo avvertisse l’amore, per il quale c’è chi crede |
più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso. | che il mondo si sia trasformato più volte in caos; e in quel momento questa antica roccia, qui e altrove, fece un tale rovesciamento. |
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per violenza in altrui noccia”. | Ma fissa gli occhi a valle, perché si avvicina il fiume di sangue nel quale bolle chiunque abbia danneggiato gli altri con la violenza”. |
Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! | Oh cieca cupidigia e ira folle, che così ci sproni nella breve vita, e poi nell’eternità ci immergi in un male così grande! |
Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto ‘l piano abbraccia, secondo ch’avea detto la mia scorta; | Io vidi un’ampia fossa curvata ad arco, come quella che abbraccia tutta la pianura, secondo quanto aveva detto la mia guida; |
e tra ‘l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. | e tra il piede della riva e il fossato, in fila correvano i centauri, armati di frecce, come erano soliti andare a caccia nel mondo dei vivi. |
Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; | Vedendoci scendere, ciascuno si fermò, e dalla schiera tre si allontanarono con archi e frecce già scelte; |
e l’un gridò da lungi: “A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l’arco tiro”. | e uno gridò da lontano: “A quale martirio venite voi che scendete la costa? Ditelo da lì; altrimenti, tiro l’arco”. |
Lo mio maestro disse: “La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta”. | Il mio maestro disse: “Daremo la risposta a Chirone lì vicino: purtroppo la tua volontà fu sempre così impaziente”. |
Poi mi tentò, e disse: “Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, e fé di sé la vendetta elli stesso. | Poi mi toccò, e disse: “Quello è Nesso, che morì per la bella Deianira, e si vendicò da solo. |
E quel di mezzo, ch’al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. | E quello di mezzo, che si guarda il petto, è il grande Chirone, che allevò Achille; quell’altro è Folo, che fu così pieno d’ira. |
Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille”. | Intorno al fossato vanno a migliaia, colpendo con le frecce ogni anima che si sollevi dal sangue più di quanto la sua colpa le permetta”. |
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. | Noi ci avvicinammo a quelle fiere agili: Chirone prese una freccia, e con la cocca (parte posteriore della freccia) spostò la barba all’indietro dalle mascelle. |
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, disse a’ compagni: “Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch’el tocca? | Quando ebbe scoperto la grande bocca, disse ai compagni: “Vi siete accorti che quello che viene dietro (Dante) muove ciò che tocca? |
Così non soglion far li piè d’i morti”. | Così non sogliono fare i piedi dei morti”. |
E ‘l mio buon duca, che già li er’al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto | E la mia buona guida, che già gli era giunto al petto, dove le due nature si uniscono, rispose: “È ben vivo, e così solo |
mostrar li mi convien la valle buia; necessità ‘l ci ‘nduce, e non diletto. | devo mostrargli la valle oscura; necessità ci induce, e non piacere. |
Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest’officio novo: non è ladron, né io anima fuia. | Tale si allontanò dal cantare alleluia (Beatrice) che mi affidò questo nuovo incarico: non è un ladro, né io sono un’anima ladra. |
Ma per quella virtù per cu’ io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, | Ma in nome di quella virtù grazie alla quale io muovo i miei passi per una strada così selvaggia, dacci uno dei tuoi, che ci stia vicino, |
e che ne mostri là dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l’aere vada”. | e che ci mostri là dove si guada, e che porti costui sulla groppa, poiché non è uno spirito che possa andare per l’aria”. |
Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida, e fa cansar s’altra schiera v’intoppa”. | Chirone si volse sul fianco destro, e disse a Nesso: “Torna indietro e guidali, e fa allontanare ogni altra schiera che incontriate”. |
Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. | Ora ci muovemmo con la guida fidata lungo la riva del bollore vermiglio, dove i dannati immersi emettevano alte grida. |
Io vidi gente sotto infino al ciglio; e ‘l gran centauro disse: “E’ son tiranni che dier nel sangue e ne l’aver di piglio. | Io vidi gente immersa fino alle ciglia; e il grande centauro disse: “Sono tiranni che si macchiarono di sangue e si appropriarono delle ricchezze altrui. |
Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dïonisio fero che fé Cicilia aver dolorosi anni. | Qui si piangono i danni spietati; qui c’è Alessandro, e il feroce Dionisio che fece passare alla Sicilia anni dolorosi. |
E quella fronte c’ha ‘l pel così nero, è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero | E quella fronte che ha i capelli così neri è Ezzelino; e quell’altro che è biondo è Obizzo d’Este, che veramente |
fu spento dal figliastro sù nel mondo”. | fu ucciso dal figliastro su nel mondo”. |
Allor mi volsi al poeta, e quei disse: “Questi ti sia or primo, e io secondo”. | Allora mi volsi al poeta, e quello disse: “Questo (Nesso) sia ora la tua prima guida, e io la seconda”. |
Poco più oltre il centauro s’affisse sovr’una gente che ‘nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. | Poco più avanti il centauro si fermò sopra un gruppo di dannati che fino alla gola sembrava uscire da quel bulicame (acqua bollente). |
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola”. | Ci mostrò un’ombra sola in disparte, dicendo: “Colui trafisse in grembo a Dio il cuore che sul Tamigi ancora si venera”. |
Poi vidi genti che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto ‘l casso; e di costoro assai riconobb’io. | Poi vidi genti che fuori dal fiume tenevano la testa e ancora tutto il busto; e di questi ne riconobbi molti. |
Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. | Così sempre più si faceva basso quel sangue, fino a che scottava solo i piedi; e lì fu il nostro passaggio del fossato. |
“Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema”, disse ‘l centauro, “voglio che tu creda | “Così come tu vedi da questa parte il bulicame che sempre diminuisce”, disse il centauro, “voglio che tu creda |
che da quest’altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. | che dall’altra parte prema sempre più giù il suo fondo, finché si ricongiunge dove è conveniente che la tirannia gema. |
La divina giustizia di qua punge quell’Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge | La divina giustizia qui punisce quell’Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in eterno spreme |
le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra”. | le lacrime, che con il bollore libera, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero tanta guerra alle strade (furono briganti)”. |
Poi si rivolse e ripassossi ‘l guazzo. | Poi si voltò e ripassò il guado. |
Canto 12 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia segna un momento cruciale nel viaggio ultraterreno di Dante: l’ingresso nel settimo cerchio infernale, dove vengono puniti i violenti. La narrazione si apre con i due poeti che si trovano davanti a una discesa impervia, una frana rocciosa che Dante paragona eloquentemente alla frana dell’Adige nei pressi di Trento (la “Slavini di Marco”).
Questa “ruina” scoscesa non è solo un elemento paesaggistico, ma possiede un profondo significato teologico. Virgilio spiega infatti che il dissesto è stato causato dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo, quando “l’universo sentì amor” (v. 41). Questo collegamento tra geografia infernale e storia della Redenzione sottolinea come tutto l’Inferno sia segnato dalla presenza divina, anche nella sua assenza.
Al culmine della frana, i poeti incontrano il primo guardiano del settimo cerchio: il Minotauro, creatura metà uomo e metà toro, nato dall’unione della regina Pasifae con un toro. Dante lo descrive in preda a una furia bestiale:
“Qual è quel toro che si slaccia in quella / c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella, / vid’io lo Minotauro far cotale.”
Il mostro rappresenta perfettamente la natura dei peccati puniti in questo cerchio: la violenza irrazionale e bestiale. Virgilio lo distrae ricordandogli la sua sconfitta per mano di Teseo, permettendo così ai due viandanti di proseguire il cammino.
Scendendo lungo la frana, Dante e Virgilio giungono al Flegetonte, un fiume di sangue bollente dove sono immersi, a diverse profondità, i violenti contro il prossimo. La pena risponde perfettamente al principio del contrappasso: chi ha versato il sangue altrui è condannato a restare immerso nel sangue per l’eternità, con un’immersione proporzionale alla gravità delle colpe commesse.
Ai bordi del fiume, i poeti incontrano un gruppo di Centauri armati di archi e frecce, che pattugliano le rive del Flegetonte. Queste creature mitologiche, metà uomo e metà cavallo, hanno il compito di sorvegliare i dannati e colpire con le loro frecce chi tenta di emergere dal sangue oltre il livello stabilito dalla giustizia divina.
Tre Centauri si staccano dal gruppo: Nesso, Chirone e Folo. Chirone, la figura più autorevole, riconosce immediatamente che Dante è un essere vivente (nota che al suo passaggio le pietre si muovono sotto i suoi piedi, cosa che non accade con le anime). Dopo un breve colloquio con Virgilio, Chirone assegna Nesso come guida ai poeti per attraversare il fiume di sangue.
Durante il guado, Nesso indica a Dante i tiranni e gli assassini più famosi immersi nel Flegetonte. Nel sangue bollente fino alle ciglia si trovano i tiranni che “dier nel sangue e ne l’aver di piglio” (v. 105), tra cui Alessandro (probabilmente il Magno), Dionisio di Siracusa, Ezzelino III da Romano e Obizzo II d’Este. Più avanti si scorgono altri violenti famosi come Attila, definito “flagello in terra”, Pirro e Sesto, figlio di Pompeo.
Particolarmente significativo è il modo in cui Dante presenta questi dannati: sono personaggi storici di diverse epoche, accomunati dalla violenza esercitata contro il prossimo. La gradualità dell’immersione nel sangue bollente evidenzia la precisione della giustizia divina, che distingue con esattezza tra i diversi gradi di colpevolezza.
Il canto si conclude con Nesso che lascia i poeti dopo averli guidati attraverso il guado del Flegetonte, indicando loro il cammino per proseguire l’esplorazione del settimo cerchio. Questo passaggio segna la transizione verso il secondo girone, dove saranno puniti i violenti contro se stessi (suicidi).
La struttura narrativa del canto è particolarmente efficace: dalla discesa iniziale lungo la frana, all’incontro con il guardiano bestiale, fino all’esplorazione del primo girone con la guida di un essere mitologico. Dante costruisce una progressione drammatica che sottolinea la gravità crescente dei peccati puniti nell’Inferno. Il settimo cerchio rappresenta infatti un salto qualitativo nella gravità delle colpe: dalla incontinenza (punita nei cerchi precedenti) si passa alla violenza, manifestazione attiva del male che si oppone direttamente all’ordine divino.
Canto 12 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante introduce figure mitologiche e personaggi storici che incarnano diverse forme di violenza. Questi personaggi non sono semplici presenze narrative, ma rappresentano concetti morali precisi all’interno della struttura teologica dantesca.
Il Minotauro
Il Minotauro è la prima creatura che i poeti incontrano all’ingresso del settimo cerchio. Nato dall’unione contro natura tra Pasifae e un toro, questo mostro metà uomo e metà toro rappresenta la violenza bestiale e irrazionale. Dante lo descrive in preda alla rabbia, che morde sé stesso come chi è sopraffatto dall’ira:
“Qual è quel toro che si slaccia in quella / c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella, / vid’io lo Minotauro far cotale.”
Il comportamento del Minotauro simboleggia la natura autodistruttiva della violenza: chi si abbandona all’ira finisce per danneggiare sé stesso. La reazione furiosa alla menzione di Teseo evidenzia come il peccato rimanga eternamente ferito dal suo stesso fallimento. Sul piano allegorico, il Minotauro rappresenta l’abbandono della razionalità umana a favore dell’istinto bestiale.
I Centauri
I Centauri costituiscono il secondo gruppo di creature mitologiche nel canto. Metà uomini e metà cavalli, armati di archi e frecce, pattugliano il Flegetonte colpendo i dannati che tentano di emergere dal sangue oltre il livello stabilito. Tre figure si distinguono tra loro:
- Chirone: il capo dei Centauri, caratterizzato da saggezza e autorevolezza. A differenza degli altri, mostra capacità di riflessione, notando che Dante è vivo perché muove ciò che tocca. La sua figura rappresenta l’uso razionale della forza, contrapposto alla violenza cieca del Minotauro.
- Nesso: scelto da Chirone come guida per i due poeti, rappresenta un uso più personale e passionale della violenza. Nella mitologia, rapì Deianira e fu ucciso da Ercole, ma prima di morire le consegnò una tunica intrisa del proprio sangue che avrebbe poi causato la morte dell’eroe.
- Folo: descritto come “pien d’ira”, incarna l’aspetto più irascibile e impetuoso dei Centauri.
I Centauri rappresentano una forma di violenza più organizzata e controllata rispetto a quella del Minotauro. Mentre la parte inferiore è equina (simbolo dell’istinto), la parte superiore è umana (simbolo della ragione), suggerendo un uso calcolato della forza che, pur essendo peccaminoso, mantiene un elemento razionale.
I Tiranni e i Violenti
Immersi nel fiume di sangue bollente si trovano i violenti contro il prossimo, puniti secondo una precisa gerarchia:
- Tiranni e dittatori: completamente immersi fino agli occhi, hanno commesso violenze su vasta scala. Tra questi:
- Alessandro (probabilmente Magno, sebbene vi siano dibattiti tra gli studiosi)
- Dionisio di Siracusa, tiranno della Sicilia
- Ezzelino III da Romano (“Azzolino”), tiranno della Marca Trevigiana, definito “figlio del demonio”
- Obizzo II d’Este, marchese di Ferrara
- Condottieri e guerrieri: immersi fino al collo o al petto, hanno esercitato la violenza in guerre e conflitti:
- Attila, re degli Unni, definito “flagello in terra”
- Pirro, re dell’Epiro, noto per la ferocia in battaglia
- Predoni e assassini: immersi fino a diverse altezze in base alla gravità delle loro colpe:
- Sesto, figlio di Pompeo, dedito alla pirateria
- Rinier da Corneto e Rinier Pazzo, briganti dell’Italia centrale
Ciascun dannato rappresenta una sfumatura diversa della violenza contro il prossimo: dalla violenza istituzionalizzata dei tiranni alla brutalità individuale dei predoni. La loro punizione rispecchia perfettamente il contrappasso: chi ha versato il sangue altrui è condannato a rimanere immerso nel sangue bollente per l’eternità.
La presenza di personaggi storici di diverse epoche (dall’antichità al medioevo) sottolinea la natura universale e senza tempo della condanna dantesca verso la violenza. Attraverso questi personaggi, Dante non solo illustra la sua concezione morale, ma lancia anche un monito ai potenti del suo tempo, suggerendo che la violenza istituzionalizzata non sfugge al giudizio divino.
Analisi del Canto 12 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un momento cruciale nel viaggio ultraterreno di Dante, segnando l’ingresso nel settimo cerchio infernale dove sono puniti i violenti. Questo passaggio è caratterizzato da una ricca stratificazione di elementi tematici e narrativi che contribuiscono alla complessità dell’opera dantesca.
La struttura narrativa del canto si sviluppa attraverso tre momenti distinti: l’incontro con il Minotauro e la discesa lungo la frana, la presentazione del Flegetonte con i Centauri guardiani, e infine l’osservazione dei tiranni immersi nel fiume di sangue. Questa progressione non è casuale ma risponde a un preciso disegno teologico e morale.
Il tema del contrappasso, principio cardine della giustizia divina nell’Inferno dantesco, trova qui una delle sue espressioni più emblematiche. I violenti contro il prossimo, che in vita hanno versato sangue altrui, sono ora immersi nel sangue bollente, con una profondità proporzionale alla gravità dei loro crimini. I tiranni, responsabili di violenze su vasta scala, sono sommersi fino agli occhi, mentre altri dannati sono immersi a diverse altezze. Questa precisa gradazione delle pene riflette l’ordine geometrico e proporzionale della giustizia divina, dove ogni punizione corrisponde esattamente alla colpa commessa.
Particolarmente significativo è il legame che Dante stabilisce tra l’evento naturale della frana infernale e la morte di Cristo. Virgilio spiega che il terremoto che ha sconvolto l’Inferno è lo stesso che ha accompagnato la crocifissione, quando “l’universo sentì amor”. Questo collegamento teologico trasforma un elemento geografico in un simbolo della Redenzione, suggerendo come il sacrificio di Cristo abbia sconvolto l’ordine cosmico, incluso il regno dei dannati. La frana diventa così un segno tangibile dell’irruzione del divino nella storia umana.
Un altro elemento tematico fondamentale del cant0 12 dell’Inferno della Divina Commedia è l’utilizzo della mitologia classica in chiave cristiana. Dante opera una sintesi culturale straordinaria, reinterpretando figure della tradizione pagana come il Minotauro e i Centauri all’interno di un sistema morale cristiano. Il Minotauro non è più solo il mostro del labirinto cretese, ma diventa allegoria della bestialità irrazionale, dell’abbrutimento dell’uomo che cede alle passioni violente. Similmente, i Centauri rappresentano una forma più evoluta di violenza, quella disciplinata e organizzata, usata come strumento di potere.
Anche la scelta di Chirone come capo dei Centauri non è casuale: nella mitologia classica era il saggio educatore di eroi come Achille, qui trasformato in amministratore della giustizia divina. Questa reinterpretazione cristiana di figure pagane riflette la visione medievale che vedeva nella cultura classica un’anticipazione imperfetta della verità cristiana.
La funzione pedagogica del canto emerge chiaramente nel dialogo tra Virgilio e i Centauri. Come spesso accade nella Commedia, Virgilio non solo guida fisicamente Dante, ma fornisce anche le spiegazioni necessarie per comprendere il significato morale di ciò che osserva. La guida latina rappresenta la ragione umana che, pur non illuminata dalla fede cristiana, è comunque in grado di comprendere l’ordine etico dell’universo.
Il fiume di sangue, il Flegetonte, rappresenta un elemento chiave nella geografia morale dell’Inferno. Nei fiumi infernali si concretizza la materializzazione delle colpe: il sangue versato in vita diventa letteralmente il luogo della punizione eterna. Questo processo di concretizzazione del peccato è tipico dell’immaginario dantesco, dove le colpe spirituali assumono forme fisiche tangibili.
Il canto presenta anche una sottile critica politica attraverso la galleria di tiranni puniti. Figure come Alessandro (probabilmente Magno), Dionisio di Siracusa, Ezzelino da Romano e Attila rappresentano diverse forme di tirannide e abuso di potere. In un’epoca di aspri conflitti politici come quella di Dante, questa condanna dei violenti aveva un chiaro valore didattico e civile, richiamando i potenti alle loro responsabilità morali.
La transizione verso forme di peccato più gravi è un altro elemento strutturale significativo. Il settimo cerchio segna l’ingresso nella zona dell’Inferno dedicata alla malizia, dove il male non è più frutto di incontinenza ma di deliberata scelta. Questo passaggio è sottolineato dal cambiamento del paesaggio, sempre più aspro e minaccioso, e dalla presenza di guardiani sempre più terrificanti.
La discesa fisica dei poeti corrisponde a una progressiva discesa nella gravità morale dei peccati. Il paesaggio stesso, con la sua frana scoscesa, diventa metafora della caduta morale dell’umanità, mentre la presenza dei mostri mitologici suggerisce l’allontanamento dalla pienezza dell’umanità razionale verso forme degradate di esistenza.
Infine, un tema ricorrente nel canto 12 dell’inferno della Divina Commedia è il rapporto tra violenza e bestialità. Sia il Minotauro che i Centauri sono creature ibride, metà umane e metà animali, a simboleggiare come la violenza rappresenti una regressione dell’essere umano verso la sua componente animale. Quando l’uomo cede agli istinti violenti, rinuncia alla sua razionalità distintiva per abbracciare la bestialità.
Figure retoriche nel Canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia
Il dodicesimo canto dell’Inferno è caratterizzato da un ricco apparato retorico che contribuisce a rendere vivida e drammatica la narrazione dantesca. Dante utilizza figure retoriche non solo come abbellimenti poetici, ma come veri e propri strumenti per trasmettere significati più profondi e creare un’esperienza emotiva coinvolgente per il lettore.
La similitudine è tra le figure più frequenti e significative. Nei versi iniziali (vv. 4-10), il poeta paragona la frana infernale alla rovina delle Alpi presso Trento causata dall’Adige:
“Qual è quella ruina che nel fianco / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco, / che da cima del monte, onde si mosse, / al piano è sì la roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse…”
Questa similitudine permette a Dante di rendere comprensibile la geografia infernale tramite un riferimento concreto al mondo reale, creando un ponte tra l’esperienza terrena e quella oltremondana.
Altrettanto potente è la similitudine che descrive il Minotauro infuriato (vv. 22-25):
“Qual è quel toro che si slaccia in quella / c’ha ricevuto già ‘l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella, / vid’io lo Minotauro far cotale.”
Paragonando la creatura mitologica a un toro ferito a morte, Dante crea un’immagine immediatamente riconoscibile di furia impotente e disperazione, amplificando la tensione drammatica della scena.
Le metafore sono altrettanto significative. Il Flegetonte viene definito “riviera del sangue” (v. 47), trasformando il concetto astratto della violenza in una realtà fisica e tangibile. Questa potente metafora visualizza il principio del contrappasso: chi ha versato il sangue altrui è costretto a rimanere immerso eternamente nel sangue.
Dante impiega anche efficaci personificazioni. Nel verso 41, descrivendo il terremoto alla morte di Cristo, scrive: “pensai che l’universo / sentisse amor“, attribuendo all’intero cosmo la capacità di provare sentimenti umani. Questa figura retorica sottolinea la portata universale dell’evento della Redenzione.
L’allegoria permea l’intero canto. Il Minotauro rappresenta la bestialità umana e l’irrazionalità della violenza, mentre i Centauri simboleggiano una forma più controllata e ordinata di forza. Queste figure mitologiche vengono reinterpretate da Dante in chiave cristiana, assumendo significati morali che trascendono la loro origine pagana.
Il poeta utilizza anche la perifrasi per elevare lo stile e aggiungere solennità. Alla fine del canto, si riferisce ai dannati come “coloro che ‘l bollor sanguigno / riceve” (vv. 101-102), evitando la menzione diretta e creando un effetto di distanziamento retorico che enfatizza la gravità della punizione.
Notevoli sono le allitterazioni che creano effetti sonori significativi. Nel verso 54, “sangue si sticca“, l’allitterazione della “s” evoca il suono del sangue ribollente. Simile effetto si trova in “qual che per violenza in altrui noccia” (v. 48), dove la ripetizione dei suoni nasali intensifica l’idea di sofferenza.
Il poeta impiega anche l’iperbole quando descrive il paesaggio come talmente orribile che “ogne vista ne sarebbe schiva” (v. 3), suggerendo che chiunque, anche il più coraggioso, ne sarebbe spaventato. Questa esagerazione serve a preparare il lettore all’ambiente straordinariamente ostile del settimo cerchio.
Tra le figure di pensiero, spicca l’antitesi tra la violenza brutale del Minotauro e la razionalità di Virgilio, che rappresenta il contrasto tra passione irrazionale e controllo intellettuale. Questa contrapposizione si manifesta anche nel dialogo stesso: alla furia bestiale del mostro si oppone il linguaggio misurato e autorevole della guida.
Il climax o gradazione ascendente si riscontra nell’elenco dei tiranni, presentati in un ordine che suggerisce un’intensificazione della crudeltà, culminando con la menzione di Attila, definito con l’epiteto “flagello in terra” (v. 134).
Temi principali del 12 canto dell’Inferno della Divina Commedia
Il canto 12 dell’Inferno della Divina Commedia si caratterizza per una ricchezza tematica che rispecchia la complessità del pensiero dantesco e la sua visione teologico-morale. I temi fondamentali si intrecciano con le immagini mitologiche e le allegorie, creando un tessuto narrativo denso di significati.
La violenza contro il prossimo costituisce il tema principale, incarnato dai tiranni e dagli assassini puniti nel primo girone del settimo cerchio. Dante condanna senza appello coloro che hanno usato la forza per danneggiare altri esseri umani, stabilendo una gerarchia delle colpe basata sull’ampiezza del danno provocato. I tiranni, responsabili di violenze su vasta scala, sono infatti immersi più profondamente nel sangue bollente rispetto agli omicidi occasionali. Attraverso questa gradazione della pena, il poeta esprime un giudizio morale articolato, che considera non solo l’atto in sé ma anche la sua portata sociale.
Il contrappasso emerge come principio strutturale della giustizia divina. I violenti sono immersi nel sangue che hanno versato in vita, sperimentando eternamente ciò che hanno inflitto agli altri. La legge del taglione biblico (“occhio per occhio”) viene elevata a sistema cosmico, in cui la punizione rispecchia perfettamente la natura della colpa. Il Flegetonte, fiume di sangue bollente, materializza questa corrispondenza tra peccato e pena, trasformando in realtà fisica ciò che in vita era stata un’azione morale.
La bestialità umana viene rappresentata attraverso le figure mitologiche del Minotauro e dei Centauri. Questi esseri ibridi, metà uomini e metà animali, simboleggiano la degradazione dell’umano quando si abbandona agli istinti violenti. Il Minotauro, in particolare, incarna la furia irrazionale che divora sé stessa, mentre i Centauri rappresentano una violenza più controllata e organizzata. Dante suggerisce così che la violenza ha diversi gradi e manifestazioni, tutte però accomunate dall’allontanamento dalla piena umanità razionale.
Il tema della giustizia divina permea l’intero canto, manifestandosi nella proporzionalità delle pene e nell’ordine rigoroso del cosmo infernale. La spiegazione di Virgilio sul terremoto causato dalla morte di Cristo introduce una dimensione provvidenziale: anche i cataclismi fisici rispondono a un disegno superiore e alla logica della Redenzione. Il sangue di Cristo, versato per salvare l’umanità, si contrappone simbolicamente al sangue versato dai violenti per distruggere i propri simili.
La critica politica emerge attraverso la condanna dei tiranni storici, da Alessandro Magno a Dionigi di Siracusa, da Ezzelino da Romano ad Attila. Dante usa questi esempi per lanciare un monito ai potenti del suo tempo, suggerendo che la violenza politica porterà alla dannazione eterna. In un’epoca di lotte civili e di potere assoluto, il messaggio dantesco assume una valenza non solo religiosa ma anche civile.
Il sangue come simbolo polivalente rappresenta sia la colpa che la pena, la vita che viene tolta e il castigo eterno. Il Flegetonte, con la sua natura di sangue bollente, evoca anche la passione incontrollata che spesso è alla base della violenza. La bollente “riviera” infernale diventa così metafora del ribollire delle passioni umane quando non sono guidate dalla ragione.
La pedagogia morale sottende tutto il canto: Dante non si limita a descrivere le pene, ma invita il lettore a riflettere sulla gravità della violenza e sulle sue conseguenze spirituali. L’esempio dei dannati serve da ammonimento, in linea con la funzione didattica che il poeta attribuisce alla sua opera.
Il rapporto tra mito pagano e visione cristiana rappresenta un ulteriore tema significativo. Dante reinterpreta figure della mitologia classica inserendole in un contesto teologico cristiano, operando una sintesi culturale che è caratteristica dell’intera Commedia. Il Minotauro e i Centauri non sono più solo personaggi di antiche leggende, ma diventano simboli morali all’interno di un sistema etico cristianizzato.
Attraverso questi temi interconnessi, il canto 12 dell’inferno della Divina Commedia non si limita a raccontare una tappa del viaggio infernale, ma offre una complessa riflessione sulla natura umana, sulla giustizia divina e sulle conseguenze eterne delle scelte morali compiute in vita.
Il Canto 12 dell’Inferno in pillole
Elemento | Descrizione/Spiegazione | Punti Chiave |
---|---|---|
Ambientazione | Settimo cerchio, primo girone | Luogo impervio e scosceso, caratterizzato da una frana causata dal terremoto alla morte di Cristo |
Peccatori puniti | Violenti contro il prossimo | Tiranni, assassini e predoni immersi nel Flegetonte (fiume di sangue bollente) |
Custode dell’entrata | Minotauro | Simbolo della bestialità umana e della violenza irrazionale; si morde per la rabbia all’arrivo dei poeti |
Guardiani del cerchio | Centauri | Creature metà uomini e metà cavalli, armati di archi e frecce; rappresentano la violenza organizzata e razionale |
Centauri principali | Chirone, Nesso e Folo | Chirone: capo saggio dei Centauri, nota che Dante è vivo; Nesso: guida i poeti; Folo: descritto come “pien d’ira” |
Contrappasso | Immersione nel sangue bollente | I violenti che versarono il sangue altrui sono immersi nel sangue a diverse profondità secondo la gravità delle loro colpe |
Figure mitologiche | Minotauro e Centauri | Reinterpretazione cristiana di figure pagane come simboli morali e guardiani della giustizia divina |
Personaggi storici | Attila, Alessandro, Dionisio, Ezzelino III, Obizzo d’Este | Tirannicidi e violenti storici immersi nel sangue come esempi di condanna morale |
Guida | Nesso | Centauro che porta Dante attraverso il fiume e indica i vari dannati |
Figure retoriche principali | Similitudini, metafore, allegorie | Paragone della frana con quella dell’Adige; metafora del sangue come simbolo della violenza; allegoria dei mostri mitologici |
Temi fondamentali | Violenza, giustizia divina, contrappasso | Riflessione sulla natura della violenza umana e sulla proporzionalità della pena divina |
Simbolismo | Flegetonte, frana, guardiani | Il fiume di sangue simboleggia le conseguenze della violenza; la frana rappresenta lo sconvolgimento cosmico alla morte di Cristo |