Divina Commedia, Canto 13 Inferno: testo, parafrasi e commenti

Divina Commedia, Canto 13 Inferno: testo, parafrasi e commento

Il Canto 13 dell’Inferno della Divina Commedia è conosciuto come il canto della “selva dei suicidi“: ci introduce infatti nel secondo girone del settimo cerchio, dove sono punite le anime di coloro che si sono tolti la vita e degli scialacquatori. La peculiarità di questo canto risiede nella trasformazione delle anime dei suicidi in piante tormentate, una delle più originali invenzioni poetiche di Dante.

Indice:

Canto 13 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

TestoParafrasi
Non era ancor di là Nesso arrivato,Nesso non era ancora arrivato
quando noi ci mettemmo per un boscosull’altra sponda (del Flegetonte), quando noi ci incamminammo
che da neun sentiero era segnato.attraverso un bosco in cui non c’era nessun sentiero.
Non fronda verde, ma di color fosco;Le foglie non erano verdi, ma di colore scuro;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;i rami non erano lisci, ma nodosi e contorti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:non c’erano frutti, ma spine velenose.
non han sì aspri sterpi né sì foltiQuelle belve selvagge che in Maremma,
quelle fiere selvagge che ’n odio hannotra Cecina e Corneto, evitano i luoghi abitati,
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.non hanno sterpi così aspri né così intricati.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,Qui nidificano le sudicie Arpie,
che cacciar de le Strofade i Troianiche cacciarono dalle isole Strofadi i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.preannunciando loro delle tristi disgrazie.
Ali hanno late, e colli e visi umani,Esse hanno grandi ali, colli e volti umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;zampe artigliate e un gran ventre piumato;
fanno lamenti in su li alberi strani.emettono lamenti sugli strani alberi.
E ’l buon maestro «Prima che più entre,E il buon maestro cominciò a dirmi:
sappi che se’ nel secondo girone»,«Prima che tu ti addentri nella selva,
mi cominciò a dire, «e sarai mentresappi che sei nel secondo girone e vi resterai
che tu verrai ne l’orribil sabbione.finché entreremo nel sabbione infuocato.
Però riguarda ben; sì vederaiPerciò guarda bene, perché vedrai cose
cose che torrien fede al mio sermone».che non sarebbero credute se mi limitassi a dirtele».
Io sentia d’ogne parte trarre guai,Io sentivo levarsi lamenti da ogni parte,
e non vedea persona che ’l facesse;ma non vedevo nessuno che li emettesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.allora mi fermai, confuso.
Cred’io ch’ei credette ch’io credesseIo credo che Virgilio credette
che tante voci uscisser, tra quei bronchiche io credessi che tra quei cespugli uscissero tante voci,
da gente che per noi si nascondesse.emesse da anime che si nascondevano da noi.
Però disse ’l maestro: «Se tu tronchiPerciò il maestro disse:
qualche fraschetta d’una d’este piante,«Se tu spezzi qualche ramoscello
li pensier c’hai si faran tutti monchi».da una di queste piante, i tuoi pensieri non avranno più ragion d’essere».
Allor porsi la mano un poco avante,Allora stesi un poco la mano e strappai
e colsi un ramicel da un gran pruno;un ramoscello da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».e il suo tronco gridò: «Perché mi spezzi?»
Da che fatto fu poi di sangue bruno,Dopo aver perso sangue nero,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?ricominciò a dire: «Perché mi laceri?
non hai tu spirto di pietade alcuno?non hai alcuno spirito di pietà?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:Fummo uomini, e adesso siamo diventati cespugli:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,la tua mano sarebbe certamente più pietosa,
se state fossimo anime di serpi».se anche fossimo state anime di serpenti».
Come d’un stizzo verde ch’arso siaCome quando si brucia un ramoscello verde
da l’un de’capi, che da l’altro gemeda una delle estremità, e dall’altra cola la linfa
e cigola per vento che va via,e si sente un cigolio in quanto esce dell’aria,
sì de la scheggia rotta usciva insiemecosì dal ramo rotto uscivano
parole e sangue; ond’io lasciai la cimainsieme parole e sangue; allora io lasciai cadere
cadere, e stetti come l’uom che teme.il ramo spezzato e restai lì pieno di timore.
«S’elli avesse potuto creder prima»,Il mio maestro rispose:
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,«Se egli avesse potuto credere ciò
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,che ha letto solo nei miei versi, anima offesa, (Dante)
non averebbe in te la man distesa;non avrebbe certo levato la mano contro di te;
ma la cosa incredibile mi fecema la cosa incredibile mi costrinse
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.a indurlo a un’azione che pesa anche a me.
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n veceMa digli chi fosti in vita,
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschicosì che per rimediare lui possa restaurare
nel mondo sù, dove tornar li lece».la tua fama nel mondo terreno, dove può tornare».
E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,E il tronco: «Con le tue dolci parole
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravimi alletti in tal modo che non posso stare zitto;
perch’io un poco a ragionar m’inveschi.e a voi non sia fastidioso se io mi attardo un po’ a parlare di me.
Io son colui che tenni ambo le chiaviIo sono colui che tenni entrambe
del cor di Federigo, e che le volsi,le chiavi del cuore di Federico II,
serrando e diserrando, sì soavi,e che le usai così bene nel chiudere e nell’aprire
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:che esclusi dai suoi segreti quasi tutti
fede portai al glorioso offizio,(divenni il suo più fidato consigliere):
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.fui fedele al mio alto incarico, al punto che persi per questo la pace e la vita.
La meretrice che mai da l’ospizioLa prostituta (invidia) che non distolse
di Cesare non torse li occhi putti,mai gli occhi disonesti dalla reggia dell’imperatore,
morte comune e de le corti vizio,e che è morte di tutti e vizio delle corti,
infiammò contra me li animi tutti;infiammò tutti gli animi (dei cortigiani) contro di me;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,ed essi infiammarono a loro volta l’imperatore,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.al punto che i miei onori si trasformarono in lutti (caddi in disgrazia).
L’animo mio, per disdegnoso gusto,Il mio animo, spinto da un amaro piacere,
credendo col morir fuggir disdegno,credendo di sfuggire il disonore con la morte,
ingiusto fece me contra me giusto.mi rese ingiusto contro me stesso, che pure non avevo colpe.
Per le nove radici d’esto legnoPer le nuove radici di questo albero,
vi giuro che già mai non ruppi fedevi giuro che non fui mai infedele al mio signore,
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.che fu tanto degno di onore.
E se di voi alcun nel mondo riede,E se qualcuno di voi tornerà nel mondo terreno,
conforti la memoria mia, che giaceriabiliti la mia memoria, che ancora soffre
ancor del colpo che ’nvidia le diede».del colpo subìto a causa dell’invidia».
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,Virgilio rimase un poco in silenzio,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;poi mi disse: «Dal momento che tace, non perdere tempo;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».parla e chiedigli quello che vuoi».
Ond’io a lui: «Domandal tu ancoraE io a lui: «Domandagli tu
di quel che credi ch’a me satisfaccia;ancora di quegli argomenti che credi possano interessarmi;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».io non potrei, tanto è il turbamento che provo».
Perciò ricominciò: «Se l’om ti facciaAllora Virgilio riprese:
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,«Possa realizzarsi ciò che le tue parole hanno richiesto
spirito incarcerato, ancor ti piacciagrazie all’azione spontanea (di Dante), o spirito imprigionato: ti prego ancora
di dirne come l’anima si legadi dirci come l’anima si lega a questi tronchi,
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,e dicci, se puoi, se mai accade
s’alcuna mai di tai membra si spiega».che qualcuna si liberi da queste piante».
Allor soffiò il tronco forte, e poiAllora il tronco soffiò forte
si convertì quel vento in cotal voce:e poi quell’aria si tramutò in queste parole:
«Brievemente sarà risposto a voi.«Vi risponderò in breve.
Quando si parte l’anima feroceQuando l’anima feroce (del suicida)
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,si separa dal corpo dal quale ella stessa si è staccata,
Minòs la manda a la settima foce.Minosse la manda al settimo Cerchio.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;Cade nella selva e non finisce
ma là dove fortuna la balestra,in un punto prestabilito; ma dove il caso la scaglia,
quivi germoglia come gran di spelta.lì germoglia come un seme di farro.
Surge in vermena e in pianta silvestra:Cresce come un arbusto e una pianta selvatica:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,le Arpie, poi, nutrendosi delle sue foglie provocano dolore,
fanno dolore, e al dolor fenestra.e aprono una via attraverso la quale il dolore fuoriesce.
Come l’altre verrem per nostre spoglie,Come le altre anime, anche noi andremo
ma non però ch’alcuna sen rivesta,a riprendere i nostri corpi (il giorno del Giudizio),
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.ma non per rivestircene: infatti non è giusto riavere ciò che ci si è tolti.
Qui le trascineremo, e per la mestaLi trascineremo qui e i nostri corpi
selva saranno i nostri corpi appesi,saranno appesi per la triste selva, ciascuno
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».all’albero della propria ombra nemica».
Noi eravamo ancora al tronco attesi,Noi eravamo ancora in attesa accanto all’albero,
credendo ch’altro ne volesse dire,credendo che volesse aggiungere altro,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,quando fummo sorpresi da un rumore,
similemente a colui che venirein modo simile a colui che sente arrivare
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,il cinghiale e la muta dei cani sulle sue tracce,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.e che ascolta le bestie e il fogliame che stormisce.
Ed ecco due da la sinistra costa,Ed ecco arrivare da sinistra due dannati,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,nudi e graffiati, che fuggivano così veloci
che de la selva rompieno ogni rosta.che rompevano ogni ramo della foresta.
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».Quello davanti urlava: «Presto,
E l’altro, cui pareva tardar troppo,vieni in aiuto, vieni, o morte!» E l’altro,
gridava: «Lano, sì non furo accorteal quale sembrava di andare troppo lento, gridava: «Lano, non furono così agili
le gambe tue a le giostre dal Toppo!».le tue gambe alle giostre (battaglia)
E poi che forse li fallia la lena,di Pieve del Toppo!» E poiché forse gli mancò il respiro,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.si nascose accanto a un cespuglio.
Di rietro a loro era la selva pienaDietro di loro la selva era piena
di nere cagne, bramose e correntidi cagne nere, che correvano affamate
come veltri ch’uscisser di catena.come cani da caccia scatenati.
In quel che s’appiattò miser li denti,Esse azzannarono il dannato che si era nascosto
e quel dilaceraro a brano a brano;e lo fecero a brandelli; poi portarono
poi sen portar quelle membra dolenti.via le sue carni ancora doloranti.
Presemi allor la mia scorta per mano,Allora la mia guida mi prese per mano
e menommi al cespuglio che piangea,e mi condusse al cespuglio che piangeva, inutilmente,
per le rotture sanguinenti in vano.attraverso i rami rotti e sanguinanti.
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,Diceva: «O Iacopo da Sant’Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?a cosa ti è servito usarmi come scudo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».che colpa ho io della tua vita peccaminosa?»
Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,Quando il mio maestro si fu fermato sopra di lui,
disse «Chi fosti, che per tante puntedisse: «Chi sei stato in vita, tu che soffi parole dolorose
soffi con sangue doloroso sermo?».e sangue attraverso tanti rami spezzati?»
Ed elli a noi: «O anime che giunteE quello rispose: «O anime che siete giunte
siete a veder lo strazio disonestoa vedere lo scempio disonesto che ha separato da me le mie fronde,
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,raccoglietele al piede del triste cespuglio.
raccoglietele al piè del tristo cesto.Io fui della città (Firenze)
I’ fui de la città che nel Batistache mutò in san Giovanni Battista
mutò il primo padrone; ond’ei per questoil primo protettore (Marte); e lui per questo
sempre con l’arte sua la farà trista;la rattristerà sempre con la sua arte
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno(la perseguiterà con guerre); e se non fosse
rimane ancor di lui alcuna vista,che su un ponte dell’Arno rimane un frammento di una sua statua,
que’ cittadin che poi la rifondarnoquei cittadini che la ricostruirono
sovra ’l cener che d’Attila rimase,sulle ceneri lasciate da Attila,
avrebber fatto lavorare indarno.avrebbero lavorato inutilmente.
Io fei gibetto a me de le mie case».Io mi impiccai nella mia casa».

Canto 13 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Questo canto occupa una posizione centrale nell’Inferno dantesco e sviluppa il tema della violenza contro se stessi, esplorando le conseguenze spirituali del suicidio all’interno della visione teologica medievale. Dante costruisce un paesaggio infernale di straordinaria potenza espressiva, dove la foresta dei suicidi diventa allegoria della condizione spirituale di chi ha rifiutato il dono divino della vita.

La struttura narrativa del canto si articola attraverso due incontri principali: quello con Pier delle Vigne, illustre funzionario alla corte di Federico II, trasformato in arbusto tormentato, e quello con un anonimo fiorentino suicida inseguito da cagne infernali. Attraverso questi personaggi, l’autore esplora le motivazioni umane dietro gesti estremi e le loro conseguenze nell’ordine divino, offrendo al lettore un potente affresco poetico che unisce rigore teologico e profonda compassione umana.

Nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno, Dante e Virgilio entrano in un ambiente tetro e inquietante: la selva dei suicidi. A differenza di un normale bosco, questa selva appare come un’anti-Eden, priva di sentieri tracciati e popolata da alberi contorti e nodosi che custodiscono le anime di coloro che si sono tolti la vita.

Il contrappasso ideato da Dante per i suicidi è particolarmente emblematico: chi ha violentemente separato la propria anima dal corpo viene trasformato in pianta, perdendo così la forma umana. Dopo il Giudizio Universale, quando le altre anime recupereranno i propri corpi, i suicidi non potranno rivestirsi delle loro spoglie mortali, poiché «non è giusto aver ciò ch’om si toglie». La privazione della forma umana rappresenta la perfetta reciprocità tra il peccato e la punizione.

La descrizione della selva inizia con una serie di negazioni che sottolineano il carattere distorto e innaturale del luogo: «Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco». Questa triplice anafora negativa enfatizza l’inversione dell’ordine naturale, specchio del sovvertimento operato dai suicidi nei confronti della legge divina.

Dante e Virgilio, procedendo nel loro cammino, sentono gemiti senza vedere chi li emetta. È Virgilio a suggerire a Dante di spezzare un ramoscello da un albero, gesto che provoca un’immediata reazione: dal tronco escono insieme parole e sangue. Si rivela così la natura delle anime imprigionate nei tronchi, costrette a una sofferenza perenne nell’immobilità vegetale.

Una componente essenziale del canto 13 dell’inferno della Divina Commedia è rappresentata dalle Arpie, creature mitologiche con volto di donna e corpo di uccello rapace. Questi mostri, che si nutrono delle foglie degli alberi-anime, provocano dolore ai dannati e aprono ferite da cui possono uscire i loro lamenti. Nella parte finale del canto compaiono anche le «nere cagne bramose e correnti», demoni che inseguono e dilaniano gli scialacquatori, condannati a una fuga perenne attraverso la boscaglia spinosa.

Canto 13 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel canto 13 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante ci presenta figure di grande impatto emotivo e simbolico, prima fra tutte Pier delle Vigne, personaggio storico di notevole rilevanza. Nato a Capua intorno al 1190, Pier delle Vigne studiò diritto a Bologna prima di entrare al servizio di Federico II di Svevia, diventandone il cancelliere e uno dei più fidati consiglieri. Nel testo dantesco, egli descrive la propria posizione con la potente metafora delle chiavi: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo”, evidenziando l’intimità del rapporto con l’imperatore.

La caduta in disgrazia di Pier delle Vigne avvenne nel 1249, quando fu accusato di tradimento e imprigionato. Dante, riabilitandone parzialmente la figura, lo presenta come vittima di invidie cortigiane e calunnie: “La meretrice che mai dall’ospizio / di Cesare non torse gli occhi putti, / morte comune e de le corti vizio”. La corte, rappresentata come meretrice, diventa simbolo della corruzione e dell’invidia che portarono alla sua rovina.

Uno degli aspetti più toccanti della caratterizzazione di Pier delle Vigne è il suo eloquente linguaggio cancelleresco, ricco di artifici retorici e formule elaborate che riflettono la sua formazione di letterato e notaio. Attraverso il suo registro elevato, Dante sottolinea la dignità del personaggio nonostante la sua condanna.

Il secondo gruppo di personaggi che popola questo canto è costituito dagli scialacquatori, rappresentati da due anime fiorentine che corrono disperatamente attraverso la selva, inseguite e lacerate da cagne nere. Uno di questi è identificato come Giacomo da Sant’Andrea, nobile padovano noto per la sua prodigalità estrema. Di lui Dante scrive: “Quel dinanzi: ‘Or accorri, accorri, morte!'”, ritraendo la sua disperata fuga dai cani infernali.

L’altro scialacquatore rimane anonimo, ma si identifica come fiorentino e si suicida impiccandosi alle proprie case. La sua presenza crea un collegamento tematico tra suicidio e scialacquo, suggerendo come entrambi rappresentino forme di violenza contro sé stessi.

Particolare rilievo hanno anche le Arpie, creature mitologiche che tormentano i suicidi. Descritte come esseri con “ali aperte, e colli e visi umani, / piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre”, queste figure mostruose nidificano sugli alberi-suicidi e, strappando i rami, provocano dolore e sofferenza alle anime intrappolate.

Le cagne nere che inseguono gli scialacquatori completano il quadro dei personaggi non umani del canto. Simbolo della voracità che caratterizzava in vita queste anime, le cagne rappresentano il contrappasso perfetto: chi ha dissipato avidamente i propri beni viene ora dilaniato da creature altrettanto avide e insaziabili.

Canto 13 Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Il tredicesimo canto dell’Inferno è caratterizzato da una straordinaria coesione tra ambientazione, narrazione e significato teologico. Questa unità poetica permette a Dante di sviluppare temi profondi che trascendono la mera descrizione dell’aldilà per indagare la complessità della natura umana.

Il tema centrale del canto è la violenza contro sé stessi, esplorata attraverso due manifestazioni: il suicidio e lo sperpero dei propri beni. Dante rappresenta queste colpe come una violazione dell’ordine naturale voluto da Dio. La selva dei suicidi, con i suoi alberi contorti, simboleggia perfettamente l’innaturalità di tale gesto: chi ha rifiutato violentemente il proprio corpo umano si ritrova imprigionato in una forma vegetale, immobile e sofferente.

Un elemento narrativo fondamentale è il contrappasso, principio di giustizia poetica che pervade tutta la Commedia. Per i suicidi, la pena rispecchia con precisione geometrica la colpa: avendo separato volontariamente l’anima dal corpo, sono ora condannati a un’esistenza in cui questa separazione è permanente. Come spiega Pier delle Vigne: “Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.” Anche dopo il Giudizio Universale, quando tutte le anime ritroveranno i propri corpi, i suicidi resteranno alberi, vedendo i loro corpi appesi ai rami come macabri trofei.

La dimensione psicologica della disperazione viene esplorata con straordinaria profondità. Il discorso di Pier delle Vigne rivela un uomo che, pur pentito, resta intrappolato nel ragionamento che lo ha condotto al gesto estremo. La sua eloquenza cancelleresca, con parole ricercate e costruzioni sintattiche elaborate, contrasta con la sua condizione di immobilità, creando un effetto di dolorosa ironia.

Il dualismo corpo-anima costituisce un altro tema portante del canto. Dante, seguendo la filosofia tomistica, considera l’unione di anima e corpo come naturale e voluta da Dio. Il suicidio rompe violentemente questa unione sacra, provocando una lacerazione dell’ordine naturale. La rappresentazione delle anime come piante che sanguinano quando vengono spezzate visivamente questa lacerazione: “Come d’un stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’ capi, che da l’altro geme / e cigola per vento che va via; / sì de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue”.

La narrazione si sviluppa attraverso un crescendo emotivo che culmina nella scena della caccia infernale degli scialacquatori, seconda categoria di peccatori puniti in questo girone. L’immagine delle anime inseguite dalle “nere cagne, bramose e correnti” crea un dinamismo che contrasta con l’immobilità dei suicidi-piante, ma riflette analogamente l’idea di dissipazione: come hanno disperso i propri beni in vita, così i loro corpi vengono dilaniati nell’aldilà.

Significativa è anche la dimensione politica del canto, incarnata nella figura di Pier delle Vigne. La sua caduta in disgrazia presso Federico II diventa allegoria delle insidie del potere e dell’invidia cortigiana. Dante esplora così le conseguenze psicologiche dell’ingiustizia, mostrando come la dignità ferita possa condurre a scelte estreme e tragiche.

Sul piano narrativo, Dante combina magistralmente realismo e allegoria. La descrizione della selva è ricca di dettagli concreti che stimolano l’immaginazione visiva del lettore (“Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco”), ma questi elementi sono carichi di significati simbolici che trascendono la mera rappresentazione fisica.

L’uso della prima persona nella narrazione di Pier delle Vigne (“Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo”) intensifica il pathos della storia, creando un effetto di immediata vicinanza emotiva. Questa tecnica narrativa trasforma un episodio didascalico in un dramma umano universale che parla ancora oggi dell’abisso della disperazione e della fragilità dell’animo umano di fronte alle ingiustizie della vita.

Figure retoriche nel Canto 13 dell’ Inferno della Divina Commedia:

Il Canto XIII dell’Inferno è caratterizzato da un ricco apparato di figure retoriche che Dante utilizza magistralmente per rafforzare l’impatto emotivo e simbolico della selva dei suicidi.

La metafora domina l’intero canto, a partire dalla trasformazione delle anime in piante, simbolo potente della perdita dell’umanità. Particolarmente significativa è la metafora delle “chiavi del cuore” usata da Pier delle Vigne: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi”, che esprime la fiducia e il potere detenuto presso l’imperatore.

La personificazione appare evidente nelle piante che sanguinano e parlano, creando un inquietante ibrido tra mondo vegetale e umano: “Allor porsi la mano un poco avante / e colsi un ramicel da un gran pruno; / e ‘l tronco suo gridò: ‘Perché mi schiante?'”. Questo espediente retorico trasmette l’orrore della trasformazione e la persistenza della sofferenza umana.

Numerose similitudini arricchiscono il tessuto narrativo, come quella che paragona le cagne infernali a levrieri: “Di rietro a loro era la selva piena / di nere cagne, bramose e correnti / come veltri ch’uscisser di catena”, creando un’immagine di velocità predatoria che contrasta con l’immobilità dei suicidi.

L’anafora della negazione nei primi versi (“Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco”) enfatizza il carattere anti-naturale della selva, costruendo un crescendo di tensione attraverso la triplice negazione.

L’allitterazione appare in espressioni come “sterpi sterili” che intensifica foneticamente la sterilità del luogo, mentre gli ossimori come la “vita dolorosa” che diventa “morte inattesa” evidenziano le contraddizioni della condizione dei dannati.

Le onomatopee riproducono i lamenti delle anime vegetali (“come d’un stizzo verde ch’arso sia”), creando un effetto sonoro che amplifica il tormento dei suicidi.

Particolarmente efficace è la paronomasia nel discorso di Pier delle Vigne: “ingiusto fece me contra me giusto”, dove il gioco di parole riflette la tragica contraddizione della sua scelta.

Questo raffinato uso delle figure retoriche dimostra la straordinaria capacità di Dante di fondere forma e contenuto, creando un linguaggio poetico che rende concreta e visibile la condizione spirituale dei dannati.

Temi principali del canto 13 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 13 dell’Inferno della Divina Commedia esplora tematiche di profonda rilevanza teologica e psicologica, sviluppando un’intensa riflessione sulla condizione umana attraverso la rappresentazione dei suicidi e degli scialacquatori.

Il tema centrale è il suicidio come rifiuto del dono divino della vita. Nella concezione teologica medievale, fortemente influenzata dal pensiero tomistico, togliersi la vita rappresenta una triplice violazione: contro la legge naturale dell’autoconservazione, contro la legge divina che riserva a Dio il dominio sulla vita, e contro la società di cui ogni individuo è parte. Dante, pur condannando il gesto, mostra una profonda comprensione umana attraverso la tragica vicenda di Pier delle Vigne, vittima di circostanze che lo hanno spinto all’atto estremo.

Il tema del rapporto tra anima e corpo emerge con particolare intensità nel contrappasso. I suicidi, avendo violentemente separato l’anima dal corpo, sono condannati a una nuova forma di esistenza vegetale che impedisce la naturale riunificazione. Come spiega Pier delle Vigne: “Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.” Questa punizione riflette perfettamente la concezione dantesca della giustizia divina, in cui la pena riproduce analogicamente il peccato commesso.

Il simbolismo vegetale opera su diversi livelli interpretativi. A livello teologico, la trasformazione in pianta rappresenta la privazione della forma umana come conseguenza del rifiuto del corpo. Sul piano allegorico, l’immobilità delle piante simboleggia l’impossibilità di agire e scegliere dopo la morte, mentre poeticamente crea un’immagine di straniamento e alienazione che riflette la condizione psicologica del suicida.

La violenza contro i propri beni, tema rappresentato dagli scialacquatori, viene messa in relazione con il suicidio come forma di autodistruzione. Se i suicidi hanno distrutto il proprio corpo, gli scialacquatori hanno dissipato i propri mezzi di sostentamento, compiendo una forma indiretta di violenza contro sé stessi. La caccia infernale cui sono sottoposti riflette il modo irrazionale in cui hanno disperso i propri averi in vita.

Il tema dell’identità spezzata percorre l’intero canto. I suicidi, intrappolati in corpi vegetali, vivono una condizione di frammentazione esistenziale che riflette la loro scelta di interrompere violentemente il proprio percorso terreno. La difficoltà comunicativa di Pier delle Vigne, che può esprimersi solo quando il suo ramo viene spezzato, simboleggia l’isolamento spirituale di chi ha rifiutato la propria umanità.

La critica moderna ha evidenziato nel canto anche una riflessione sul rapporto tra individuo e potere. La storia di Pier delle Vigne, vittima delle invidie di corte, diventa paradigmatica della condizione dell’intellettuale alle prese con le dinamiche del potere politico, tema particolarmente sentito da Dante stesso durante il suo esilio.

Il canto 13 dell’Inferno in pillole

Elementi principaliDescrizione breveFigure retoricheTemi chiavePersonaggi
AmbientazioneSelva oscura senza sentieri, con alberi nodosi e contorti, foglie scure e spine velenose al posto dei fruttiAnafora negativa, similitudini, metaforeDisperazione, deformazione della natura, inversione dell’ordine naturaleDante, Virgilio
Le ArpieCreature mitologiche con volto di donna e corpo di uccello che abitano la selva, causando dolore alle anime-piantePersonificazione, similitudineTormento eterno, punizione divina
Anime dei suicidiTrasformate in piante e alberi, sanguinano quando i rami vengono spezzatiMetafora, personificazione, ossimoroPrivazione della forma umana, impossibilità di riunire corpo e animaPier delle Vigne
Storia di Pier delle VigneSegretario di Federico II, accusato ingiustamente di tradimento, si suicidò in carcereMetafora delle chiavi, paronomasiaCalunnia, invidia, infedeltà punita, disperazionePier delle Vigne
ScialacquatoriInseguiti e dilaniati da cagne nere infernaliSimilitudine, immagini dinamicheDissipazione dei propri beni, autodistruzione materialeAnonimo fiorentino, Lano da Siena, Giacomo da Sant’Andrea
ContrappassoImmobilità per chi ha violentemente separato l’anima dal corpo; dilaniamento per chi ha distrutto i propri beniAntitesi, analogieGiustizia divina, corrispondenza tra colpa e pena

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