Analisi del 14 canto divina commedia: testo, parafrasi e commento

Divina Commedia, Canto 14 Inferno: testo, parafrasi e figure retoriche

Nel canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante Alighieri ci conduce attraverso un paesaggio desolato che simboleggia l’aridità spirituale dei dannati, presentando figure emblematiche come Capaneo, simbolo dell’orgoglio umano che sfida la divinità anche nella punizione eterna. La sabbia ardente e la pioggia di fuoco che caratterizzano questo scenario riflettono la natura del peccato di blasfemia e la giustizia divina che ne consegue.

Indice:

Canto 14 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi

Testo OriginaleParafrasi
Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende’le a colui, ch’era già fioco.Poiché l’amore per la mia terra natale mi commosse, raccolsi le fronde sparse e le restituii a colui che aveva già la voce flebile.
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
Quindi giungemmo al limite dove il secondo girone si separa dal terzo, e dove si vede una terribile manifestazione della giustizia divina.
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
Per spiegare bene le cose nuove che incontrammo, dico che arrivammo a una pianura che respinge dal suo suolo ogni tipo di vegetazione.
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ‘l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
La dolorosa selva dei suicidi le fa da ghirlanda intorno, come il triste fossato circonda la selva; qui fermammo i nostri passi proprio sul bordo.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.
Il suolo era formato da una sabbia arida e compatta, non diversa da quella che fu calpestata dai piedi di Catone (nel deserto della Libia).
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto agli occhi mei!
O vendetta di Dio, quanto devi essere temuta da ognuno che legge ciò che fu manifesto ai miei occhi!
D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Vidi molti gruppi di anime nude che piangevano tutte in modo assai miserabile, e sembrava fossero sottoposte a diverse punizioni.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Alcuni peccatori giacevano supini a terra, altri sedevano tutti raccolti, e altri camminavano continuamente.
Quella che gvia ‘ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Quelli che camminavano in giro erano più numerosi, e quelli che giacevano nel tormento erano meno, ma avevano la lingua più sciolta al lamento.
Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Su tutta la distesa di sabbia, con lenta caduta, piovevano larghe falde di fuoco, come neve sulle Alpi quando non c’è vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ‘l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
Come Alessandro Magno vide in quelle parti calde dell’India cadere sul suo esercito fiamme che giungevano intatte fino a terra,
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:
per cui provvide a far calpestare il suolo dalle sue schiere, affinché il vapore si spegnesse meglio mentre era ancora isolato:
tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’ esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
così scendeva l’eterno ardore; a causa del quale la sabbia si accendeva, come l’esca sotto l’acciarino, raddoppiando il dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.
Senza mai fermarsi era il movimento delle misere mani, che ora di qua ora di là scuotevano via da sé le fiamme appena cadute.
I’ cominciai: «Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ‘ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,
Io cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, eccetto i demoni ostinati che ci vennero incontro all’entrata della porta (di Dite),
chi è quel grande che non par che curi
lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ‘l marturi?».
chi è quel grande che sembra non curarsi dell’incendio e giace sdegnoso e contorto, così che la pioggia di fuoco non sembra tormentarlo?»
E quel medesimo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
E quello stesso, che si accorse che io domandava al mio duca di lui, gridò: «Come fui da vivo, così sono da morto.
Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;
Se Giove stancasse il suo fabbro (Vulcano) da cui adirato prese il fulmine acuto con cui fui colpito l’ultimo giorno della mia vita;
o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,
o se stancasse gli altri ciclopi a turno nella fucina nera dell’Etna, gridando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,
sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».
così come fece durante la battaglia di Flegra, e mi colpisse con tutta la sua forza: non potrebbe averne una vendetta soddisfacente».
Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
Allora la mia guida parlò con tanta forza, come non l’avevo mai udito prima: «O Capaneo, proprio per il fatto che non si spegne
la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».
la tua superbia, sei punito più duramente; nessun tormento, eccetto la tua stessa rabbia, sarebbe un dolore adeguato al tuo furore».
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia
Poi si rivolse a me con espressione più serena, dicendo: «Quello fu uno dei sette re che assediarono Tebe; ebbe e sembra che abbia ancora
Dio in disdegno, e poco par che ‘l pregi;
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Dio in disprezzo, e sembra che lo stimi poco; ma, come gli ho detto, i suoi atti di disprezzo sono ornamenti ben adatti al suo petto.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
Ora seguimi, e bada di non mettere ancora i piedi nella sabbia rovente; ma tieni i piedi sempre vicini al bosco».
Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Tacendo, giungemmo là dove sgorga fuori dalla selva un piccolo fiumicello, il cui colore rosso ancora mi fa inorridire.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.
Come dal Bulicame (fonte termale presso Viterbo) esce un ruscello che poi le prostitute dividono tra loro, così quello scorreva giù attraverso la sabbia.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’era ‘n pietra, e ‘ margini dallato;
per ch’io m’accorsi che ‘l passo era lici.
Il suo fondo e entrambe le sponde erano fatti di pietra, e anche i margini laterali; per cui mi accorsi che il passaggio era lì.
«Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessun è negato,
«Fra tutte le altre cose che ti ho mostrato, da quando siamo entrati per la porta la cui soglia non è negata a nessuno,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’è ‘l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
non fu vista dai tuoi occhi cosa notevole come è questo fiume, che sopra di sé spegne tutte le fiammelle».
Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ‘l pregai che mi largisse ‘l pasto
di cui largito m’avëa il disio.
Queste furono le parole della mia guida; per cui lo pregai che mi concedesse la spiegazione di cui mi aveva suscitato il desiderio.
«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ‘l cui rege fu già ‘l mondo casto.
«In mezzo al mare si trova un paese desolato», disse allora, «che si chiama Creta, sotto il cui re (Saturno) il mondo fu un tempo puro.
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.
Vi è una montagna che un tempo fu ricca d’acqua e di vegetazione, che si chiamò Ida; ora è deserta come cosa abbandonata.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
Rea la scelse già come culla sicura per suo figlio (Giove), e per nasconderlo meglio, quando piangeva, vi faceva fare grida (dai Coribanti).
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.
Dentro al monte sta in piedi un grande vecchio, che tiene le spalle rivolte verso Damietta (in Egitto) e guarda Roma come suo specchio.
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ‘l petto,
poi è di rame infino a la forcata;
La sua testa è formata di oro fino, e di puro argento sono le braccia e il petto, poi è di rame fino alla biforcazione (all’inguine);
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ‘l destro piede è terra cotta;
e sta ‘n su quel, più che ‘n su l’altro, eretto.
da lì in giù è tutto di ferro scelto, tranne che il piede destro è di terracotta; e sta eretto più su quello che sull’altro.
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.
Ciascuna parte, tranne l’oro, è rotta da una fessura che gocciola lacrime, le quali, raccolte insieme, forano quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,
Il loro corso precipita in questa valle; formano l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; poi scendono giù attraverso questo stretto condotto,
infin, là dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».
infine, là dove non si scende più, formano il Cocito; e quale sia quello stagno lo vedrai, perciò qui non si racconta».
E io a lui: «Se ‘l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».
E io a lui: «Se il presente ruscello deriva così dal nostro mondo, perché ci appare solo a questo bordo?».
Ed elli a me: «Tu sai che ‘l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,
Ed egli a me: «Tu sai che l’Inferno è rotondo; e benché tu sia venuto molto, sempre verso sinistra, scendendo verso il fondo,
non se’ ancor per tutto ‘l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto».
non hai ancora percorso tutto il cerchio; perciò, se ci appare qualcosa di nuovo, non deve suscitare meraviglia sul tuo volto».
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova».
E io ancora: «Maestro, dove si trovano Flegetonte e Lete? Perché dell’uno taci, e dell’altro dici che si forma da questa pioggia di lacrime?»
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ‘l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.
«In tutte le tue domande certamente mi fai piacere», rispose, «ma il bollore dell’acqua rossa dovrebbe ben risolvere una delle domande che mi fai.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».
Lete lo vedrai, ma fuori di questa fossa infernale, là dove le anime vanno a lavarsi quando la colpa pentita è rimossa (nel Purgatorio)».
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
Poi disse: «Ormai è tempo di allontanarsi dal bosco; fa’ in modo di venire dietro a me: i margini fanno da strada, perché non sono bruciati,
e sopra loro ogne vapor si spegne».e sopra di loro ogni fiamma si spegne».

Particolarmente significativa è la presenza dell’allegoria del Gran Veglio di Creta, attraverso cui Virgilio spiega a Dante l’origine dei fiumi infernali e rappresenta simbolicamente la progressiva decadenza morale dell’umanità. Questo potente simbolismo, unito alle numerose figure retoriche che arricchiscono il testo, rende il Canto 14 un esempio perfetto della capacità dantesca di fondere teologia cristiana, mitologia classica e riflessione morale in un’unica, straordinaria visione poetica.

Canto 14 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione

Nel canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante e Virgilio si trovano nel settimo cerchio infernale, precisamente nel terzo girone, dove sono puniti i violenti contro Dio. L’ambiente si trasforma radicalmente rispetto al precedente girone: da un bosco oscuro e intricato a una landa desolata di sabbia infuocata su cui piove incessantemente fuoco dal cielo, una rappresentazione visiva dell’ira divina contro chi ha osato ribellarsi al Creatore.

Il canto si apre con un gesto di pietà da parte di Dante che, mosso da “carità del natio loco”, raccoglie le fronde sparse attorno al cespuglio di Pier delle Vigne (incontrato nel canto precedente) e le restituisce al dannato. Questo atto segna il passaggio tra i due gironi e introduce il lettore alla nuova ambientazione infernale:

Poi che la carità del natio loco / mi strinse, raunai le fronde sparte / e rende’le a colui, ch’era già fioco. / Indi venimmo al fine ove si parte / lo secondo giron dal terzo, e dove / si vede di giustizia orribil arte.

In questa parafrasi, Dante esprime come l’amore per la sua terra natale lo spinse a raccogliere le foglie sparse e a restituirle all’anima ormai affievolita del suicida. Successivamente, i due poeti giungono al confine tra il secondo e il terzo girone, dove si manifesta l'”orribile arte” della giustizia divina.

La nuova area è descritta con precisione: una distesa di sabbia arida, simile ai deserti africani, su cui fiocca lentamente una pioggia di fiamme. Dante utilizza una potente similitudine per rendere l’immagine più vivida, paragonando la discesa dei fiocchi infuocati alla neve che cade sulle Alpi in assenza di vento:

Come di neve in alpe sanza vento / così la rena s’accendea / come sotto focile, per raddoppiar lo dolore.

In questo ambiente ostile, i dannati sono puniti in modi diversi a seconda della specifica natura della loro colpa contro Dio: i bestemmiatori giacciono supini, direttamente esposti alla pioggia di fuoco; i sodomiti (violenti contro natura) corrono senza sosta; gli usurai (violenti contro l’arte) siedono rannicchiati.

Dante, attento osservatore, nota in particolare un’anima che giace supina e sembra non curarsi delle fiamme che cadono su di lei. Rivolge così una domanda a Virgilio, che identifica il dannato come Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe. La figura di Capaneo incarna l’essenza stessa della blasfemia e della ribellione contro il divino: anche nell’eternità della punizione infernale, egli mantiene il suo atteggiamento sprezzante e orgoglioso.

Quando Virgilio si rivolge a lui, Capaneo risponde con parole cariche di sfida e disprezzo verso il potere divino:

Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui / crucciato prese la folgore aguta / onde l’ultimo dì percosso fui; / o s’elli stanchi li altri a muta a muta / in Mongibello alla fucina negra, / chiamando ‘Buon Vulcano, aiuta, aiuta!’ / sì com’ el fece alla pugna di Flegra, / e me saetti con tutta sua forza: / non ne potrebbe aver vendetta allegra.

In questo passaggio, Capaneo sfida Giove (identificato con il Dio cristiano nel sincretismo dantesco) affermando che nemmeno utilizzando tutta la sua potenza potrebbe ottenere una vendetta soddisfacente, poiché la sua anima rimane indomita nonostante la punizione.

Virgilio risponde con fermezza, spiegando a Capaneo che la sua stessa rabbia rappresenta un perfetto castigo per la sua superbia: “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito: / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito.

Queste parole sottolineano uno dei principi fondamentali della giustizia infernale dantesca: la pena è spesso il peccato stesso che si perpetua eternamente, in un circolo vizioso da cui non c’è redenzione possibile.

Proseguendo nel loro cammino, Dante e Virgilio incontrano un piccolo fiume rosso che scorre dalla selva dei suicidi verso la landa dei bestemmiatori. Questo è il Flegetonte, uno dei fiumi infernali, la cui origine verrà spiegata da Virgilio nella seconda parte del canto attraverso l’allegorica figura del Gran Veglio di Creta. La spiegazione di Virgilio sui fiumi infernali prepara il passaggio al prossimo cerchio e offre al lettore un’ulteriore chiave interpretativa della geografia morale dell’Inferno dantesco.

In questo canto, Dante riesce a fondere magistralmente elementi della mitologia classica (Capaneo, il Flegetonte) con la teologia cristiana, creando un paesaggio infernale che è al contempo fisico e allegorico, dove ogni elemento contribuisce alla rappresentazione della giustizia divina e della condizione eterna dei dannati.

Canto 14 Inferno della Divina Commedia: i personaggi

Nel canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante incontra anime dannate che incarnano la violenza contro Dio, rappresentando diversi aspetti della blasfemia e dell’orgoglio umano. Il personaggio che domina la scena è indubbiamente Capaneo, ma anche altri elementi risultano fondamentali per comprendere appieno il significato del canto.

Capaneo: il bestemmiatore impenitente

Capaneo è la figura centrale di questo canto e uno dei personaggi più emblematici dell’intero Inferno dantesco. Appartiene al mito greco ed è uno dei sette re che parteciparono all’assedio di Tebe. La sua storia è narrata da poeti classici come Stazio nella Tebaide ed Eschilo nei Sette contro Tebe. La tradizione lo descrive come un guerriero che, durante l’assedio, salì sulle mura della città sfidando apertamente gli dei, in particolare Zeus, che lo fulminò per punire la sua arroganza.

Nel testo dantesco, Capaneo conserva intatto il suo orgoglio anche nell’oltretomba:

“Qual è quel grande che non par che curi / lo ‘ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggia non par che ‘l maturi?”

Dante lo descrive disteso supino sulla sabbia ardente, sotto la pioggia di fuoco, in un atteggiamento di sfida che riflette la sua eterna ribellione. Quando Virgilio gli si rivolge, la risposta di Capaneo rivela tutta la sua superbia:

“Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui / crucciato prese la folgore aguta / onde l’ultimo dì percosso fui; / […] / e me saetti di tutta sua forza: / non ne potrebbe aver vendetta allegra.”

Questa sfida eterna rappresenta l’essenza del peccato di Capaneo: non tanto la bestemmia in sé, quanto l’orgoglio indomito che gli impedisce qualsiasi forma di pentimento. La sua punizione è doppiamente significativa: giacere supino esposto alla pioggia di fuoco simboleggia la posizione di chi ha sfidato il cielo, mentre il fuoco eterno richiama il fulmine che lo colpì in vita.

Virgilio stesso sottolinea come la vera punizione di Capaneo sia proprio il suo orgoglio inestinguibile:

“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito.”

Capaneo incarna quindi l’archetipo del peccatore che, anche nell’eternità della punizione, rifiuta di riconoscere la propria colpa, manifestando quella stessa superbia che lo ha condannato.

Il Gran Veglio di Creta

Sebbene non sia un personaggio in senso stretto, il Gran Veglio di Creta rappresenta un’importante figura allegorica che Dante introduce nella seconda parte del canto. Questa colossale statua, descritta come un vecchio che sta dritto all’interno del monte Ida a Creta, ha un significato simbolico fondamentale:

“Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, / che tien volte le spalle inver’ Dammiata / e Roma guarda come süo speglio.”

Ispirato alla visione biblica del sogno di Nabucodonosor nel libro di Daniele, il Veglio ha la testa d’oro fino, le braccia e il petto d’argento, il resto del busto di rame, le gambe di ferro e un piede di terracotta. Ogni parte, tranne la testa d’oro, è fessurata, e da queste fessure sgorgano lacrime che, raccogliendosi, formano i fiumi infernali.

Il Veglio non è solo un dispositivo narrativo per spiegare l’origine dei fiumi, ma una potente allegoria della storia umana e della sua progressiva corruzione morale. La sua posizione, con le spalle rivolte a Damietta (in Egitto, simbolo del paganesimo) e lo sguardo verso Roma (simbolo della cristianità), suggerisce un’interpretazione storico-religiosa del destino umano.

Altri personaggi e riferimenti

Nel corso del canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia, Dante fa riferimento ad altre figure che, pur non apparendo direttamente, contribuiscono alla costruzione simbolica del testo:

  • Alessandro Magno, evocato in una similitudine sulla pioggia di fuoco
  • Vulcano, il fabbro degli dei menzionato nel discorso di Capaneo
  • Giove, identificato nel sincretismo dantesco con il Dio cristiano

Significativo è anche il riferimento al monte Ida, luogo sacro nella mitologia greca dove Rea nascose Zeus bambino per sottrarlo a Crono. Questa menzione crea un sottile parallelo tra la nascita di Zeus e il cristianesimo, collegando la tradizione classica alla visione teologica cristiana.

Ogni personaggio e riferimento nel Canto 14 si inserisce in una complessa rete simbolica che riflette la visione dantesca della ribellione contro Dio: da Capaneo che sfida apertamente la divinità, al Veglio che rappresenta la decadenza spirituale dell’umanità, fino ai riferimenti mitologici che creano un ponte tra cultura classica e teologia cristiana.

Analisi del Canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia: elementi tematici e narrativi

Il canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia costituisce un momento fondamentale nel viaggio dantesco attraverso i regni ultraterreni. Strutturato con straordinaria precisione narrativa, questo canto si distingue per la profondità dei suoi elementi tematici e la ricchezza delle sue implicazioni teologiche.

Il tema dominante è la ribellione contro il divino, incarnata dalla figura emblematica di Capaneo. Questo personaggio rappresenta l’orgoglio umano che persiste nella sua sfida a Dio anche nell’eternità della punizione. La sua postura – supino sulla sabbia ardente, colpito dalla pioggia di fuoco – simboleggia ironicamente la sua persistente opposizione: come in vita ha sfidato il cielo con la blasfemia, così nell’eternità è costretto a subire un fuoco che scende dall’alto. Significativa è la risposta di Virgilio quando spiega che la vera punizione di Capaneo non è tanto il tormento esterno, quanto il suo stesso furore interiore che continua a divorarlo: “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito”.

Questa concezione riflette perfettamente la visione dantesca della giustizia divina, dove la pena è il peccato stesso che si perpetua eternamente. Il contrapasso, principio cardine dell’Inferno dantesco, si manifesta qui con particolare evidenza: chi ha utilizzato il fuoco della propria rabbia contro Dio, viene punito con un fuoco eterno discendente dal cielo.

L’elemento narrativo centrale del canto è l’allegoria del Gran Veglio di Creta, una statua colossale nascosta all’interno del monte Ida. Questa immagine potente fonde sapientemente riferimenti biblici (il sogno di Nabucodonosor nel libro di Daniele) e concezioni medievali della storia umana. La statua, con la testa d’oro e parti progressivamente più imperfette fino al piede di terracotta, rappresenta la progressiva decadenza morale dell’umanità attraverso le età storiche.

Le lacrime che sgorgano dalle fessure della statua, raccogliendosi per formare i fiumi infernali, creano un collegamento narrativo essenziale: il dolore umano, conseguenza del peccato, alimenta le pene infernali in un ciclo perpetuo. Questo passaggio illumina l’intera struttura dell’Inferno dantesco, spiegando l’origine dei fiumi Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito che costituiscono l’architettura fisica del regno della dannazione.

Un elemento tematico fondamentale è il rapporto tra la storia umana e il giudizio divino. Il Veglio, rivolto verso Roma (considerata specchio della civiltà) ma con le spalle a Damietta (simbolo dell’Oriente e del passato), indica una visione teleologica della storia, che procede verso un compimento anche se attraverso una progressiva corruzione. Questa interpretazione si collega alla concezione medievale del tempo come percorso lineare dalla Creazione al Giudizio, dove ogni evento acquisisce significato all’interno del piano provvidenziale.

Particolarmente significativo è il simbolismo spaziale del canto: il paesaggio desertico, con la sua sabbia infuocata, rappresenta l’aridità spirituale di chi ha rifiutato Dio, mentre la pioggia di fuoco incarna l’ira divina che colpisce i peccatori. In questo ambiente ostile, i dannati sono costretti a diverse posture a seconda del loro peccato specifico, creando una geometria morale che organizza visivamente la colpa.

Va inoltre notata la maestria con cui Dante integra erudizione classica e visione cristiana. I riferimenti a figure mitologiche come Capaneo sono reinterpretati in chiave teologica, dimostrando come la cultura pagana possa essere inglobata nella prospettiva cristiana senza perdere la propria valenza simbolica ma acquisendo nuovi significati. Questo sincretismo culturale è caratteristico dell’approccio dantesco, che vede nella classicità non un’alternativa ma un preludio alla rivelazione cristiana.

Il canto si inserisce perfettamente nella progressione narrativa dell’Inferno: dopo l’incontro con i suicidi del Canto 13 (violenti contro sé stessi), Dante esplora ora le conseguenze della violenza contro Dio stesso, preparando il lettore ai successivi incontri con altri tipi di violenti. Questa struttura a gradazione morale è tipica dell’architettura dell’Inferno dantesco, dove ogni incontro rappresenta un passo nella comprensione della natura del peccato.

Nella costruzione narrativa del canto, Dante alterna sapientemente momenti descrittivi, dialoghi e riflessioni teologiche, creando un ritmo che mantiene alta l’attenzione del lettore pur affrontando questioni dottrinali complesse. La spiegazione di Virgilio sul Veglio di Creta, in particolare, costituisce un esempio magistrale di come l’allegoria possa essere utilizzata per rendere accessibili concetti teologici astratti, trasformandoli in immagini concrete e memorabili.

Figure retoriche nel Canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia

Il Canto 14 dell’Inferno è particolarmente ricco di figure retoriche che Dante utilizza con maestria per amplificare l’impatto emotivo e simbolico della narrazione, creando immagini vivide e memorabili che aiutano il lettore a visualizzare l’ambiente infernale e a comprendere più profondamente il messaggio morale dell’opera.

Tra le similitudini più potenti troviamo quella che descrive la pioggia di fuoco, paragonata alla neve che cade sulle Alpi: “Quali Alessandro in quelle parti calde / d’India vide sopra ‘l suo stuolo / fiamme cadere infino a terra salde”. Questa figura retorica crea un contrasto sorprendente tra la freddezza della neve e l’ardore delle fiamme, sottolineando l’inversione dei principi naturali tipica dell’Inferno dantesco, dove ogni elemento terreno si trasforma nel suo opposto più doloroso.

Le metafore abbondano nel canto, a partire dalla descrizione del deserto: “Lo spazzo era una rena arida e spessa”. Questa immagine della sabbia ardente rappresenta non solo il paesaggio fisico ma anche l’aridità spirituale di coloro che hanno rifiutato la grazia divina. La metafora si estende anche alla pioggia di fuoco che, anziché portare vita come l’acqua naturale, porta tormento eterno, simbolo visibile dell’ira divina.

Particolarmente significativa è la personificazione del fiume Flegetonte, descritto come “fonte che bolle in caldaia”, attribuendogli caratteristiche umane che ne amplificano la minaccia. Anche il Gran Veglio di Creta è personificato, rappresentato come una statua che piange, le cui lacrime formano i fiumi infernali, suggerendo che la sofferenza umana sia la fonte stessa della punizione eterna.

L’iperbole caratterizza soprattutto il discorso di Capaneo, quando sfida la potenza divina: “Se Giove stanchi ‘l suo fabbro da cui / crucciato prese la folgore aguta […] non ne potrebbe aver vendetta allegra”. Questa esagerazione sottolinea la superbia del personaggio, che persiste nella sua blasfemia anche sotto la punizione eterna.

L’antifrasi emerge nelle parole ironiche di Capaneo quando parla della “vendetta allegra” che Dio non potrebbe ottenere su di lui, utilizzando un’espressione positiva per indicare un concetto negativo, enfatizzando la sua sfida all’autorità divina.

Anche l’anafora arricchisce il tessuto retorico del canto, come nella ripetizione di “aiuta, aiuta” riferita a Vulcano nel discorso di Capaneo, intensificando il tono sarcastico della sfida.

L’allegoria domina la seconda parte del canto con la figura del Gran Veglio, simbolo della degenerazione morale dell’umanità. Ogni parte della statua – dalla testa d’oro fino al piede di terracotta – rappresenta un’epoca storica e il suo progressivo allontanamento dalla virtù originaria.

Il linguaggio di Dante si distingue anche per l’uso di termini tecnici legati all’ambiente naturale (“sabbione”, “vapore”, “rena”) e riferimenti mitologici e biblici (“Flegra”, “Mongibello”, “Vulcano”, “Dammiata”), creando un tessuto lessicale che fonde tradizione classica e cristiana.

Queste figure retoriche, unite alla potente aggettivazione (“orribile”, “tristo”, “dispettoso”), permettono a Dante di creare un equilibrio perfetto tra gravità e chiarezza espositiva, dove ogni parola è scelta con precisione per comunicare non solo un’immagine visiva ma anche un concetto morale profondo.

Temi principali del canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia

Il canto 14 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un momento cruciale nel viaggio dantesco, articolando diversi temi centrali sia per la cantica infernale che per l’intera Commedia. La violenza contro Dio, incarnata magnificamente dalla figura di Capaneo, costituisce il fulcro tematico del canto. Questo tema si manifesta attraverso l’orgoglio indomito del personaggio che, pur sottoposto all’eterna punizione divina, mantiene intatta la sua postura di sfida. L’atteggiamento di Capaneo rappresenta il peccato di superbia nella sua forma più estrema, quella blasfema che non riconosce alcuna autorità superiore nemmeno di fronte all’evidenza della punizione eterna.

La giustizia divina emerge come tema complementare, esemplificato dalla perfetta corrispondenza tra colpa e pena: i bestemmiatori, che in vita hanno “alzato il viso” contro Dio, ora giacciono supini, costretti a subire il fuoco che piove dal cielo. Questa legge del contrappasso, centrale nell’architettura morale dantesca, assume qui una dimensione particolarmente visiva e didatticamente efficace. I dannati, che hanno osato sfidare il cielo con parole infiammate di orgoglio, ora sono colpiti da fiamme reali che ne tormentano eternamente la carne.

Il simbolismo ambientale costituisce un altro tema fondamentale: la sabbia ardente e la pioggia di fuoco creano un paesaggio infernale che riflette l’aridità spirituale di chi ha rifiutato Dio. L’ambiente desertico rappresenta l’assenza di vita e di speranza, condizione esistenziale di chi ha voltato le spalle alla fonte di ogni bene. Il fuoco, elemento purificatore nel Purgatorio, diventa qui strumento di punizione eterna, evidenziando la differenza tra pentimento e ostinazione nel peccato.

La struttura morale dell’universo dantesco trova una rappresentazione particolarmente significativa nell’allegoria del Veglio di Creta. Questa misteriosa statua, che piange lacrime formanti i fiumi infernali, sintetizza la visione dantesca della storia umana come progressiva decadenza morale. Le diverse componenti della statua (oro, argento, rame, ferro e terracotta) simboleggiano il progressivo allontanamento dell’umanità dall’età dell’oro primigenia, riflettendo una concezione del tempo lineare e degenerativa tipica del pensiero medievale.

I fiumi infernali, originati dalle lacrime del Veglio, rappresentano il tema della sofferenza derivante dal peccato. Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito non sono semplicemente elementi geografici dell’oltretomba, ma concretizzazioni fisiche delle conseguenze del male. La loro descrizione dettagliata offre a Dante l’opportunità di illustrare come il peccato generi dolore che, a sua volta, alimenta la punizione infernale in un ciclo perpetuo.

Il rapporto tra potere divino e ribellione umana costituisce un tema di straordinaria modernità nel canto. L’inutilità della sfida di Capaneo evidenzia l’immutabilità della giustizia divina, ma al contempo il poeta riconosce una certa grandezza tragica nella figura del bestemmiatore. Questa ambivalenza riflette la complessità del pensiero dantesco, che pur condannando il peccato, non può fare a meno di ammirare la tenacia dell’animo umano, anche quando si manifesta in forme deviate.

Il tema del tempo e della storia umana permea l’intero canto, soprattutto nella seconda parte dedicata al Veglio di Creta. La visione dantesca della storia come progressiva decadenza si contrappone all’eternità immutabile della condizione infernale, creando un contrasto che amplifica il senso di tragica irrevocabilità della dannazione. La concezione ciclica del tempo nel mondo pagano viene così superata dalla visione lineare cristiana, che vede nella storia un percorso orientato verso la salvezza, pur attraverso fasi di decadimento morale.

Il Canto 14 della Divina Commedia in pillole

ElementoDescrizione
AmbientazioneSettimo cerchio, terzo girone (violenti contro Dio). Deserto di sabbia ardente con pioggia di fiamme che cade lentamente dal cielo.
Personaggi principaliCapaneo: uno dei sette re che assediarono Tebe, emblema del bestemmiatore. Giace supino sulla sabbia, sfidando ancora Dio nonostante la punizione eterna. Simboleggia l’orgoglio umano che rifiuta di piegarsi all’autorità divina.
Elementi narrativi1. Passaggio dal bosco dei suicidi al terzo girone del settimo cerchio.
2. Incontro con Capaneo e suo discorso blasfemo.
3. Spiegazione di Virgilio sull’origine dei fiumi infernali attraverso l’allegoria del Gran Veglio di Creta.
Figure retoricheSimilitudine: pioggia di fuoco paragonata alla neve sulle Alpi.
Metafora: deserto come immagine dell’aridità spirituale.
Iperbole: nell’atteggiamento di sfida di Capaneo.
Personificazione: il fiume Flegetonte rappresentato come entità vivente.
Allegoria: il Gran Veglio come rappresentazione della storia dell’umanità.
Temi fondamentali1. Ribellione contro l’ordine divino e sue conseguenze.
2. Orgoglio umano e impossibilità di pentimento.
3. Decadenza morale dell’umanità attraverso le epoche (Gran Veglio).
4. Giustizia divina e corrispondenza tra peccato e pena.
5. Origine simbolica dei fiumi infernali dalle lacrime del peccato umano.

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