Il Canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la sua capacità di intrecciare elementi autobiografici, politici e morali all’interno della più ampia architettura allegorica del poema. La figura di Brunetto Latini, intellettuale stimato ma moralmente condannato, diventa emblematica della tensione tra sapere umano e verità divina, tra ammirazione terrena e giustizia ultraterrena, temi che percorrono l’intera Commedia e trovano qui una delle loro più toccanti espressioni.
Indice:
- Canto 15 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
- Canto 15 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
- Canto 15 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
- Analisi del Canto 15 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
- Figure retoriche nel Canto 15 della Inferno della Divina Commedia
- Temi principali del canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia
- Il Canto 15 dell’Inferno in pillole
Canto 15 Inferno della Divina Commedia: testo completo e parafrasi
Testo | Parafrasi |
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Ora cen porta l’un de’ duri margini; | Ora uno degli argini rocciosi |
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia, | ci porta lontani dalla selva; |
sì che dal foco salva l’acqua e li argini. | e il fumo del Flegetonte fa ombra di sopra, così che protegge dal fuoco l’acqua e gli argini stessi. |
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, | Come i Fiamminghi fra Wissant e Bruges |
temendo ’l fiotto che ’nver lor s’avventa, | erigono dighe per tener lontana la marea, |
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia; | temendo che le onde si avventino contro di loro; |
e quali Padoan lungo la Brenta, | e come fanno i Padovani lungo il Brenta |
per difender lor ville e lor castelli, | per difendere le loro città |
anzi che Carentana il caldo senta: | e i castelli prima che la Carinzia senta il caldo (si sciolgano le nevi): |
a tale imagine eran fatti quelli, | così erano costruiti quegli argini, |
tutto che né sì alti né sì grossi, | anche se il costruttore, |
qual che si fosse, lo maestro felli. | chiunque fosse, non li aveva eretti così alti e grossi. |
Già eravam da la selva rimossi | Ormai ci eravamo allontanati |
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, | dalla selva tanto che non l’avrei |
perch’io in dietro rivolto mi fossi, | più vista se anche mi fossi voltato, |
quando incontrammo d’anime una schiera | quando incontrammo una schiera |
che venìan lungo l’argine, e ciascuna | di anime che veniva lungo l’argine |
ci riguardava come suol da sera | e ognuna di esse ci |
guardare uno altro sotto nuova luna; | guardava come si osserva qualcuno |
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia | in una sera di novilunio; |
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. | e strizzavano gli occhi verso di noi come fa il vecchio sarto |
Così adocchiato da cotal famiglia, | per infilare l’ago nella cruna. |
fui conosciuto da un, che mi prese | Mentre i dannati mi scrutavano in tal modo, |
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». | fui riconosciuto da uno che mi prese per il lembo |
E io, quando ’l suo braccio a me distese, | della veste e gridò: «Che meraviglia!» |
ficcai li occhi per lo cotto aspetto, | E io, quando lui tese verso di me il suo braccio, |
sì che ’l viso abbrusciato non difese | fissai il suo volto così la conoscenza sua al mio ’ntelletto; |
e chinando la mano a la sua faccia, | che non potei non riconoscerlo, |
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». | benché fosse tutto bruciato, e avvicinando la mano |
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia | al suo viso risposi: «Voi siete qui, ser Brunetto?» |
se Brunetto Latino un poco teco | E lui: «Figlio mio, non dispiacerti se Brunetto Latini |
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia». | torna un po’ indietro con te |
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco; | e lascia proseguire la schiera (dei dannati)». |
e se volete che con voi m’asseggia, | Io gli dissi: «Ve ne prego con tutte le mie forze; |
faròl, se piace a costui che vo seco». | e se volete che io mi trattenga con voi lo farò, |
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia | purché acconsenta costui che mi guida». |
s’arresta punto, giace poi cent’anni | Lui disse: «Figliolo, se un dannato di questo gruppo |
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. | si arresta un solo istante, poi deve giacere cent’anni |
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; | senza potersi riparare quando il fuoco lo ferisce. |
e poi rigiugnerò la mia masnada, | Perciò prosegui: io ti seguirò |
che va piangendo i suoi etterni danni». | e poi raggiungerò la mia schiera, |
I’ non osava scender de la strada | che va piangendo la sua dannazione eterna». |
per andar par di lui; ma ’l capo chino | Io non osavo scendere dall’argine |
tenea com’uom che reverente vada. | per andare insieme a lui; ma tenevo il capo chino, |
El cominciò: «Qual fortuna o destino | come un uomo che dimostra la sua deferenza. |
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? | Lui cominciò: «Quale fortuna o destino |
e chi è questi che mostra ’l cammino?». | ti porta quaggiù prima della tua morte? |
«Là sù di sopra, in la vita serena», | e chi è costui che ti fa da guida?» |
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle, | Io gli risposi: «Lassù, nella vita serena, |
avanti che l’età mia fosse piena. | mi sono smarrito in una valle prima |
Pur ier mattina le volsi le spalle: | che la mia vita raggiungesse il suo culmine. |
questi m’apparve, tornand’io in quella, | Solo ieri mattina ne sono uscito: |
e reducemi a ca per questo calle». | mi apparve costui (Virgilio), mentre ci stavo rientrando, |
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, | e mi riporta a casa per questo cammino». |
non puoi fallire a glorioso porto, | E lui a me: «Se tu segui la tua stella, |
se ben m’accorsi ne la vita bella; | non puoi non raggiungere i tuoi obiettivi letterari |
e s’io non fossi sì per tempo morto, | e politici, se ho inteso bene quando ero in vita; |
veggendo il cielo a te così benigno, | e se non fossi morto precocemente, |
dato t’avrei a l’opera conforto. | vedendo che il cielo era così ben disposto |
Ma quello ingrato popolo maligno | verso di te ti avrei aiutato a compiere la tua opera. |
che discese di Fiesole ab antico, | Ma quell’ingrato e maligno popolo |
e tiene ancor del monte e del macigno, | che è disceso anticamente da Fiesole (i Fiorentini) |
ti si farà, per tuo ben far, nimico: | e conserva ancora la rozzezza dei montanari, |
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi | diventerà tuo nemico per le tue buone azioni: |
si disconvien fruttare al dolce fico. | e ne ha ben donde, poiché non è opportuno |
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; | che il dolce fico nasca tra i frutti agri. |
gent’è avara, invidiosa e superba: | Un vecchio proverbio li definisce ciechi; |
dai lor costumi fa che tu ti forbi. | è gente avara, invidiosa e superba: |
La tua fortuna tanto onor ti serba, | cerca di preservarti dai loro costumi. |
che l’una parte e l’altra avranno fame | La tua fortuna ti riserva tanto onore |
di te; ma lungi fia dal becco l’erba. | che entrambe le parti (Bianchi e Neri) vorranno sfogare il loro odio contro di te, |
Faccian le bestie fiesolane strame | ma l’erba sarà lontana dal caprone. |
di lor medesme, e non tocchin la pianta, | Le bestie di Fiesole (Fiorentini) |
s’alcuna surge ancora in lor letame, | si divorino tra loro e non tocchino la pianta, |
in cui riviva la sementa santa | ammesso che ne nascano ancora nel loro letame, |
di que’ Roman che vi rimaser quando | in cui rivive la santa semenza di quei Romani |
fu fatto il nido di malizia tanta». | che restarono a Firenze quando fu fondato |
«Se fosse tutto pieno il mio dimando», | il nido di tanta malvagità». |
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora | Io gli risposi: |
de l’umana natura posto in bando; | «Se potessi esaudire ogni mio desiderio, |
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, | voi sareste ancora tra i vivi; |
la cara e buona imagine paterna | poiché nella mia mente è ben presente, |
di voi quando nel mondo ad ora ad ora | e ora mi commuove, la cara |
m’insegnavate come l’uom s’etterna: | e buona immagine paterna di voi quando nel mondo |
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo | mi insegnavate di quando in quando |
convien che ne la mia lingua si scerna. | come l’uomo acquista fama eterna: e finché vivrò la mia lingua esprimerà |
Ciò che narrate di mio corso scrivo, | quanto ciò mi sia gradito. |
e serbolo a chiosar con altro testo | Io prendo nota ciò che narrate della mia vita, |
a donna che saprà, s’a lei arrivo. | e mi riservo di farmelo spiegare insieme a un’altra profezia (di Farinata) |
Tanto vogl’io che vi sia manifesto, | da una donna (Beatrice) |
pur che mia coscienza non mi garra, | che saprà farlo, se arriverò sino a lei. |
che a la Fortuna, come vuol, son presto. | Io voglio che vi sia chiaro |
Non è nuova a li orecchi miei tal arra: | che sono pronto a ciò che la fortuna mi riserva, |
però giri Fortuna la sua rota | purché non mi rimorda la coscienza. |
come le piace, e ’l villan la sua marra». | Tale profezia non è nuova al mio orecchio: |
Lo mio maestro allora in su la gota | dunque la fortuna giri pure la sua ruota come vuole, |
destra si volse in dietro, e riguardommi; | e il contadino ruoti la sua zappa». |
poi disse: «Bene ascolta chi la nota». | Il mio maestro (Virgilio) allora si voltò indietro sulla destra e mi guardò, dicendo poi: |
Né per tanto di men parlando vommi | «È buon ascoltatore chi prende |
con ser Brunetto, e dimando chi sono | nota di ciò che gli vien detto». |
li suoi compagni più noti e più sommi. | Non per questo smisi di parlare con ser Brunetto, |
Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono; | e gli domandai chi fossero i suoi compagni |
de li altri fia laudabile tacerci, | di pena più importanti. |
ché ’l tempo sarìa corto a tanto suono. | E lui a me: «È bene conoscerne qualcuno: degli altri sarà preferibile tacere, |
In somma sappi che tutti fur cherci | perché occorrerebbe troppo tempo |
e litterati grandi e di gran fama, | a elencarli tutti. |
d’un peccato medesmo al mondo lerci. | Sappi insomma che furono tutti chierici e importanti letterati di gran fama, |
Priscian sen va con quella turba grama, | la cui vita fu lercia |
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi, | dello stesso peccato (sodomia). |
s’avessi avuto di tal tigna brama, | Prisciano va con quella brutta schiera, |
colui potei che dal servo de’ servi | e anche Francesco d’Accorso; |
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, | e se avessi desiderio di vedere un tale sudiciume, |
dove lasciò li mal protesi nervi. | potresti vedere colui che il servo dei servi (Bonifacio VIII) trasferì da Firenze a Vicenza, |
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone | dove morì e lasciò i suoi sensi |
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio | protesi al vizio. |
là surger nuovo fummo del sabbione. | Ti direi di più, ma il cammino e il discorso non possono prolungarsi, |
Gente vien con la quale esser non deggio. | poiché vedo levarsi |
Sieti raccomandato il mio Tesoro | là nuovo fumo dal sabbione. |
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio». | Arrivano anime con la cui schiera non devo mescolarmi. Ti sia raccomandato |
Poi si rivolse, e parve di coloro | il mio Trésor nel quale ho ancora fama, |
che corrono a Verona il drappo verde | e non chiedo altro». |
per la campagna; e parve di costoro | Poi si voltò e sembrò uno di quelli |
quelli che vince, non colui che perde. | che corrono il palio a Verona per il drappo verde, nella campagna; e sembrò il vincitore, non il perdente. |
Canto 15 Inferno della Divina Commedia: riassunto e spiegazione
Il quindicesimo canto dell’Inferno si svolge nel terzo girone del settimo cerchio, dedicato ai violenti contro natura, specificamente i sodomiti. La scena si apre con Dante e Virgilio che camminano lungo uno degli argini di pietra che costeggiano il fiume Flegetonte, un corso di sangue bollente che attraversa questa regione infernale.
L’ambiente circostante è caratterizzato da elementi distintivi che riflettono la natura della colpa punita:
- Una vasta pianura di sabbia ardente che brucia le anime dei dannati
- Una pioggia incessante di fiamme che cade dall’alto come neve in montagna
- Il vapore che si solleva dal fiume di sangue, creando una sorta di protezione naturale contro le fiammelle
Dante descrive gli argini paragonandoli alle dighe costruite dai Fiamminghi per difendersi dal mare o a quelle erette dai Padovani lungo la Brenta per proteggere i loro villaggi dalle inondazioni durante lo scioglimento delle nevi. Questa similitudine geografica concreta, caratteristica dello stile dantesco, serve ad ancorare l’esperienza ultraterrena a riferimenti terreni comprensibili per il lettore.
Il contrappasso per i sodomiti è particolarmente eloquente: costretti a correre senza sosta sotto la pioggia di fuoco, in gruppi che non possono fermarsi mai. Chi si ferma, infatti, deve giacere supino sulla sabbia per cento anni senza potersi riparare dalle fiamme. Questo movimento perpetuo rappresenta simbolicamente l’inquietudine dei desideri contro natura che animavano queste anime durante la vita terrena. Il fuoco, elemento purificatore per eccellenza, diventa qui strumento di castigo eterno, bruciando chi si è lasciato consumare da passioni considerate impure.
Il canto si sviluppa mentre Dante e Virgilio procedono lungo l’argine. I due pellegrini osservano gruppi di dannati che corrono in direzioni diverse a seconda della loro condizione, come specificato nei versi:
“Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.”
Mentre Dante e il suo maestro avanzano, un gruppo di anime nota la loro presenza. Una di queste, riconoscendo in Dante un vivo, lo afferra per il lembo della veste, esclamando con meraviglia. È questo il momento cruciale in cui avviene l’incontro con Brunetto Latini.
Nonostante il volto bruciato dalle fiamme, Dante riconosce il suo antico maestro e, in un gesto di profondo rispetto, si china verso di lui quasi volesse abbracciarlo. Brunetto lo ferma, ricordandogli che in questo luogo di dannazione non è consentito fermarsi, poiché la legge del contrappasso impone il movimento perpetuo.
Il dialogo che segue si sviluppa con i due che camminano fianco a fianco: Brunetto mantiene il capo chinato come un uomo che procede in atteggiamento reverente, mentre Dante lo accompagna lungo l’argine, rispettando la condizione di dannato dell’antico maestro che deve continuare il suo cammino insieme al gruppo al quale appartiene.
Questo sistema di punizione, dove le anime sono costantemente in movimento, riflette la concezione medievale della sodomia come perversione del movimento naturale voluto da Dio. L’ordine divino, nella visione dantesca, stabilisce una direzione precisa per ogni aspetto della creazione; la deviazione da quest’ordine comporta una condanna a un movimento senza meta e senza riposo, simbolo della sterilità spirituale di chi ha trasgredito le leggi naturali.
Canto 15 Inferno della Divina Commedia: i personaggi
Nel Canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia incontriamo personaggi di grande rilievo, con Brunetto Latini che emerge come figura centrale. Questo episodio illumina non solo il percorso ultraterreno di Dante, ma anche il suo passato e le influenze formative della sua vita terrena.
Dante personaggio
In questo canto, Dante si presenta con una complessa dualità emotiva. Da un lato, mantiene il suo ruolo di pellegrino in cammino verso la salvezza; dall’altro, emerge con forza la sua dimensione umana e autobiografica. L’incontro con Brunetto suscita in lui un’immediata reazione di riverenza e affetto, tanto da farlo chinare rispettosamente («io non osava scender de la strada / per andar par di lui; ma ‘l capo chino / tenea com’uom che reverente vada»). Questo gesto fisico rivela la profonda stima che Dante nutre verso il suo antico maestro, nonostante la condanna infernale.
Significativamente, Dante si dimostra consapevole della propria dignità morale quando risponde con fermezza alla profezia dell’esilio: «in la mia coscienza non mi grava», affermando così la propria rettitudine di fronte alle future ingiustizie. Il poeta si rivela quindi come personaggio in evoluzione, capace di apprendere sia dalle guide spirituali che dagli errori altrui.
Virgilio
Sebbene meno presente rispetto ad altri canti, Virgilio mantiene il suo ruolo fondamentale di guida. La sua autorizzazione silenziosa permette a Dante di intrattenere il dialogo con Brunetto («Ed elli a me: “Tien la mente a quel ch’io dico; / e tu ascolta”»). Questa tacita approvazione conferma come l’incontro con Brunetto rappresenti una tappa necessaria nel percorso educativo di Dante.
Virgilio incarna qui la ragione che riconosce il valore dell’esperienza umana e del sapere terreno, pur mantenendosi vigile nel guidare Dante verso la verità superiore. La sua presenza discreta ma costante simboleggia il ruolo della filosofia classica come necessaria ma non sufficiente per giungere alla completa comprensione della verità divina.
Brunetto Latini
Brunetto Latini (1220-1294) rappresenta la figura più complessa del canto. Notaio, politico, filosofo e letterato fiorentino, autore del “Tresor” (enciclopedia in lingua francese) e del “Tesoretto” (poema allegorico-didattico in volgare), Brunetto fu un punto di riferimento culturale nella Firenze del XIII secolo.
Nel canto, egli si rivolge a Dante con affetto paterno («O figliuol mio»), riconoscendo nel giovane poeta un talento straordinario («se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorïoso porto»). La sua profezia sull’esilio di Dante rivela una profonda conoscenza della corruzione fiorentina («faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme, e non tocchin la pianta, / s’alcuna surge ancora in lor letame»).
La collocazione di Brunetto tra i sodomiti ha generato dibattiti interpretativi. Alcuni studiosi vedono in questa condanna un riferimento alla sua reale condotta sessuale, altri interpretano la “sodomia” in senso metaforico, come perversione intellettuale o deviazione dal retto uso della ragione. Ciò che emerge con certezza è il contrasto tra la nobiltà dell’insegnamento («m’insegnavate come l’uom s’etterna») e la condanna morale, creando una delle tensioni più significative del poema.
Altri personaggi
Tra i compagni di pena di Brunetto, Dante menziona tre figure illustri:
- Prisciano di Cesarea: grammatico latino del VI secolo, autore delle “Institutiones grammaticae”, testo fondamentale nell’insegnamento medievale.
- Francesco d’Accorso: celebre giurista bolognese del XIII secolo, commentatore del Corpus iuris civilis e docente universitario.
- Andrea de’ Mozzi: vescovo di Firenze trasferito a Vicenza per ordine di Bonifacio VIII a causa di comportamenti scandalosi (“colui che dal servo de’ servi / fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione”).
Questa triade di intellettuali condannati amplifica il messaggio morale: nemmeno la cultura più raffinata può salvare chi devia dall’ordine naturale e divino. La loro presenza rafforza il tema della vanità del sapere umano quando non è orientato verso fini virtuosi.
Analisi del Canto 15 dell’Inferno: elementi tematici e narrativi
Il Canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia si distingue per la complessità narrativa e la ricchezza tematica che emergono dall’incontro tra Dante e il suo antico maestro. Questo episodio assume una rilevanza particolare all’interno del viaggio dantesco, combinando elementi autobiografici con il più ampio disegno allegorico e didattico del poema.
Il rapporto maestro-discepolo costituisce uno dei temi centrali del canto. Brunetto si rivolge a Dante chiamandolo “figliuol mio”, mentre il poeta mostra un rispetto profondo, chinandosi verso di lui nonostante la condanna infernale. Questa tensione tra l’affetto personale e il giudizio morale crea una delle dinamiche più intense dell’Inferno. Dante riconosce il debito intellettuale verso Brunetto, definendolo colui che gli insegnò “come l’uom s’etterna”, suggerendo che la vera immortalità si ottiene attraverso l’opera intellettuale.
La profezia dell’esilio rappresenta un elemento narrativo fondamentale, inserendosi in una serie di premonizioni che punteggiano il viaggio oltremondano. Brunetto prefigura l’ingratitudine fiorentina usando l’immagine potente del “nido di malizia”, contrapponendo la nobiltà d’animo di Dante alla bassezza morale dei suoi concittadini, descritti come discendenti dei fiesolani che conservano “del monte e del macigno”. Questa predizione non è solo un elemento biografico, ma assume valore allegorico: l’esilio diventa metafora della condizione dell’uomo giusto in un mondo corrotto.
La dimensione autobiografica si intreccia costantemente con quella allegorica. L’incontro con Brunetto permette a Dante di riflettere sulla propria formazione intellettuale e sulle sue radici culturali, rendendo questo canto una tappa fondamentale nell’autoriflessione dantesca. La menzione del “glorïoso porto” a cui Dante è destinato suggerisce che l’esilio terrestre è parte di un disegno provvidenziale che porterà il poeta a compiere la sua missione letteraria e spirituale.
Particolarmente significativa è la dicotomia tra vita terrena e condizione ultraterrena. Brunetto parla della “vita bella” contrapponendola implicitamente alla sua attuale dannazione, mentre si preoccupa della sopravvivenza della sua opera, il Tesoro, nella memoria dei vivi. Questo evidenzia la tensione tra l’immortalità letteraria e il destino eterno dell’anima, tema ricorrente nel poema.
Il tempo assume una dimensione narrativa peculiare: Brunetto sottolinea che “‘l tempo saria corto / a tanto suon”, evidenziando il contrasto tra l’eternità della pena e la brevità dell’incontro. Questo riferimento temporale richiama la struttura stessa del viaggio dantesco, vincolato a precise coordinate cronologiche, e crea un effetto di urgenza drammatica.
La funzione didattica del canto emerge nella presentazione degli altri dannati illustri, tutti “litterati grandi e di gran fama”. Questa galleria di intellettuali condannati sottolinea come nemmeno l’eccellenza culturale possa salvare dall’eterna punizione chi contravviene all’ordine morale divino, ribadendo la priorità della rettitudine etica sul valore intellettuale.
La narrazione si conclude con un’immagine dinamica di grande efficacia: Brunetto che corre “come colui che vince, non colui che perde”, similitudine che si riferisce alla corsa del “drappo verde” a Verona. Questo paragone sportivo conferisce vivacità visiva alla scena e riassume simbolicamente il paradosso della condizione di Brunetto: vincitore nella cultura terrena ma perdente nel giudizio divino.
Figure retoriche nel Canto 15 della Inferno della Divina Commedia
Il Canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia rappresenta un esempio magistrale dell’abilità retorica di Dante, che attraverso figure stilistiche elaborate crea un mondo di significati stratificati e complessi. L’analisi di queste figure retoriche ci permette di apprezzare pienamente la profondità espressiva e la potenza evocativa del testo.
Le similitudini geografiche occupano un posto di rilievo, specialmente nei versi iniziali (vv. 4-12) dove gli argini infernali vengono paragonati alle dighe costruite dai fiamminghi o dai padovani per difendersi dalle inondazioni: “Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, / temendo ‘l fiotto che ‘nver’ lor s’aventa”. Questa similitudine, ancorata alla realtà concreta, permette al lettore di visualizzare la topografia infernale attraverso un riferimento familiare, tecnica tipica dello stile dantesco.
Altrettanto significative sono le metafore della navigazione, come il celebre “glorioso porto” (v. 56) che Brunetto prevede per il destino di Dante. Questa metafora nautica allude al compimento di un percorso esistenziale e poetico, inserendosi nel più ampio sistema allegorico del viaggio come crescita spirituale che permea l’intera Commedia.
Particolarmente raffinato è l’uso delle analogie botaniche, come ai versi 74-75 dove si legge “si disconvien fruttare al dolce fico”, riferito all’incompatibilità tra la nobiltà d’animo di Dante e la bassezza morale dei suoi concittadini. Questa figura evoca la tradizione biblica delle metafore vegetali per indicare la qualità morale degli individui.
Il canto è ricco di contrasti simbolici, evidenti nell’opposizione tra le “bestie fiesolane” (v. 73) e i romani virtuosi, rappresentazione allegorica del perenne conflitto tra vizio e virtù. Questa antitesi struttura l’intera profezia di Brunetto, creando una tensione drammatica che culmina nella previsione dell’esilio.
La personificazione di Firenze come “nido di malizia” (v. 78) trasforma la città in un’entità quasi umana dotata di volontà maligna, intensificando la critica politica e morale che Dante rivolge alla sua patria.
Di particolare efficacia è la similitudine sportiva nei versi finali (vv. 121-124), dove Brunetto che si allontana velocemente viene paragonato a “colui ch’è tra li lazzi / del palio di Verona”. Questo riferimento alla corsa del drappo verde veronese conferisce dinamismo e concretezza alla scena del congedo.
Sul piano fonico, il canto è arricchito da allitterazioni che intensificano il pathos emotivo, come nei versi di riconoscimento di Brunetto: “ficcai gli occhi per lo cotto aspetto” (v. 26), dove la ripetizione consonantica rafforza l’intensità dello sguardo e della memoria.
Queste figure retoriche non sono meri ornamenti stilistici, ma strumenti essenziali attraverso cui Dante costruisce il significato allegorico del canto, creando connessioni tra il mondo terreno e quello ultraterreno, tra l’esperienza personale e la rivelazione universale, tra la storia contemporanea e la verità eterna.
Temi principali del canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia
Il Canto 15 dell’Inferno della Divina Commedia offre una ricca tessitura di temi che si intrecciano creando un momento di straordinaria profondità emotiva e morale. L’incontro con Brunetto Latini permette a Dante di esplorare questioni fondamentali che attraversano l’intera Commedia.
La sodomia come violenza contro natura rappresenta il tema teologico centrale del canto. Nella concezione medievale, questo peccato sovverte l’ordine naturale creato da Dio, opponendosi al fine procreativo dell’amore umano. Il contrappasso della pena – il movimento perpetuo sotto la pioggia di fuoco – rispecchia simbolicamente la deviazione dall’ordine stabilito. La sabbia rovente e le fiamme evocano la passione sterile che ha consumato i dannati, trasformandola in tormento eterno. Significativamente, Dante non discute esplicitamente la colpa di Brunetto, creando una tensione interpretativa che ha affascinato generazioni di lettori.
Il rapporto tra maestro e discepolo emerge come tema di profonda rilevanza personale. Nonostante la condanna infernale, Dante mostra un rispetto quasi filiale verso Brunetto, chiamandolo maestro e indicandolo come colui che gli insegnò “come l’uom s’etterna”. Questo paradosso – amore intellettuale per un’anima dannata – solleva interrogativi sul complesso rapporto tra affetti terreni e giustizia divina. L’atteggiamento di Dante suggerisce che il valore dell’insegnamento possa trascendere le manchevolezze morali del maestro, pur senza negare la validità del giudizio divino.
La profezia dell’esilio e l’ingratitudine politica costituiscono un tema ricorrente nell’intera Commedia, che qui assume toni particolarmente personali. Le parole di Brunetto sul destino di Dante (“glorioso porto”) contrapposte all’ostilità del “nido di malizia” fiorentino articolano la visione dantesca della corruzione civica e dell’ingiustizia storica. L’immagine dei fiorentini come discendenti dei “bestie fiesolane” incapaci di apprezzare la virtù rappresenta la degenerazione morale della città, tema che Dante svilupperà ampiamente nei canti successivi.
Il valore della memoria e della parola scritta emerge come tema metapoetico cruciale. Il riferimento di Brunetto al suo “Tesoro” e la promessa di Dante di conservarne la “cara e buona imagine paterna” riflettono una riflessione sull’immortalità garantita dall’opera letteraria. In questa riflessione si legge in filigrana il progetto stesso della Commedia come veicolo di memoria e sapienza. L’incontro diviene così un momento di autoconsapevolezza poetica in cui Dante riflette sulla funzione salvifica della letteratura.
Il contrasto tra cultura terrena e sapienza divina si articola nel paradosso di un maestro intellettuale condannato all’Inferno. Brunetto, simbolo dell’eccellenza culturale del suo tempo, rappresenta i limiti della conoscenza umana quando separata dalla grazia divina. La sua collocazione infernale suggerisce che neppure il più alto sapere secolare possa sostituire la virtù morale e la rettitudine spirituale. Tuttavia, Dante riconosce il valore formativo di questo sapere nel proprio percorso intellettuale, creando una complessa dialettica tra cultura e moralità.
Il tema del tempo e dell’eternità attraversa il canto nella contrapposizione tra l’esistenza terrena, con le sue ambizioni e opere destinate a perire, e la condizione eterna delle anime nell’aldilà. La fretta di Brunetto, costretto a correre incessantemente, contrasta con il desiderio di prolungare il dialogo, creando una tensione drammatica che sottolinea la differenza tra dimensione temporale umana e condizione ultraterrena.
Infine, il complesso tema della giustizia divina emerge nel contrasto tra l’affetto personale di Dante e l’implacabile giudizio divino. L’episodio mostra come nell’ordine cosmico dantesco la simpatia umana non possa alterare la giustizia eterna, anche quando coinvolge figure personalmente care. Questo principio fondamentale della Commedia – l’oggettività del giudizio divino – si manifesta qui in tutta la sua drammatica evidenza.
Il Canto 15 dell’Inferno in pillole
Aspetto | Descrizione |
---|---|
Collocazione | Terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno, dedicato ai violenti contro natura (sodomiti) |
Ambientazione | Argine di pietra lungo il fiume Flegetonte, con sabbia rovente e pioggia di fuoco |
Contrappasso | I dannati corrono senza sosta sotto una pioggia di fuoco, simbolo della passione innaturale |
Personaggio centrale | Brunetto Latini, intellettuale fiorentino e maestro di Dante |
Altri dannati citati | Prisciano (grammatico), Francesco d’Accorso (giurista), Andrea de’ Mozzi (vescovo) |
Tema principale | Il rapporto maestro-discepolo tra Brunetto e Dante, caratterizzato da rispetto e affetto nonostante la condanna |
Profezia | Brunetto predice l’esilio di Dante da Firenze e l’ingratitudine dei fiorentini |
Similitudini | Argini paragonati a dighe fiamminghe; Brunetto che corre come i partecipanti al palio di Verona |
Figure retoriche | Metafore della navigazione (“glorioso porto”), analogie botaniche, personificazione di Firenze |
Stile | Dialogo affettivo e rispettoso in contrasto con l’ambiente infernale |
Messaggio allegorico | La cultura terrena (rappresentata dal Tesoro di Brunetto) è insufficiente senza la grazia divina |
Momento culminante | La promessa di Dante di conservare “la cara e buona imagine paterna” di Brunetto nella memoria |
Significato simbolico | Tensione tra l’affetto personale e il giudizio divino, tra memoria terrena ed eternità |